martedì 24 settembre 2013

Bartali vince ancora: Giusto tra le nazioni



Gino Bartali dichiarato "Giusto fra le Nazioni" dallo Yad Vashem. Ancora campione

(Adam Smulevich) Campione in corsa, campione fuori dal contorno agonistico. Il pubblico riconoscimento dello Yad Vashem rappresenta l’attesissimo suggello a una storia memorabile, quella di Gino Bartali dichiarato Giusto tra le Nazioni. Forse Ginettaccio sarebbe addirittura scontento di questo tributo in virtù del proverbiale «Il bene si fa, ma non si dice» che tanto l’ha reso celebre in Italia e nel mondo. Quel coraggio, quell’eroismo silenzioso di cui ancora oggi non si riesce a quantificare con esattezza l’immensa portata, merita però di essere conosciuto e apprezzato. Soprattutto da quelle nuove generazioni che nello sport, e in particolare nei suoi campioni, vedono un imprescindibile punto di riferimento. È in quest’ottica che si inserisce l’appello, per la ricerca di nuove testimonianze, pubblicato oltre tre anni fa da «Pagine Ebraiche» (cfr. Un albero anche per Ginettaccio, aprile 2010) con la collaborazione di Sara Funaro. Obiettivo: arrivare alla piantumazione di un albero alla sua memoria nel giardino dove sono omaggiati i nomi di quanti, a rischio della propria esistenza e senza percepire alcun compenso, scelsero la strada del coraggio e rifuggirono l’indifferenza.
Di Bartali era già noto l’impegno come staffetta clandestina ma a mancare, per lungo tempo, è stata la dichiarazione diretta di un sopravvissuto o di un suo discendente. Nel 2005 il ciclista fu insignito della medaglia d’oro al valore civile dal presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi «per aver salvato la vita a circa 800 ebrei». Stante questo riconoscimento, restavano però degli interrogativi irrisolti. Chi erano questi ebrei? Quali i loro nomi, i loro volti, le loro storie? Materiale di cui lo Yad Vashem, per dar seguito alla pratica, aveva assoluto bisogno.
I motivi di questa lacuna sono noti: oltre alla ritrosia di Ginettaccio, corredata da un’aneddotica leggendaria, la mancanza di un contatto diretto tra il ciclista e i tanti — uomini, donne e bambini — che beneficiarono del suo altruismo. Il corridore agiva infatti a stretto raccordo con una serie limitata di interlocutori: uomini della Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei, esponenti del clero toscano, falsari che gli procuravano nuove identità per ebrei e perseguitati politici in fuga dall’Italia.
Il primo incontro con Andrea Bartali, principale custode della memoria del padre, risale a quel periodo di rinnovato fermento attorno alla figura di Ginettaccio. Fu un pomeriggio memorabile, davanti a un caffè caldo e in compagnia della moglie di Gino, Adriana. Tanti gli argomenti toccati: dalla guerra alle vittorie nei grandi giri, dalle idee politiche alla profonda fede religiosa di cui tutti — in casa Bartali — erano partecipi. Impossibile non essere travolti da quella che Andrea, con affetto, ha chiamato «una storia d’amore».
L’amore, per Bartali, è stata la vita e la dignità dell’uomo prima di ogni altra cosa. È quanto emerge con le numerose testimonianze raccolte in seguito a quell’appello. Una su tutte, quella di Giorgio Goldenberg, descrive lo straordinario itinerario tracciato dal campione negli anni più bui. È la storia di un giovane ebreo fiumano, nascosto insieme alla sua famiglia in una casa in via del Bandino a Firenze. Giorgio, la sorella Tea, i genitori: quattro vite umane strappate alla barbarie della Shoah. L’iniziativa è di Gino e di suo cugino Armandino Sizzi, un duo affiatato ripetutamente esposto a pericoli ma incrollabile nella sua determinazione. Nessuno, oltre a loro, sapeva. Neanche Adriana, la compagna di una vita. Neanche una volta cessate le ostilità, quando tutto sarebbe stato più facile.
Gino si è portato questo segreto nella tomba finché Giorgio, raggiunto grazie all’intermediazione di Nardo Bonomi, ha rotto un silenzio protrattosi per quasi settant’anni. «Sono vivo — ha raccontato a «Pagine Ebraiche» — perché Gino Bartali ci nascose in cantina». Pochi giorni e una testimonianza a sua firma sarebbe arrivata nei cassetti dello Yad Vashem dando vigore a un carteggio già arricchitosi di molto materiale inedito.
La stessa procedura è stata infatti seguita da due testimoni cui il Memoriale dei Giusti riconosce — come si evince dalla scheda pubblicata il 23 settembre sul proprio sito ufficiale — un ruolo decisivo nell’intera vicenda: Renzo Ventura e Giulia Donati. Di Renzo Ventura, la cui famiglia fu tratta in salvo grazie ad alcuni documenti falsi, resta particolarmente impresso un momento: l’abbraccio, nell’inverno del 2010, con Andrea Bartali e una frase sussurrata all’orecchio («Senza suo padre non sarei qua») che dà il senso dell’immensa gratitudine che ancora oggi vive attraverso le generazioni.
Giulia Donati, la prima testimone raggiunta grazie a «Pagine Ebraiche», è invece protagonista di una vicenda di tutt’altro taglio. La sua è la storia di un clamoroso equivoco. Nascosta a Lido di Camaiore dalle sorelle Pacini, non ricevette la carta di identità recapitatagli al portone di casa perché Bartali non fu riconosciuto. Un episodio che avrebbe potuto gettarla nello sconforto e che le fu rivelato soltanto a Liberazione avvenuta. Oggi, dopo tanti anni, il bisogno di raccontare e condividere il passato. Il passato di un uomo giusto che vive ancora tra noi.
L'Osservatore Romano

