domenica 27 ottobre 2013

28 ottobre. Santi Giuda e Taddeo



E la cosa bella è che nel gruppo dei suoi seguaci, 
tutti, benché diversi, coesistevano insieme, 
superando le immaginabili difficoltà: 
era Gesù stesso, infatti, il motivo di coesione, 
nel quale tutti si ritrovavano uniti. 
Questo costituisce chiaramente una lezione per noi, 
spesso inclini a sottolineare le differenze 
e magari le contrapposizioni, 
dimenticando che in Gesù Cristo 
ci è data la forza per comporre le nostre conflittualità.
Il gruppo dei Dodici è la prefigurazione della Chiesa, 
nella quale devono avere spazio tutti i carismi, 
i popoli, le razze, tutte le qualità umane, 
che trovano la loro composizione e la loro unità nella comunione con Gesù.

Benedetto XVI, 11 ottobre 2006





Dal Vangelo secondo Luca 6,12-16

Avvenne che in quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione.
Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore.


Il commento

La nostra chiamata sorge dall'aurora di Pasqua. Gesù infatti chiama i Dodici al termine di una lunga notte di preghiera, e li costituisce "apostoli". Apostoli deriva dal greco "apostello", che significa "persone inviate appositamente da un Altro". In ambiente ebraico vi era lo "schaliah", l'inviato, il procuratore nel quale era considerato presente colui che lo inviava; tutto quello che l'inviato faceva era considerato come fatto da colui che lo aveva inviato. Nel Talmud si legge: " Lo schaliah di una persona è un altro se stesso".

Gesù è l'Apostolo del Padre, l'incarnazione viva e reale, qui ed oggi, dell'amore infinito di Dio. Gesù è uscito dal segreto del Padre per entrare nella notte dei nostri peccati e della nostra morte. Nell'agone definitivo ha vinto il nostro egoismo. Il monte dove Gesù è salito a pregare è "il luogo della sua solitudine, in cui si rivolge al Padre. E' l'espressione dell'interiore ascesa al di sopra degli invischiamenti nelle cose di tutti i giorni. La vocazione dei discepoli nasce nel colloquio di Gesù con il Padre. Se vogliamo scoprire la nostra vocazione, accoglierla e portarla a maturazione, dobbiamo scoprire il monte di Gesù: la liberazione dalle cose di tutti i giorni, il contatto con il Dio vivente, dove si ascolta la voce di Gesù" (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, p. 89).

Gesù nella preghiera ha ascoltato il grido sofferente dell'umanità. La notte sul monte è stato l'immergersi nella notte che ha inghiottito l'uomo di ogni generazione sopraffatto dall'inganno del demonio. Gesù, come Mosè "dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti" (Gregorio Magno, Regola pastorale, SCh 381, 198) sul monte che già prefigurava la Croce, si è lasciato incalzare dal dolore di ogni uomo; il peccato lo ha crocifisso e spinto nella notte della morte dalla quale è però uscito vittorioso nell'alba della risurrezione. La nostra chiamata nasce da questo mistero d'amore. I nostri nomi sono risuonati nel cuore di Cristo accanto al grido di dolore dell'umanità. Per questo il Signore ci ha raggiunti e amati così, schiavi di essere sempre e solo apostoli di noi stessi. Nella nostra notte, quella che forse stiamo vivendo ora, la Sua preghiera ci ha liberati e all'alba della risurrezione ci ha chiamati ad essere Lui per questa generazione. Famiglia, lavoro, studio, gioie e dolori, ogni momento è uno sguardo d'amore di Cristo impresso nel nostro stesso sguardo, la Sua vittoria che scaturisce dalla nostra vita per la salvezza del mondo. Il nostro nome nel Suo Nome. Noi in Lui. Apostoli di Cristo, figli del suo amore. Il nostro nome chiamato è segno di una vita consegnata al dolore dell'umanità. Tutto di noi è a servizio di questa generazione; nulla della nostra esistenza è estraneo al dolore e ai bisogni di chi ci è posto accanto, di coloro ai quali siamo inviati. Nel nostro nome risuona la voce di Gesù, e con essa ci incalza il peso dei sofferenti. Dietro ogni evento della nostra vita si nascondono i volti dei poveri, dei peccatori, degli schiavi. A loro siamo inviati, ogni istante, in ogni luogo.

