lunedì 25 novembre 2013

Cambia fidanzato!

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Sul tema del cosiddetto femminicidio si è ormai oltrepassato ogni limite di decenza: l’ennesimo spot anti uomo promosso dal Ministero delle (dis) Pari Opportunità rappresenta un autentico incitamento all’odio ed alla violenza, ossia l’esatto contrario di ciò che esso all’apparenza si propone. Trattasi della campagna realizzata da un team di professioniste (?) “Riconosci la violenza”, che prevede una serie di soggetti i cui protagonisti sono quattro diverse coppie di uomini e donne abbracciati.
L’uomo però ha il volto oscurato, reso irriconoscibile da un grande rettangolo nero, su cui si legge un invito rivolto a ogni donna: “La violenza ha mille volti. Impara a riconoscerli”.  Ogni immagine è accompagnata poi da alcuni titoli che mirano a fornire “consigli concreti” su come prevenire e reagire di fronte ai primi segni di violenza:  “Hai un solo modo per cambiare un fidanzato violento. Cambiare fidanzato”; “Non sposare un uomo violento. I bambini imparano in fretta”; “Un violento non merita il tuo amore. Merita una denuncia”; “Gli schiaffi sono schiaffi. Scambiarli per amore può farti molto male”.
La campagna “Riconosci la violenza”, indetta in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne promossa dall’ONU (25 novembre), è partita il 18 novembre e prevede affissioni su tutto il territorio nazionale, presenza sui quotidiani nazionali e sulla stampa periodica e diffusione capillare sul web.
La Vice Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali con delega alle Pari Opportunità, prof. Maria Cecilia Guerra, ha commentato: “Abbiamo scelto questa campagna perché si pone in modo chiaro, non vittimista e costruttivo (sic!) il problema della violenza di genere. Siamo orgogliose di diffondere una campagna fatta propria anche dall’ONU in un documento importante sulle buone pratiche suggerite alle nazioni aderenti”.
In buona sostanza, per la prof. Guerra (nomen omen) essere costruttivi significa operare una ingiusta discriminazione, nonché un autentico paradosso logico, dal momento che la violenza è condannabile in sé e non sulla base del sesso a cui la vittima appartiene, disconoscere i dati statistici che mettono in evidenza come la violenza sugli uomini (fisica, psicologica e giuridica) sia una realtà in netto aumento che non ha “nulla da invidiare” a quella sulle donne, insinuare diffidenza e sospetto nei confronti di mariti, fidanzati o conviventi.
In effetti, non sono infrequenti i casi di riappacificazione delle coppie che vivono un rapporto altamente conflittuale e violento; gli spot del Ministero delle Pari Oppurtunità sembrano incitare le donne ad allontanare e denunciare il partner al minimo accenno di violenza, a recidere legami affettivi anche stabili e duraturi senza tenere conto degli effetti spesso disastrosi che tali separazioni hanno sugli eventuali figli della coppia (contrariamente a ciò che comunemente si pensa è molto peggio per un minore assistere allo sfascio della famiglia che ai litigi violenti dei genitori). D’altra parte, lo stesso decreto sul femminicidio licenziato pochi mesi fa dal Consiglio dei Ministri prevede, tra le altre misure repressive, la cosiddetta querela irrevocabile, sulla base di cui una volta presentata la denuncia non può più essere revocata o ritrattata. In altri termini, il ripensamento e il perdono sono banditi per legge.
Da notare, infine, come tale indecorosa campagna fomentatrice di violenza costituisca una offesa all’intelligenza della donna stessa, la quale viene trattata come un essere inferiore incapace di scegliere il proprio partner in maniera autonoma e libera, senza l’ausilio “illuminato” di un gruppo di esperti (leggasi femministe militanti) che le indichino come comportarsi e cosa fare. Mogli e fidanzate che debbono imparare a conoscere la persona che hanno al loro fianco magari da molti anni … attraverso degli spot!
(A. D. M.)