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C’è voluto del tempo, ma alla fine Gino Bartali è arrivato anche al traguardo di Gerusalemme: lo Yad Vashem lo ha riconosciuto “Giusto tra le nazioni” per aver strappato alla morte gli ebrei perseguitati dal regime nazifascista. «Oh quanta strada nei miei sandali! Quanta ne avrà fatta Bartali...», canta Paolo Conte. In carriera il Ginettaccio si calcola che avesse coperto in sella a una bicicletta la bellezza di «700mila chilometri».

Ma di tutte le «tappe vinte», la meno nota, la più anomala e straordinaria fu quella Firenze-Assisi e ritorno nel capoluogo toscano, che tra l’ottobre del 1943 e il giugno 1944 Bartali corse almeno «una quarantina di volte» per trarre in salvo gli ebrei in clandestinità. Una tappa temeraria, di «trecentottanta chilometri» percorsi a perdifiato in una sola giornata per consegnare nella città di San Francesco documenti di vitale importanza per gli ebrei tenuti nascosti da padre Rufino Niccacci. Nota era la fede di Bartali, la precoce entrata nelle file dell’Azione Cattolica, l’appartenenza ai terziari carmelitani, il legame stretto con papa Pio XII e i contatti tenuti con Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira.

Così come note erano state le gesta eroiche del ciclista per salvare gli ebrei rifugiati nella città di San Francesco, raccontate nel libro dello scrittore e regista Alex Ramati "Assisi underground" (titolo dell’omonimo film). Eppure quella tappa è rimasta a lungo «clandestina» alla storia e per espressa volontà del corridore. Bartali in vita minacciò di «querele» coloro che avessero svelato i particolari del suo coinvolgimento all’operazione «Assisi underground».

Le ragioni del silenzio erano tutte in quel monito di umile trasparenza tramandato dal buon Ginettaccio al figlio Andrea: «Certe cose si fanno e basta. Io voglio essere ricordato per le mie imprese sportive e non come un eroe di guerra... Io mi sono limitato a fare ciò che sapevo fare meglio. Andare in bicicletta». E in sella a quella bicicletta «verde ramarro», maglione di lana e calzoni di flanella per ripararsi dal freddo pungente di quell’autunno gelido di morte, Bartali era pronto al via. Partenza da casa sua, in piazza del Bandino, con prima sosta in via dello Studio alla chiesetta del Collegio Eugeniano: ad attenderlo don Giacomo Meneghello, il segretario del cardinale Elia Dalla Costa, che gli consegnava dei documenti della massima segretezza da portare ad Assisi. Una corsa piena di insidie, cominciata alle 6.30 del mattino dopo aver partecipato alla Messa.