"Ma dov’è Dio? Lo conosciamo e possiamo mostrarLo nuovamente all’umanità per fondare una vera pace?" (Benedetto XVI, Discorso ad Assisi, 27 ottobre 2011). Ciascuno di noi, misteriosamente, annuncia la risposta di Dio al grido di dolore del mondo, perchè la risposta è stata, è e sarà Cristo morto e risorto. In Lui non solo annunciamo, ma siamo noi stessi la risposta. Dirà Gesù di fronte alla fame delle folle: "Dategli voi stessi da mangiare". La risposta alla fame è tutta in quel "voi stessi". La sua Parola chiama all'esistenza, moltiplica e distribuisce; la sua chiamata ci ha tratti dalla morte alla vita, ha dato senso e pienezza alla nostra esistenza, e così ne ha fatto un dono per l'umanità. Possiamo dare noi stessi da mangiare perché Lui è in noi e noi ormai siamo Lui. Per questo è necessario che Dio parli lo stesso linguaggio dell'uomo, di quello concreto a cui siamo inviati. Ciò significa che, per essere una risposta autentica, credibile e comprensibile Dio ci conduce nella medesima vita, nelle medesime sofferenze dell'umanità. L'apostolo è la voce stessa di Dio, ed è sintonizzata sul dolore; ciò significa che lo condivide, che lo sperimenta in tutto, come ogni altro uomo. Per essere la risposta di Dio occorre dunque parlare la stessa lingua di chi soffre: ammalarsi, essere traditi, abbandonati, sperimentare la solitudine e l'ingiustizia, perché in tutto brilli la speranza dell'amore che ha vinto il peccato e la morte. Se moltissimi nel mondo non riescono a trovare Dio "dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio – il vero Dio – diventi accessibile" (Benedetto XVI,Discorso ad Assisi, 27 ottobre 2011). E' questo il cammino dell'incarnazione, che depone un seme di vita eterna nella carne soggetta alla corruzione. 

Non siamo apostoli per la nostra volontà, per un desiderio, per quanto nobile sia. E' Gesù che costituì, che fece i Dodici. E' opera sua, come la nostra stessa vita è una sua opera che scaturisce dalla sua intimità con il Padre. Mette i brividi pensare al grande mistero della profonda intimità con Gesù alla quale e per la quale siamo stati chiamati. Essa giunge al punto di far di noi degli alter Christus, degli altri Cristo, condividendo con Lui vita e missione. Gesù è sceso in missione sulla terra uscendo dall'intimità con il Padre per cercare e salvare la pecora perduta. Si è consumato nell'amore che lo ha gettato all'ultimo posto, il posto più lontano dal Padre, scavalcando in una corsa a ritroso, il peccatore più grande della storia. L'ultimo posto di Gesù perché nessuno resti escluso dalla salvezza. Nell'ultimo posto di Gesù vi è il nostro ultimo posto, quello dell'apostolo, quello che ci è riservato ogni giorno. E' esattamente dove i fatti della nostra vita ci conducono che siamo inviati in missione. E' nella difficoltà sul lavoro, in famiglia, dove e con chi sia, che siamo mandati ad essere Cristo stesso, a portare la salvezza, a caricarsi dei peccati del mondo, o meglio a lasciare che Cristo li carichi sulle sue spalle che ha preso in prestito da noi. E' questa la missione, la chiamata che ci ha raggiunti, l'amore che consuma il male consumando la nostra vita, perché il mondo riceva la vita, quella vera che ci è data e che sovrabbonda in noi.

