lunedì 23 settembre 2013

Il virus dell’individualismo



Aperti dal cardinale presidente Bagnasco i lavori del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana.

C’è un «virus» che si annida quasi indisturbato nel terreno accidentato della nostra epoca. E avvelena la vita, dei singoli come di interi popoli. È la «radice avvelenata» dell’«individualismo», che «corrompe con la promessa di una felicità maggiore» e finisce per avere «esiti disumani». Come dimostrano anche recenti tragici fatti di cronaca, a partire dalla recrudescenza della violenza sulle donne, e, sullo scenario internazionale, i venti di guerra che soffiano in Siria e in tutto il Medio Oriente, e il dramma dell’immigrazione.
È quanto, in sintesi, mette in evidenza la prolusione con cui il cardinale arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), apre a Roma nel pomeriggio di oggi, lunedì 23, i lavori del Consiglio permanente dell’episcopato. Un intervento che prende spunto da «alcune suggestioni» fornite dal magistero di Papa Francesco, in particolare dall’esperienza ancora viva della Giornata mondiale della gioventù celebrata nel luglio scorso a Rio de Janeiro, e che poi approda a esaminare gli interrogativi che insistentemente pone la «frontiera della storia». A cominciare dalla situazione italiana, dove quello dell’occupazione deve essere il «primo, urgentissimo obiettivo» che devono tenere a cuore i responsabili della cosa pubblica, e dove, anche per questo, «l’ora esige una sempre più intensa e stabile concentrazione di energie», così che «ogni atto irresponsabile» è destinato a passare al «giudizio della storia».
Partendo dunque dalle giornate di Rio — «quell’immenso raduno ha ammaestrato anche noi vescovi» e ci ha «stimolati affinché le nostre Chiese possano migliorare le occasioni e le strutture per una formazione qualificata» — il presidente della Cei si sofferma pertanto sul «momento storico che attraversiamo», nell’«intento di offrire un contributo alla lettura di un’epoca che non è di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca». In questo senso, avverte il porporato, pur «in mezzo a un fermento di istanze positive, gioie e preoccupazioni, sentiamo il dovere di ricordare una radice avvelenata che non sempre è presa nella debita considerazione: il virus dell’individualismo. Il suolo umano, infatti, si sta impoverendo e si svuota di relazioni, legami, responsabilità, divenendo così friabile e inconsistente». E l’uomo stesso finisce per diventare di «sabbia», come «schiacciato dall’urgenza di farsi da sé in una competizione continua», mentre «lo Stato, sul piano giuridico, si trasforma in una sorta di nobile notaio dei desideri, delle istanze e forse delle pretese dei singoli». In sostanza, «il grande sogno dell’individualismo, che ha segnato l’uomo moderno, lo ha condotto nella post-modernità a una imbarazzante scoperta: il sogno non ha tenuto». Sembra quasi che «il bisogno di sentirsi “vivi”, “al mondo”, non avvenga più attraverso la normalità delle buone relazioni quotidiane — in famiglia, nell’amicizia, nel lavoro — ma nel brivido comunque acquisito, fino al disprezzo della vita propria e altrui». Anche qui, «la prospettiva autoreferenziale, insofferente ai legami, porta con sé un carico di violenza che anche i drammatici fatti di cronaca, sempre più numerosi, testimoniano, a partire dalla violenza sulle donne». A questo proposito, «sembra che l’opinione pubblica abbia cominciato una specie di rimonta su questo versante culturale, riscontrando gli esiti catastrofici sul piano sociale, economico e politico. Ma bisogna invertire più in fretta la marcia». E perché ciò avvenga «sono necessari gli sforzi concentrati e costanti degli operatori culturali ed educativi a ogni livello».
Tuttavia, l’individualismo avvelena anche lo scenario internazionale, come dimostrano le «aperte e continue forme di discriminazione e di intolleranza». Infatti, «in troppe parti del mondo la violenza, specialmente contro i cristiani, non solo continua ma addirittura sembra intensificarsi. Dio non vuole questo, e la comunità internazionale continua a essere tiepida facendo finta di non vedere». Per questo, aggiunge il porporato, «eleviamo forte la nostra voce, perché il rispetto e la convivenza si affermino in modo chiaro e definitivo». Purtroppo, però, l’individualismo, che è «intollerante anche sul piano delle culture», mostra spesso «il suo ghigno beffardo facendo prevalere gli interessi economici e politici di parte, senza tener conto del bene comune del pianeta, cioè dell’umanità con le sue differenti storie e condizioni». In questo senso, «una parola di sincera prossimità va alla Siria, alle centomila vittime dei combattimenti, ai due milioni di profughi, all’intera popolazione che da troppo tempo vive nella violenza e nella paura. Ma anche all’intero Medio Oriente, a cominciare dalla Terra Santa». E ricordando l’appello per la giornata di preghiera e di digiuno per la pace voluta da Papa Francesco, il cardinale Bagnasco ha sottolineato come essa «sia stata una ispirazione seguita non solo dai cattolici e dai cristiani, ma anche da credenti di altre religioni e da non credenti», auspicando che «il Signore doni saggezza ai responsabili delle Nazioni, sapendo che la guerra non produce la pace, ma genera violenza, odio, vendetta».
Quanto alla situazione italiana, il porporato sottolinea come l’episcopato sia chiamato a «dare voce alla gente», specialmente «in tempi che continuano a essere duri e non se ne vede ancora la fine». Infatti, «non ci si può illudere che tutto sia nuovamente a portata di mano come prima: grande impegno viene profuso dai responsabili della cosa pubblica, ma i proclamati segnali di ripresa non sembrano dare, finora, frutti concreti». In particolare sul fronte dell’occupazione, specialmente quella giovanile (il cui tasso di disoccupazione ha superato il 37 per cento), «e tutti sappiamo che, senza opportunità, i giovani sono costretti a farsi emigranti, impoverendo giocoforza il Paese di giovinezza e di competenze». Per non dire — ha aggiunto citando alcuni passi del discorso di Papa Francesco a Cagliari — «quanti vivono nella paura di perdere il posto di lavoro a breve». Pur non avendo «ricette di ordine tecnico», il presidente dell’episcopato ricorda però che «la macchina del Paese ha un cuore e un motore», che si chiama famiglia. «Essa è un capitale umano che genera ricchezza per la società intera. Sotto questo profilo, l’auspicato “fattore familiare” rappresenterebbe non una elargizione, ma un riconoscimento e una sorta di restituzione di quanto la famiglia “produce” in termini di benessere generale». Per questa ragione, «lo Stato non è necessitato a impegnarsi con ogni desiderio individuale o relazione, ma solo con quelle realtà che hanno rilevanza per il “corpo sociale”». Occorre contrastare quella specie di «neo-maltusianismo economicistico», quella «cultura dello scarto che si fa avanti ormai a viso aperto».
L'Osservatore Romano