mercoledì 23 ottobre 2013

Cristologia dal basso



Il contributo di Benedetto XVI alla ricerca sul Gesù storico. 

Simposio della Fondazione Ratzinger. Si apre il 24 ottobre alla Pontificia Università Lateranense il simposio della Fondazione Joseph Ratzinger «I Vangeli: storia e cristologia. La ricerca di Joseph Ratzinger». Anticipiamo un estratto di una delle relazioni. Il simposio si concluderà, sabato 26 in Vaticano, con la consegna da parte di Papa Francesco del Premio Joseph Ratzinger.
(John P. Meier) Mentre ci riuniamo per rendere omaggio all’attività teologica del Papa emerito Benedetto e per riflettere su di essa, la nostra attenzione è naturalmente attratta dall’apice della sua carriera teologica, vale a dire l’opera in tre volumi intitolata Gesù di Nazaret. In questo simposio mi è stato chiesto di parlare in modo specifico del tema della «figura storica di Gesù». È un tema particolarmente opportuno, poiché ritengo che il Gesù di Nazaret di Benedetto abbia contribuito a generare non solo uno sviluppo nella teologia, ma anche — per usare un’espressione cara a John Henry Newman, beatificato da Benedetto — uno sviluppo della dottrina. Se si pensa alle origini e al progresso del pensiero sul Gesù storico, da Hermann Reimarus ad Albert Schweitzer, e poi da Rudolf Bultmann al Jesus Seminar e oltre, si può comprendere perché spesso i teologi cattolici sono stati sulla difensiva, se non addirittura ostili, nei confronti di tale movimento. Esso sembrava talora voler sostituire la fede tradizionale in Cristo con una visione in apparenza critica e scientifica, basata soltanto su metodi e criteri della storia accademica moderna. Comprensibilmente, molti studiosi cattolici ritennero di non poter partecipare attivamente alle prime ricerche storiche poiché di fatto, secondo loro, tali ricerche non erano meri sforzi storici, bensì programmi anti-teologici camuffati da storia puramente accademica. In altri termini, per buona parte del diciannovesimo e del ventesimo secolo, le prime ricerche sul Gesù storico, nonostante tutte le loro asserzioni riguardo alla storia, ancora portavano avanti una forma di teologia spesso in contrasto con la teologia cattolica tradizionale. Non sorprende, quindi, che i teologi cattolici potevano reagire a tali sforzi, senza però unirsi a essi.
Ritengo che, paradossalmente, sia stato il lavoro del protestante post-liberale statunitense Ed Parish Sanders a contribuire, senza volerlo, a creare un nuovo ambiente erudito che ha permesso agli studiosi cattolici di partecipare in modo pieno e positivo alla cosiddetta “terza ricerca” del Gesù storico. Insistendo sul contesto ebreo autentico di Gesù l’ebreo, contesto ricostruito attraverso ricerche storiche serie invece che per mezzo di ideologie teologiche, gli studiosi come Sanders trascesero le problematiche più antiche, dove, di fatto, la ricerca del Gesù storico era fin troppo spesso un nuovo tipo di cristologia di orientamento storico, contrapposta a una cristologia più antica, di orientamento dogmatico. Fu quindi la “terza ricerca”, con la sua enfasi sulle fonti storiche del primo secolo, come per esempio i manoscritti del Mar Morto, Filone, Giuseppe e gli pseudoepigrafi ebrei, specialmente la loro componente apocalittica, e anche con la sua enfasi su criteri chiaramente articolati per esprimere giudizi storici su Gesù — “terza ricerca” intenta a fare storia invece che teologia travestita da storia — ad aprire la ricerca agli studiosi cattolici interessati. Questi cattolici ritenevano ora di poter interagire con i loro colleghi protestanti, ebrei o laici su un campo di gioco equo, governato da regole generalmente accettate.
È in questo nuovo contesto accademico che Benedetto ha dato un contributo importante, anche se forse non pienamente apprezzato, al pensiero e alla dottrina cattolica. Di fatto, ad alcuni tale contributo potrebbe essere sfuggito, poiché è stato dato quasi en passant all’inizio sia del primo, sia del secondo volume della sua trilogia. Nel primo volume, Benedetto spiega il suo modo d’intendere il rapporto tra il metodo storico-critico “indispensabile”, così come applicato alla Bibbia in generale e ai Vangeli in particolare, e la visione cristiana della fede, l’ermeneutica cristologica, che consente al credente di entrare in un rapporto vivo, personale e comunitario, con il vero Gesù Cristo.
Tale distinzione, che Benedetto espone nella prefazione del suo primo volume, viene ricapitolata brevemente all’inizio del secondo. Ma il fatto che venga subito ripetuta è molto importante. Benedetto osserva significativamente che non intendeva scrivere un Leben Jesu, una “Vita di Gesù”, vale a dire un’opera dedicata in modo esplicito alla ricerca del Gesù storico, con tutti gli intricati interrogativi fattuali sulla cronologia e la topografia che una tale ricerca comporta. Piuttosto, Benedetto benevolmente rimanda il lettore al bel libro di Joachim Gnilka Jesus von Nazaret. Botschaft und Geschichte e al mio lavoro in cinque volumi, ancora in corso d’opera, A Marginal Jew. Benedetto ribadisce di essere impegnato in un’ermeneutica della fede, che può essere immaginata — esagerando un po’ — come una cristologia dal basso.
È proprio in questo breve commento all’inizio del secondo volume che individuerei il grande contributo dato da Benedetto allo sviluppo non solo della teologia, ma anche della dottrina. Qui, un Papa erudito e noto teologo, rivolgendosi a un pubblico colto di credenti e non credenti in tutto il mondo, fa una chiara distinzione tra gli studiosi che perseguono come legittima una ricerca puramente storica di Gesù di Nazaret entro i limiti del metodo storico-critico, e gli altri, che riprendono i risultati della ricerca, ma vanno oltre, per inglobarli in una visione più ampia della fede cristiana e, in modo particolare, in una cristologia contemporanea che è in continuità viva con la tradizione. Penso che mai prima di ora un Papa abbia ammesso pubblicamente e in modo tanto chiaro — anche se è vero che scrive in quanto teologo — che anzitutto fa una distinzione netta tra la ricerca del Gesù storico e la cristologia e, in secondo luogo, riconosce la ricerca del Gesù storico come un’iniziativa legittima nel proprio dominio limitato della ricerca storico-critica. Essendo una ricerca strettamente empirica, storica, è un’attività diversa dalla cristologia, proprio come la storia accademica in generale è diversa dalla teologia accademica. Le due attività dovrebbero certamente dialogare tra loro e contribuire al lavoro l’una dell’altra, ma ognuna ha le proprie fonti, i propri metodi e i propri obiettivi relativamente autonomi.
È proprio in questa affermazione che vorrei individuare il grande contributo di Benedetto allo sviluppo della dottrina, uno sviluppo che assicura la vivace partecipazione degli studiosi cattolici alla ricerca futura sul Gesù storico.
Klaus Berger su «Avvenire»
I brodini teologici e gli insegnamenti di Ratzinger