"Dodici è il numero delle tribù di Israele, ma è anche il numero delle costellazioni che scandiscono il ritmo dell'anno. Questo nuovo popolo è così votato alla conformità tra cielo e terra: sia fatta la tua volontà come in Cielo così in terra. Il cammino che qui si intraprende, decide per il cielo e per la terra e li rende conformi. I dodici, che qui sono stati chiamati, diventano per così dire le nuove costellazioni della storia, che ci indicano il cammino attraverso i secoli" (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, p. 91) . Così, se la Chiesa, la comunità della quale siamo parte è la costellazione della storia che indica la salvezza e la via a Dio, la nostra esistenza è una stella, che si consuma brillando, luce purissima che brucia peccati e debolezze, il fuoco dell'amore infinito di Dio riversato in noi perchè tutto di noi sia un segno sicuro e autentico del Cielo.


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APPROFONDIMENTI E NOVENA
Benedetto XVI. Discorso ad Assisi, 27 ottobre 2011



Se una tipologia fondamentale di violenza viene oggi motivata religiosamente, ponendo con ciò le religioni di fronte alla questione circa la loro natura e costringendo tutti noi ad una purificazione, una seconda tipologia di violenza dall’aspetto multiforme ha una motivazione esattamente opposta: è la conseguenza dell’assenza di Dio, della sua negazione e della perdita di umanità che va di pari passo con ciò. I nemici della religione – come abbiamo detto – vedono in questa una fonte primaria di violenza nella storia dell’umanità e pretendono quindi la scomparsa della religione. Ma il “no” a Dio ha prodotto crudeltà e una violenza senza misura, che è stata possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna norma e alcun giudice al di sopra di sé, ma prendeva come norma soltanto se stesso. Gli orrori dei campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza le conseguenze dell’assenza di Dio.


Qui non vorrei però soffermarmi sull’ateismo prescritto dallo Stato; vorrei piuttosto parlare della “decadenza” dell’uomo, in conseguenza della quale si realizza in modo silenzioso, e quindi più pericoloso, un cambiamento del clima spirituale. L’adorazione di mammona, dell’avere e del potere, si rivela una contro-religione, in cui non conta più l’uomo, ma solo il vantaggio personale. Il desiderio di felicità degenera, ad esempio, in una brama sfrenata e disumana quale si manifesta nel dominio della droga con le sue diverse forme. Vi sono i grandi, che con essa fanno i loro affari, e poi i tanti che da essa vengono sedotti e rovinati sia nel corpo che nell’animo. La violenza diventa una cosa normale e minaccia di distruggere in alcune parti del mondo la nostra gioventù. Poiché la violenza diventa cosa normale, la pace è distrutta e in questa mancanza di pace l’uomo distrugge se stesso.


L’assenza di Dio porta al decadimento dell’uomo e dell’umanesimo. Ma dov’è Dio? Lo conosciamo e possiamo mostrarLo nuovamente all’umanità per fondare una vera pace? Riassumiamo anzitutto brevemente le nostre riflessioni fatte finora. Ho detto che esiste una concezione e un uso della religione attraverso il quale essa diventa fonte di violenza, mentre l’orientamento dell’uomo verso Dio, vissuto rettamente, è una forza di pace. In tale contesto ho rimandato alla necessità del dialogo, e parlato della purificazione, sempre necessaria, della religione vissuta. Dall’altra parte, ho affermato che la negazione di Dio corrompe l’uomo, lo priva di misure e lo conduce alla violenza.


Accanto alle due realtà di religione e anti-religione esiste, nel mondo in espansione dell’agnosticismo, anche un altro orientamento di fondo: persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio. Persone del genere non affermano semplicemente: "Non esiste alcun Dio". Esse soffrono a motivo della sua assenza e, cercando il vero e il buono, sono interiormente in cammino verso di Lui. Sono "pellegrini della verità, pellegrini della pace". Pongono domande sia all’una che all’altra parte. Tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c’è un Dio, e li invitano a diventare, invece che polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista e che noi possiamo e dobbiamo vivere in funzione di essa. Ma chiamano in causa anche gli aderenti alle religioni, perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri. Queste persone cercano la verità, cercano il vero Dio, la cui immagine nelle religioni, a causa del modo nel quale non di rado sono praticate, è non raramente nascosta. Che essi non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio – il vero Dio – diventi accessibile.