Corrispondenza Romana
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Primavere Arabe, l'inverno delle donne
di Valentina Colombo

«Qualsiasi progetto di rinascita della nazione islamicadeve obbligatoriamente porre al centro la condizione della donna, al fine di liberarla dal fardello e dai ceppi che le ha imposto la società, di modo che possa diventare un essere umano libero che partecipa con i connazionali alla costruzione della nazione, in quanto donna avente diritti e doveri. Così come lei adempie a doveri verso la società, così la società deve concederle e riconoscerle tutti i diritti», così scriveva il teologo egiziano Gamal al-Banna nel suo saggio “La donna musulmana tra la liberazione del Corano e le restrizioni dei giuristi” (Il Cairo 2002). Ebbene il sondaggio pubblicato l’11 novembre scorso dalla Thomson Reuters Foundation sui diritti delle donne nel mondo arabo nel periodo successivo alla cosiddetta primavera araba dimostra che la rinascita cui si riferisce al-Banna è ben lungi dall’essere raggiunta.
Senza entrare del merito dalla metodologia utilizzata per stilare la classifica dei 22 paesi arabi che rispettano più o meno i diritti delle donne, ovvero quella del sondaggio di opinione tra esperti di studi di genere, i risultati, seppur indicativi, conducono a una riflessione. Agli ultimi posti compaiono Egitto, Iraq, Arabia Saudita, Siria, Yemen. La presenza di Arabia Saudita e Yemen nella parte bassa della classifica non stupisce poiché entrambi, seppur con PIL ben diversi, non considerano la donna una persona: in Arabia Saudita le donne combattono ancora oggi per il diritto alla guida, ma soprattutto per svolgere un ruolo significativo nella società; nello Yemen i matrimoni delle bambine sono una piaga insanabile e analfabetismo e povertà vedono come vittime principali proprio le donne.
Gli altri tre paesi sono invece rappresentativi del passato (Iraq), presente (Egitto) e futuro (Siria) del processo di democratizzazione in Medio Oriente. Molti si sono soffermati a commentare sull’ultima posizione dell’Egitto che, a onore del vero non stupisce affatto. Già nell’aprile 2011, ovvero a soli due dalla deposizione di Hosni Mubarak, la giornalista egiziana Mona Tahawy pubblicava sulla rivista americana Foreign Policy un articolo dall’eloquente titolo “Perché ci odiano?” dove, riferendosi al proprio paese, denunciava: «Ma quando più del 90% delle donne sposate in Egitto – comprese mia madre e cinque delle sue sei sorelle – hanno subito la mutilazione genitale in nome della modestia, allora dobbiamo sicuramente darci tutte alla blasfemia. Quando le donne egiziane vengono sottoposte a umilianti “test di verginità” solo per aver parlato a voce alta, non è il momento di stare zitte. Quando un articolo del codice penale egiziano afferma che se un marito ha picchiato la moglie “per buoni motivi” quest’ultima non può ottenere nessun risarcimento legale, allora che il politicamente corretto vada all’inferno».
Non stupisce nemmeno la terzultima posizione della Siria, paese lacerato da una guerra ormai globale che colpisce in modo particolare gli elementi più deboli della società, ovvero donne e bambini. Sono invece ormai più di dieci anni che l’Iraq si è affrancato dal regime di Saddam Hussein, dieci dall’invasione americana in nome della democrazia e dei diritti umani. Purtroppo il paese bagnato dal Tigri e dall’Eufrate, il paese che ha ospitato la capitale dell’Impero abbaside, che ha dato i natali a molti personaggi, letterati e politici, che hanno fatto la storia del mondo arabo, viene collocato al penultimo posto. La scheda dedicata all’Iraq dalla Fondazione Thomson Reuters reca la seguente dichiarazione di Shatha al-Obosi, attivista per i diritti umani e ex deputato al Parlamento iracheno: «La violenza fisica e verbale verso le donne è ormai molto diffusa e che credo che sia parte della cultura sociale. Tutto questo deve essere cambiato attraverso la legge e l’educazione».