«Il problema non sta nel fatto che ci siano studiosi con posizioni o interpretazioni diverse dalle mie — si può ovviamente imparare anche da chi la pensa in modo diametralmente opposto —, quello che mi disturba è l’ingiustificabile arroganza con la quale certi teologi correggono la Bibbia come se la conoscessero meglio degli apostoli, dei profeti e di Gesù stesso. Dopo questo tipo di “esegesi” quello che resta è solo un brodino teologico annacquato e imbevibile». A parlare è Klaus Berger, uno dei maggiori studiosi di lingua tedesca del Nuovo Testamento che, a Roma per il simposio della Fondazione Ratzinger, è stato intervistato da Andrea Galli per l’«Avvenire» del 23 ottobre. Insegnamenti per gli esegeti vengono dai tre libri dedicati da Joseph Ratzinger a Gesù di Nazaret: ha stabilito, afferma Berger, «che l’ebraismo è lo sfondo per capire Gesù [ma quello tra i due Testamenti]», che «il Vangelo di Giovanni non va svalutato rispetto ai Sinottici; non è senza importanza dal punto di vista storico come ancora trent’anni fa si sosteneva» e che «il tema di Gesù è di Dio: e questo riguarda le sue parole e le sue azioni. Gesù — conclude lo studioso — non è un riformatore sociale o un dispensatore di consigli per il benessere psicologico. Gesù insegna che la fede e l’adorazione hanno un’assoluta priorità nel rapporto con Dio».
L'Osservatore Romano