NOVENA PERPETUA IN ONORE Dl SAN GIUDA TADDEO
(da recitarsi nei casi difficili della vita)

San Giuda, Apostolo glorioso, fedele servo e amico di Gesù! La Chiesa ti onora e ti invoca universalmente come patrono dei bisognosi.
Prega per me, che sono tanto miserabile, per quel particolare privilegio a te concesso di venire prontamente in aiuto dov'è più urgente … Vieni in mio aiuto in questa grande necessità così che io possa ricevere la consolazione e la protezione del Cielo in tutte le mie tribolazioni e sofferenze, particolarmente… (qui si faccia la propria domanda), e possa benedire Dio con te e con tutti gli eletti per tutta l'eternità. 
Io ti prometto, o beato San Giuda, di essere sempre riconoscente di questo grande favore, e non smetterò mai di onorarti come mio speciale e potente Patrono e di fare quanto sarà in mio potere per incoraggiare la devozione verso di te. Amen.
San Giuda, prega per noi e per tutti quelli che invocano il tuo aiuto.
San Giuda, soccorso dei disperati, aiutami nella mia afflizione!
Prega per noi, affinché ci sia dato di essere ammessi nella compagnia dei beati, per godere eternamente alla presenza di Dio. Amen.
Beato Apostolo, noi ti invochiamo con fiducia!
Prega per noi, affinché prima della morte possiamo espiare tutti i nostri peccati con un sincero pentimento e col ricevere degnamente i Santi Sacramenti.

ORAZIONE

Apostolo glorioso, S. Giuda Taddeo, che portasti la vera fede alle nazioni più lontane, che guadagnasti all'obbedienza di Gesù Cristo molti popoli con il potere della tua santa parola, concedimi, te ne supplico, che da questo giorno io rinunci ad ogni peccato, che sia preservato da tutti i cattivi pensieri e possa sempre ottenere la tua protezione, particolarmente in ogni pericolo e difficoltà, e che possa giungere salvo alla Patria celeste, per adorare con te la Santissima Trinità, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.