Si fa poi riferimento all’articolo 409 del codice penale che consente pene ridotte per i rei di delitto d’onore, al fatto che le donne residenti in aree rurali devono chiedere il permesso per potersi recare in ospedale. Si forniscono, come nel caso delle altre nazioni, dati, numeri e percentuali che sono ben lungi dal rappresentare la realtà e la vera condizione delle donne. Già nel 1930 il tunisino Tahar Haddad nel celebre volume “La nostra donna nella sharia e nella società” presentò un programma coraggioso di riforma della società a partire dalla emancipazione della donna, sostenendo che bisognava affrancare la donna dalla poligamia, dal ripudio previsti dal diritto islamico e gettare le basi per una effettiva parità tra uomo e donna. Le sue riflessioni hanno portato nel 1956 all’emanazione del Codice dello Statuto personale tunisino che sta riuscendo a resistere agli attacchi degli islamisti tunisini e che fa sì che la Tunisia si sia posizionata al sesto posto del sondaggio della Reuters.
Ebbene, per tornare all’Iraq, di cui l’opinione pubblica e la stampa si sono pressoché dimenticate, qui è in atto un accesissimo dibattito, di cui nessuno parla, che riguarda la proposta da parte del Ministro della Giustizia iracheno, Hasan al-Shammari, sciita membro del Partito islamico della virtù, di introdurre per gli sciiti del proprio paese un Codice dello Statuto personale ad hoc che andrebbe a sostituire, per i cittadini sciiiti, il Codice dello statuto personale “unificato” in vigore dal 1959. Nel codice del 1959 si stabiliva l’età minima per il matrimonio a 18 anni, sia per uomini che per donne (art. 7); si impediva il matrimonio forzato (art.9); si obbligava alla registrazione del matrimonio (art. 10); la poligamia era consentita solo previo consenso del giudice che deve valutare la capacità del marito a mantenere una eventuale seconda moglie; consentiva la richiesta di divorzio da parte della moglie (art.34). La proposta sciita fa riferimento e trova giustificazione nell’articolo 41 della costituzione che prevede che “i seguaci di tutte le religioni e sette sono liberi di amministrare le proprietà, gli affari e le istituzioni politiche della propria setta in accordo con le credenze e le scelte della loro religione o setta”. La bozza del Codice dello Statuto personale sciita consta di 254 articoli alcuni dei quali andrebbero a peggiorare ulteriormente la condizione della donna. All’articolo 16, ad esempio, si sancisce che l’età minima del matrimonio per i maschi scenda a 15 anni e per le femmine addirittura a nove, inoltre è contemplata la possibilità di scendere al di sotto di queste soglie dietro richiesta dei rispettivi guardiani, dicasi il padre o il nonno. L’articolo 101 si stabilisce che la donna non può uscire di casa se non previo consenso del marito, lo stesso articolo sottolinea che il marito ha diritto di avere rapporti sessuali con la moglie a proprio piacimento. L’articolo 104 legalizza la poligamia tout court. È evidente che la donna ritornerebbe a essere considerata un oggetto dalla nascita alla morte. L’articolo 126 sancisce persino che il marito non sarebbe tenuto a mantenere la moglie qualora si trattasse di una minorenne o anziana e quindi non sarebbe in grado di soddisfarlo sessualmente.
Ultimo, ma non meno importante, mentre nel codice del 1959 un iracheno musulmano può sposare una non musulmana (art. 17), il nuovo codice in questo caso consente, all’articolo 63, solo un matrimonio temporaneo. La proposta di al-Shammari inoltrata al Consiglio dei Ministri lo scorso ottobre riporterebbe l’Iraq a un settarismo che lo aveva contraddistinto in passato e che purtroppo sta tornando a contraddistinguerlo nell’era post-Saddam. La campagna contro il progetto sciita avviata dal sito liberale www.ahewar.org  ribadisce in un comunicato che «i partiti islamici settari vogliono imporre la propria autorità agli iracheni. […] Sin dal primo giorno in cui sono giunti al potere con il sostegno delle forze di occupazione americane si sono prefissati di marginalizzare le donne». L’esempio dei Fratelli musulmani in Egitto conferma questa denuncia. Nel marzo 2013 la dirigenza del movimento fondato da Hasan al-Banna emana un comunicato sulla Convenzione sull’Eliminazione della violenza contro le donne (Cedaw) delle Nazioni Unite in quanto violerebbe i principi della sharia.