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Povera Bibbia fatta a fettine
Sono oltre 350 gli iscritti al simposio internazionale «I Vangeli: storia e cristologia. La ricerca di Joseph Ratzinger» promosso dalla Fondazione Vaticana Ratzinger-Benedetto XVI presso la Pontificia Università Lateranense da domani al 26 ottobre, quando Papa Francesco nella Sala Clementina in Vaticano consegnerà il III Premio Ratzinger all’anglicano Richard Burridge e al teologo tedesco Christian Schaller. Saranno tre giorni di lavoro nei quali – secondo l’arcivescovo Jean-Louis Bruguès, presidente del Comitato organizzativo – «ci si propone di focalizzare i grandi temi che trapelano dalla trilogia su Gesù di Nazaret di Benedetto XVI»; una ricerca sui Vangeli che con rigore critico e acume ermeneutico ha migliorato le conoscenze sul Gesù storico. Tra i relatori del Simposio vi sono i cardinali Prosper Grech e Angelo Amato, i professori Klaus Berger (intervistato in questa pagina), Thomas Söding, Armand Puig i Tàrrech, Ermenegildo Manicardi.

Il titolo è eloquente: Die Bibelfälscher, i falsificatori della Bibbia, sottotitolo «Come siamo stati ingannati sulla verità», sottinteso delle Scritture. E fa effetto perché non è un libro scritto dal polemista di turno, ma da Klaus Berger, uno dei più importanti studiosi di lingua tedesca del Nuovo Testamento. Da sempre critico nei confronti dell’esegesi liberale che nel ’900 ha dominato gli studi biblici in Germania e non solo, dopo essere diventato professore emerito e dopo una sterminata lista di pubblicazioni, Berger ne ha partorito un’altra sui generis, che è insieme un «Aufschrei», un grido nel deserto che l’esegesi liberale avrebbe lasciato, e allo stesso tempo una compilazione di «sed contra», di risposte a quelli che sarebbero i principali fraintendimenti o le vere e proprie distorsioni accademiche del testo biblico.

Professore, la parabola dell’esegesi liberale fa pensare alla «Dialettica dell’Illuminismo» di Horkheimer e Adorno. La relativizzazione estrema – lei parla di «distruzione» – del significato delle Scritture era un esito inevitabile?
«C’è una certa consequenzialità nel fatto che l’esito dell’Illuminismo “non illuminato” sia la dissoluzione del suo oggetto di studio. Questo avviene quando gli illuministi sono troppo poco autocritici e sono pronti a sacrificare tutto allo spirito del tempo, allo Zeitgeist che loro stessi hanno contribuito a secolarizzare. È chiaro che non si possono riconoscere nel mondo i segni dell’azione di Dio, se è già stato escluso in partenza che questo sia possibile. I teologi portano a compimento il processo dello Zeitgeist con l’idea dell’autosecolarizzazione della religione. Ne risulta che ciò che non è conforme a questo Zeitgeist o sembra contraddirlo è da eliminare».

Lei definisce il suo libro un «planctus Germaniae». Cosa ne pensa del mondo angloamericano? C’è stato una sorta di passaggio del testimone? 
«L’esegesi protestante tedesca tra il 1900 e il 1970 ha generato due figlie: la scuola ipercritica angloamericana e una grande parte della nuova esegesi cattolica tedesca. I discepoli di Bultmann, anche molto diversi fra loro come Käsemann e Bornkamm, viaggiarono a lungo per tenere conferenze in Nord America e collezionarono lauree ad honorem in Gran Bretagna. Non furono pochi quelli che ottennero cattedre negli Usa, penso a Köster, Georgi e Betz. Quando studiavo teologia, in Germania costoro erano guardati con quel senso di ammirazione – parlo anche dei cattolici – che hanno i bambini nei confronti di Babbo Natale. Questo atteggiamento, che sfiorava il culto, nei confronti di personalità come Luz, Theißen e altri ha creato le condizioni perché ne venisse accettata pienamente l’eredità. Per quanto mi riguarda vorrei specificare che il problema non sta nel fatto che ci siano studiosi con posizioni o interpretazioni diverse dalle mie – si può ovviamente imparare anche da chi la pensa in modo diametralmente opposto –, quello che mi disturba è l’ingiustificabile arroganza con la quale certi teologi correggono la Bibbia come se la conoscessero meglio degli apostoli, dei profeti e di Gesù stesso. Dopo questo tipo di “esegesi” quello che resta è solo un brodino teologico annacquato e imbevibile».