SAN GIUDA TADDEO

    Nato a Nazareth, in Galilea, da Alfeo, fratello di San Giuseppe e da Maria di Cleofe, una delle pie donne che secondo la narrazione evangelica accompagnarono Gesù al Calvario e a cui gli angeli annunziarono la Resurrezione il lunedì di Pasqua.
    Giuda Taddeo, soprannominato Taddeo "Thad" che significa "dolce, misericordioso, amabile, generoso" e "Lebbeo", coraggioso, era quindi della stirpe regale di Davide e cugino di Gesù.
    Quasi coetaneo del Salvatore, San Giuda trascorse con Lui la sua infanzia.
    Animo generoso e sensibilissimo, dallo sguardo penetrante e dal sorriso dolce e amabile come quello di Gesù, di bell'aspetto, Giuda fu uno dei primi a ricevere la chiamata ad essere Apostolo; seguì per tutta la vita senza tentennamenti e con eroica fermezza la chiamata del Signore.
La sua esistenza, durante la vita pubblica di Gesù, si confonde con quella degli altri Apostoli.
    Con loro segue il Maestro nel Suo viaggiare per le terre palestinesi ed è ancora con loro, accanto a Gesù, nei giorni che precedono la crocifissione. Fu quindi uno dei dodici Apostoli e nell'Ultima Cena domandò a Cristo come mai si fosse manifestato solo agli Apostoli e non a tutto il mondo (Gv. 14,22).
    E' l'unica frase che il Vangelo riporta di lui e che illumina il suo entusiasmo verso la Parola di Gesù, tanto che vorrebbe fosse conosciuto da tutto il mondo.
    Secondo il martirologio romano il campo di azione apostolica di S. Giuda fu vastissimo: evangelizzò prima la Giudea, poi la Mesopotamia ed infine la Persia, portando ovunque il lume della verità. 
    Fu in una di queste province che l'Apostolo indirizzò ai fedeli una lettera, vergata con stile vivacissimo, per combattere eretici, bestemmiatori, sleali che con le loro false dottrine travisavano le questioni fondamentali della Fede, mentre davano scandalo per le sregolatezze dei loro costumi.
    In Persia Giuda Taddeo si ricongiunse con Simone il Cananeo ed insieme evangelizzarono la regione; con i miracoli e con la dottrina convertirono alla Fede quelle nazioni barbare. Gli indovini e gli stregoni del posto, preoccupati e invidiosi, incitarono alla rivolta gli abitanti. Giuda e Simone si rifiutarono di sottomettersi ai loro dei e di fare sacrifici e furono martirizzati.
    Alcuni sostengono a colpi di bastone, altri decapitati con la spada, o un'ascia. Si ritiene che il martirio sia avvenuto l'anno 70 d.C. La Chiesa celebra la ricorrenza il 28 Ottobre giorno del loro martirio. I resti mortali dei due Santi Apostoli vennero in seguito trasportati da Babilonia a Roma e depositati nella Basilica di S. Pietro nella cappella laterale di S. Giuseppe (detta anche della Penitenza), a sinistra della Confessione. Purtroppo il nome di San Giuda Taddeo viene spesso dimenticato o confuso con quello del traditore, Giuda Iscariota. La Chiesa e il popolo cristiano lo onora e lo invoca con singolare fiducia fin dal secolo XVIII quale patrono dei casi disperati, degli affari senza rimedio, il Santo degli impossibili.
    Dio ha concesso a S. Giuda poteri straordinari ed è specialmente in casi difficili che il suo mirabile aiuto viene esperimentato.
Migliaia di persone invocano quotidianamente il suo intervento e molte loro preghiere sono state esaudite in modo miracoloso, anche quando la domanda sembrava senza speranza.
    Qualunque sia la malattia, la povertà e la miseria, l'angustia del cuore e dell'anima, perfino la disperazione, si può ricorrere a questo grande Santo e chiedere la sua potente intercessione.