Ne consegue che Fondazione Thomson Reuters avrebbe svolto un compito molto più utile se si fosse concentrata su quanto sta accadendo ora dopo ora nei paesi arabi in cui al potere vi sono partiti islamici, di stampo sciita o sunnita, poiché questi o usano la donna per mostrarsi più “moderati”, come nel caso della recente nomina di una donna a portavoce di Hamas, oppure puniscono la donna in nome della tutela e della protezione. Purtroppo i partiti islamici, anche quello del “moderato” Erdogan in Turchia, vogliono riportare la donna a una tradizione misogina e maschilista dalla quale si era liberata agli inizi del secolo scorso. La democrazia si sta purtroppo dimostrando la più feroce arma a doppio taglio del mondo arabo, la cui prima vittima è e sarà la donna.

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Educazione sessuale svizzera: l'orco in classe
di Tommaso Scandroglio
Sex box. Non si tratta di qualche gadget acquistabile in un sexy shop, bensì di un kit “formativo” destinato alle maestre di asilo di alcune zone della Svizzera per svolgere lezioni obbligatorie di educazione sessuale a detrimento dei bambini in età prescolare.
Per ora l’esperimento riguarda solo il Canton Basilea e alcuni comuni di Appenzello e San Gallo ma nel 2014 tali corsi potrebbero estendersi alla Svizzera tedesca, a quella francofona e al Canton Ticino, a due passi da casa nostra.
L’iniziativa è dell’Ufficio federale della sanità pubblica in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione. Sul sito dedicato da questo Ufficio all’educazione sessuale (amorix.ch) alla voce “Nozioni di base” si cita l’estratto di un documento dell’International Planned Parenthood Federation, una delle principali agenzie internazionali filo-abortiste al mondo, in cui si spiega che "l’educazione sessuale come approccio basato su diritti fornisce ai giovani le conoscenze essenziali, le capacità, le competenze e i valori di cui hanno bisogno per conoscere la loro sessualità, provando piacere fisico, psichico ed emozionale”. Il solito concetto di sessualità come ricerca “responsabile” del piacere, avendo cura di tenere fuori dall’amplesso il figlio e pure l’affetto per l’altro partner.
Sempre sul sito, alla voce “Educazione”, si chiarisce – in un traballante italiano – che per l’infanzia “l’educazione sessuale dovrebbe essere parte integrante dell’educazione primaria, poiché i bambini sono esseri sessuali dalla nascita con bisogni, desideri, atti sessuali e le esperienze che ne derivano”. L’espressione “esseri sessuali” rimanda al mondo animale e, intesi come animali, i bambini non possono che vivere di bisogni e impulsi da soddisfare.
Poi si forniscono indicazioni pratiche in merito all’educazione sessuale dei bambini in età infantile: “Si gioca al dottore. Comincia una piacevole esplorazione del proprio corpo. Si fanno giochi di ruolo: famiglia, sposarsi, baci, eventualmente rapporti sessuali. Cominciano le amicizie intime”. Tra i contenuti proposti troviamo “Percepire il corpo in modo ludico” e “Disegnare le parti del corpo, inclusi gli organi sessuali”.
Per i più grandicelli, circa dai 6 ai 10 anni, si parlerà tra gli altri argomenti di masturbazione, di preservativi, di orientamento sessuale e infine di “prima mestruazione, prima eiaculazione”. Curiosa accoppiata questa, quasi che la prima eiaculazione fosse cosa necessaria e naturale come il primo mestruo. Poi si suggerisce agli educatori di tenersi pronti per rispondere alle classiche – secondo loro - domande dei bambini tra cui: “Quando si è maturi per ‘scopare’ [sic]?”. I bambini svizzeri devono essere particolarmente – diciamo così – disincantati se fanno domande di questo tenore oppure i cervelloni dell’Ufficio della sanità pubblica hanno qualche problema di devianza.
Per i 13-15 anni si metterà a tema la contraccezione, l’aborto, la “molteplicità sessuale (omosessualità, eterosessualità, bisessualità)”. Tenersi pronti poi a risponde a domande piccanti quali: “Anche le ragazze possono avere ‘sogni bagnati’ [sic]?; Come raggiunge un orgasmo una ragazza? Come si diventa un buon amante? Di che misura è mediamente un pene? Qual è la posizione migliore nel fare sesso? Quante ce ne sono? Che cosa si fa con un vibratore? Come ci si accorge che il sesso è soddisfacente? Come ci si accorge che anche lui/lei lo desidera? Ingoiare lo sperma fa ingrassare?”. Agli educatori viene consigliato non di rispondere in modo astratto, bensì attingendo alla propria e personale “biografia (sessuale)”. A questa età poi si parlerà di “pianificazione familiare”, “costituire una coppia, viverla e la fine della stessa (morale della negoziazione [sic])” e di “Molteplicità sessuale / anche intersessualità e transessualità”.