Il suo libro è una lista lunghissima di «sed contra». Quali sono le tesi più in voga tra i biblisti che ritiene meno sostenibili o portatrici di maggiore confusione?
«Le “abrogazioni” bibliche più cariche di conseguenze hanno riguardato l’Incarnazione e la Risurrezione. Entrambi questi avvenimenti sono evaporati diventando semplici costrutti mitologici, perché per loro non c’era posto nella storia reale. La conseguenza è stata in primis l’eliminazione della Trinità nel primo cristianesimo. Perfino teologi cattolici di dogmatica come Hans Küng fanno nascere la Trinità nel Medio Evo. In questo modo è stato sottratto al cristianesimo la sua peculiarità rispetto all’ebraismo e all’islam. Da ciò dipende anche la debolezza argomentativa dei cristiani nell’attuale dialogo con le religioni abramitiche. Orripilante e irresponsabile a livello esegetico era già il dibattito sull’autenticità o inautenticità delle parole di Gesù. Un lascito del positivismo del XIX secolo è stato infine l’avversione alla mistica e ai miracoli. Ogni avversione di questi tipo finisce per negare l’idea di un Dio personale. Io ho proposto di parlare di miracoli ed esperienze mistiche come di “fatti mistici”, le cui cause restano sconosciute, un mistero, ma che possono cambiare radicalmente gli uomini e il mondo».

Uno dei «sed contra» riguarda i fratelli e le sorelle di sangue di Gesù. Lei tratta questa questione in poche righe, ma sul tema si sprecano ancora volumi e dibattiti.
«Nel caso dei fratelli e delle sorelle di Gesù, la posizione critica e illuministica di molti esegeti rivela un dato che rimane spesso sullo sfondo: la mancanza di sufficienti competenze filologiche e sociologiche. È sfuggito dal punto di vista della filologia che le lingue semitiche non facevano differenza tra fratelli di sangue e parenti stretti all’interno del clan familiare. E dal punto di vista sociologico, è sfuggito semplicemente l’aspetto dominante del clan».

La cosiddetta terza ricerca sul Gesù storico («Third quest») si è concentrata sull’inquadramento di Gesù nel contesto dell’ebraismo. È stata una scelta fruttuosa?
«Fin dagli inizi della mia carriera ho studiato la Bibbia insieme all’ebraismo. Israele, ossia l’ebraismo, è il terreno preparato da Dio per la rivelazione cristiana. La storia delle religioni si è a lungo fissata sulla Grecia classica o sul cosiddetto ellenismo. La svolta è avvenuta solo con i ritrovamenti di Qumran, che però, al di là dell’immensa importanza storica, a livello teologico si sono rivelati senza conseguenze. Fino a oggi non si è riflettuto abbastanza né sulla storia della tradizione né sulla metodologia della storia delle religioni».

Ratzinger ha lasciato tre libri scritti mentre era Papa dedicati all’esegesi del Nuovo Testamento. Qual è l’insegnamento che i biblisti, soprattutto cattolici, possono o devono trarne?
«Primo, che l’ebraismo è lo sfondo per capire Gesù, ma molto meno l’ebraismo rabbinico rispetto a quello fra i due Testamenti. Secondo, che il Vangelo di Giovanni non va svalutato rispetto ai Sinottici; non è senza importanza dal punto di vista storico, come ancora 30 anni fa si sosteneva. Terzo, che il tema di Gesù è Dio: e questo riguarda le sue parole e le sue azioni. Gesù non è un riformatore sociale o un dispensatore di consigli per il benessere psicologico. Gesù insegna che la fede e l’adorazione hanno un’assoluta priorità nel rapporto con Dio».
Andrea Galli 
Avvenire