SAN SIMONE

Le notizie pervenuteci su Simone ci attestano un appellativo, che Vangeli e Atti degli Apostoli riportano in due diverse forme (“cananeo” e “zelota”), entrambe dal significato di “ardente di zelo”. L’errata interpretazione del termine “cananeo” ha fatto sì che la Chiesa orientale lo abbia identificato con Natanaele di Cana, nome invece da riferirsi all’apostolo Bartolomeo. Alcuni hanno invece voluto attribuire all’appellativo “zelota” un valore indicativo dell’appartenenza alla setta politico-religiosa antiromana degli Zeloti, ma si tratta di un’ipotesi che non riceve alcuna conferma dai testi antichi, sia canonici che apocrifi. Un’interpretazione che già appare nell’antichità, nella Chiesa abissina, lo identifica invece con Simeone figlio di Cleofa, cugino di Gesù e fratello dell’apostolo Giacomo il Minore, al quale succedette nel 62 nella guida della Chiesa di Gerusalemme, fino alla morte che avvenne sotto l’imperatore Traiano. Così viene descritto il martirio da Egesippo, vissuto nel II secolo e citato da Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica, III, 32, 3. 6): «Alcuni di questi eretici accusarono Simeone, figlio di Cleofa, di essere discendente di Davide e cristiano; egli subì così il martirio, all’età di centoventi anni, sotto Traiano Cesare e il consolare Attico. […] il figlio dello zio del Signore, il suddetto Simeone figlio di Cleofa, fu denunciato dagli eretici e giudicato anch’egli per lo stesso motivo, sotto il consolare Attico. Torturato per molti giorni, testimoniò la sua fede in modo tale, che tutti, compreso il consolare, si stupirono di come un uomo di centoventi anni potesse resistere tanto; e fu condannato alla crocifissione». La menzione di Attico, cioè Tiberio Claudio Attico Erode, legato di Giudea dal 100 al 103, pone il martirio di Simeone ai primi anni del regno di Traiano, a Pella in Palestina, come si deduce ancora da Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica, III, 5, 3). 
È invece evidentemente un’altra persona il Simone che, secondo la tradizione del Breviario Romano, predicò in Egitto e, insieme all’apostolo Giuda Taddeo, in Mesopotamia. I due apostoli figurano insieme anche nella notizia di san Fortunato, vescovo di Poitiers alla fine del VI secolo, che, riprendendo l’apocrifa Passio Simonis et Iudae, indica per entrambi il martirio comune (uccisi a bastonate) verso l’anno 70 a opera di pagani in Persia, nella città di Suanir (probabilmente nella Colchide); e la loro sepoltura sarebbe stata in Babilonia. Altre tradizioni nominano per il martirio le vicine regioni dell’Armenia e dell’Iberia caucasica; mentre una tarda tradizione orientale (affermata dal monaco Epifane, IX secolo) conosce una tomba di Simone a Nicopsis, nel Caucaso occidentale. Insomma, l’area geografica indicata dalle diverse tradizioni sembra essere comunque abbastanza circoscritta. 
Per quanto riguarda la modalità del martirio, si innesta nella tradizione occidentale (quella cioè che accomuna nel martirio Simone e Giuda Taddeo) l’influsso della medievale Leggenda aurea di Iacopo da Varagine, e a Simone viene attribuito lo stesso martirio subito dal profeta Isaia, così che egli viene spesso rappresentato segato in due. 
Nel Medioevo le reliquie di Simone, sempre unito a Giuda Taddeo, erano venerate nella antica Basilica di San Pietro in Vaticano, nella quale esisteva un altare a loro dedicato. Dal 27 ottobre 1605 sono collocate presso l’altare al centro dell’abside del transetto sinistro della nuova Basilica (tribuna dei Santi Apostoli Simone e Giuda), che nel 1963 è stato dedicato a san Giuseppe patrono della Chiesa universale.


Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi

Dal «Commento sul vangelo di Giovanni» di san Cirillo d'Alessandria, vescovo
(Lib. 12, 1; PG 74, 707-710)

Nostro Signore Gesù Cristo stabilì le guide, i maestri del mondo e i dispensatori dei suoi divini misteri. Volle inoltre che essi risplendessero come luminari e rischiassero non soltanto il paese dei Giudei, ma anche tutti gli altri che si trovano sotto il sole e tutti gli uomini che popolano la terra. E' verace perciò colui che afferma: «Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio» (Eb 5, 4). Nostro Signore Gesù Cristo ha rivestito gli apostoli di una grande dignità a preferenza di tutti gli altri discepoli.

I suoi apostoli furono le colonne e il fondamento della verità. Cristo afferma di aver dato loro la stessa missione che ebbe dal Padre. Mostrò così la grandezza dell'apostolato e la gloria incomparabile del loro ufficio, ma con ciò fece comprendere anche qual è la funzione del ministero apostolico.

Egli dunque pensava di dover mandare i suoi apostoli allo stesso modo con cui il Padre aveva mandato lui. Perciò era necessario che lo imitassero perfettamente e per questo conoscessero esattamente il mandato affidato al Figlio dal Padre. Ecco perché spiega molte volte la natura della sua missione. Una volta dice: Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori alla conversione (cfr. Mt 9, 13). Un'altra volta afferma: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38). Infatti «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3, 17).

Riassumendo perciò in poche parole le norme dell'apostolato, dice di averli mandati come egli stesso fu mandato dal Padre, perché da ciò imparassero che il loro preciso compito era quello di chiamare i peccatori a penitenza, di guarire i malati sia di corpo che di spirito, di non cercare nell'amministrazione dei beni di Dio la propria volontà, ma quella di colui da cui sono stati inviati e di salvare il mondo con il suo genuino insegnamento.

Fino a qual punto gli apostoli si siano sforzati di segnalarsi in tutto ciò, non sarà difficile conoscerlo se si leggeranno anche solo gli Atti degli Apostoli e gli scritti di san Paolo.