Naturalmente in questo progettino horror sull’educazione sessuale manco l’ombra di un accenno a temi quali la castità, la donazione di sé, il valore della procreazione e l’affettività.
Torniamo al sex-box, uno degli strumenti di questa campagna “educativa” per l’infanzia. In esso troviamo oggetti quali peni di legno e in gomma piuma, vagine di pelouche (clicca qui se vuoi vedere un esempio di sex-box); poi manuali dove si spiega che i bambini devono essere incoraggiati a toccarsi, a giocare nello scoprire l’uno il corpo dell’altra. Come “sussidiario” viene anche usato il libro “Lisa und Jan” che sotto forma di vignette e fumetti contiene immagini a dir poco esplicite: c’è una bambina che si masturba mentre un’altra l’osserva e la imita; un bambino masturba un altro; un terzo che si tocca sotto le lenzuola mentre con una torcia elettrica illumina le parti intime; una donna che infila un preservativo ad un uomo; una bambina in piedi che si solleva l’abitino e mostra il sesso ad un suo compagno lì inginocchiato davanti a lei  e un’altra che si fa la doccia e indirizza il getto d’acqua verso il pube; due bambini che si abbracciano nudi e un altro che spia dalla finestra i genitori mentre hanno un rapporto sessuale; una donna che partorisce, il tutto disegnato in modo assai realistico. Da notare: in tutte queste immagini gli organi sessuali sono sempre ben visibili e nulla è lasciato all’immaginazione del piccolo lettore. C’è poco da dire: è solo pedopornografia di Stato. Pura macelleria sessuale da far ingoiare ai bambini come se fosse un omogeneizzato. Né più né meno.
La Fondazione svizzera per la protezione dell’infanzia ha giudicato invece il libro “Lisa und Jan” adatto per i bambini dai 5 anni in su. Non stupisca questo giudizio: la Fondazione è essa stessa autrice di un libro per bambini dagli zero ai 6 anni che incoraggia l’autoerotismo e il gioco del dottore.
C’è anche il libro “Questo sono io. Dalla testa ai piedi” in cui si vedono, sempre tramite vignette colorate, due uomini guancia a guancia e poi una donna che bacia sulla guancia un’altra.
Pierre Felder, direttore per il Ministero della Pubblica Istruzione delle scuole primarie e secondarie, dopo le polemiche accese dal sex box, ha pensato di buttare acqua sul fuoco, non accorgendosi che invece l’acqua era benzina: “I modelli di organi sessuali di peluche […] non verranno in nessun caso mostrati ai bambini dell'asilo […] ma solo nelle scuole medie.” In effetti un bambino di 11 anni sembra proprio essere pronto per passare dall’orsacchiotto di pezza ad un altro tipo di pelouche. E il resto del materiale porno-didattico, caro dott. Felder?
Questo progetto di educazione sessuale elvetica si muove lungo le direttrici disegnate dal documento della sezione europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dal titolo “Standards for Sexuality Education in Europe”, di cui questo giornale si era occupato pochi giorni fa nell’articolo “l’Oms gioca al dottore con i bebè”: anche lì si parlava di masturbazione infantile e del gioco del dottore.
Molti genitori naturalmente sono insorti dato che le lezioni, come accennato, sono obbligatorie. Religione è materia facoltativa, la pornografia invece no. E’ partita anche una petizione popolare che ha raccolto sino ad oggi 92mila firme che verranno presentate alla Conferenza dei direttori cantonali dell’educazione.
Una volta ai bambini si leggevano le favole con principi azzurri, principesse e orchi. Oggi i principi e le principesse sono rimaste nelle fiabe, mentre gli orchi sono usciti dai libri e vivono in mezzo ai nostri figli.