Un tracciato da fare con il cuore in gola, senza destare sospetti, perché i suoi strani viaggi gli erano già costati tre giorni di carcere in via della Scala e il suo nome era da tempo nelle liste nere. «L’Ovra aveva messo una spia fissa a controllare i suoi spostamenti - racconta Paolo Alberati nel suo libro Gino Bartali. Mille diavoli in corpo (Giunti)”. Era stato un giornalista sportivo, Franco Monza, esperto di motori, che aveva cominciato a seguire anche le gare di quello che nell’elenco dei sospettati venne schedato come Bartali Gino, n° 576. Poca roba sul suo conto, visto che la spia riferiva ai suoi superiori: «Un tipo molto strano questo Bartali che ad ogni vittoria ringrazia sempre Dio e la Madonna invece di dedicare il successo al nostro Duce».

L’antifascismo indomito, unito all’amore per il prossimo rendeva ancora più veloce il pedale del fuoriclasse che aveva già vinto due edizioni del Giro d’Italia nel 1936 e nel’37 (poi vincerà il terzo nel ’46). Un «tappone» da portare a termine con il coraggio dell’italiano che è riuscito sfidare e battere i francesi a casa loro conquistando il Tour del 1938 (sarà l’unico ciclista al mondo a rivincere la Grand Boucle a dieci anni di distanza, nel 1948). Ecco le fasi salienti di quella corsa che lo ha reso “Giusto tra le nazioni” Bartali scala con calma il San Donato e va giù ancora lento per il Valdarno.

Taglia la nebbia a Reggello dove nella bottega del calzolaio dei ciclisti Gennaro Cellai, fa rifornimento di informazioni sulle strade da evitare, quelle più battute dalle pattuglie e le camionette fasciste e naziste. Un percorso minato, da compiere nel minor tempo possibile. Per questo accelera nel tratto che da Arezzo imbocca la Statale 71 in direzione di Perugia. Alle 9,50 il campione fa una sosta al bar della stazione di Terontola gestito da Leo Lipparelli. Quel passaggio è studiato apposta con il Lipparelli per consentire la fuga degli antifascisti della zona. Nella gran bolgia che creano i tanti tifosi, quella massa di indesiderati dal regime riesce a imboscarsi sui vagoni e a mettersi in salvo dai controlli della milizia, che si concede la libertà di avvicinare il famoso ciclista per chiedergli il memorabile autografo.

Da qui Bartali riprende spedito: costeggia il Trasimeno e rivede Castiglion del Lago, dove appena qualche mese prima era stato al servizio dell’Aeronautica in qualità di «portalettere» in bicicletta. Comincia a far tardi e non c'è gruppo che insegue più tetro e invisibile di quello che il campione sente a ruota. Ma il fiato lo assiste come sempre e vola sulla piana che da Ponte San Giovanni porta alla basilica di Santa Maria degli Angeli, in uno sprint-record di 21 minuti, alla velocità di 43 km orari (su una bicicletta del peso di quasi 15 chili, il doppio di quelle odierne).

Tempi buoni per rivincere una Milano-Sanremo -due ne vinse in carriera- e lo spirito è lo stesso, con in più la motivazione umanitaria che lo spinge sul podio più alto: all’ora di pranzo è ad Assisi, al convento  delle clarisse di San Quirico. Luogo dove neppure i saraceni avevano osato entrare, e invece le due suorine di clausura Eleonora e Alfonsina, tante volte avevano accolto e rifocillato un Bartali sfinito, ma con il cuore gonfio di gioia e d’orgoglio.

Ad Assisi Bartali consegna le carte d’identità da falsificare con la macchina Felix della tipografia di Luigi Brizi, che col figlio Trento dà nuova nazionalità alle persone che padre Rufino nasconde nei conventi di Assisi. Alle 14,30, con i documenti celati nella canna verticale sotto il sellino, Bartali prende la strada di casa, dove arriva alle 19,30 spaccate. Fine della corsa? No, perché avverte che ormai è braccato e decide di andare in fuga per un po’ e mettere a riparo la famiglia. Andrà a Nuvole (vicino a Città di Castello) nella casa dell’amico Nello Capaccioni. Di tutto questo non dirà mai nulla, ma oggi sappiamo bene quanta fatica e quanta strada ha fatto Bartali per salvare uomini, donne e bambini dal tragico olocausto nazifascista.

Massimiliano Castellani (Avvenire)