venerdì 29 novembre 2013

Per ragionare oltre le crisi. L’annuncio del Vangelo nel mondo di oggi (2)



Assisi: «Custodire l’umanità. Verso le periferie esistenziali»

È in corso ad Assisi il convegno internazionale «Custodire l’umanità. Verso le periferie esistenziali». Pubblichiamo una sintesi dell’intervento di Adriano Pessina e stralci della relazione di Lucetta Scaraffia. Il convegno si chiude sabato 30 novembre.
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Umanesimo e modernità. Ansia della perfezione
(Adriano Pessina) Oggi la questione dell’umanesimo è posta di fatto dal progetto, sempre più articolato e pervasivo, del “perfezionamento dell’uomo”. La nuova frontiera da superare, lasciata alle spalle la semplice aspirazione alla salute e abbandonato il campo dell’ermeneutica medica, è quella della finitezza umana. Le diverse teorie dello Human Enhancement (HE) incrociano la duplice prospettiva del post-umano e, per usare una formula messa in circolo anni fa dal filosofo John Harris, del “super-uomo”.
Progetto, questo, che impropriamente relegato nel campo dei futuribili e della fantascienza, si articola in due direzioni: quella di un controllo e di una modifica genetica delle future generazioni e quella dell’“auto-potenziamento” delle facoltà cognitive e sensoriali attraverso l’ausilio della farmacologia, della biologia, della tecnologia. La fluidità della nozione di miglioramento costituisce il punto di forza dell’intero progetto, che può così saldarsi con la trionfante categoria dell’autonomia che, a sua volta, è il punto decisivo della cornice liberale, anche in termini di mercato dei possibili enhancers, in cui si inscrive.
Due i moventi che tendono a legittimare lo HE, anzitutto il desiderio di un nuovo benessere nei termini dell’aspirazione a una più compiuta felicità e una sorta di insoddisfazione rispetto alla condizione umana, ai suoi caratteri di finitezza, di debolezza e di radicale contingenza.
In un suo recente scritto, il filosofo Nick Bostrom, che dirige il Future of Humanity Institute di Oxford, calcola quali siano i benefici in termini economici e sociali di un sistematico progetto di selezione e di modifica genetica degli embrioni umani, teso a eliminare quelli malati e migliorare le future capacità cognitive di quelli sani. L’uomo come “capitale umano” è così posto al centro di un mercato biotecnologico che promette nuove forme di benessere personale e collettivo: promesse che hanno sicuramente “costi” non solo economici, ma in termini di vita, di identità e di relazionalità. Il richiamo costante all’autonomia del soggetto e alla sua libertà di intervenire sulla propria costituzione fisica sembra riportarci a quel piano di “auto progettazione” che già si trovava ben espresso dall’esistenzialismo sartriano, riassumibile nella celebre affermazione per cui “l’esistenza precede l’essenza”. Scriveva, nell’ormai lontano 1946, Sartre: «L’uomo è dapprima un soggetto che vive se stesso soggettivamente, invece di essere muschio, putridume, o cavolfiore; niente esiste prima di questo progetto, niente esiste nel cielo intellegibile; l’uomo sarà anzitutto quello che progetta di essere».
Qual è, allora, la differenza del progetto di Sartre rispetto a quelli attuali? La prima, è che Sartre non affida alla tecnologia e alla biologia il compito di migliorare l’uomo: quindi si sottrae a quella evidente eteronomia nei confronti dei prodotti della ricerca farmacologica e biologica a cui si consegna, in un compiuto ossimoro, il modello dell’autonomia dei fautori dello HE. In secondo luogo perché per Sartre il progetto individuale porta con sé il senso di una responsabilità universale, sottraendosi così ad un puro soggettivismo: «ciascuno di noi scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini. (...) Così sono responsabile per me stesso e per tutti e creo una certa immagine dell’uomo che scelgo». La terza differenza, espressa con insistenza ne L’Essere e il nulla, è lo scacco definitivo a cui l’uomo è condannato in questo suo progetto di essere come Dio, in sé e per sé, puramente autonomo e compiuto.
In realtà i fautori del superamento dell’umano, da Harris a Bostrom, appellandosi ad un modello evoluzionista che non possiede alcuna normatività, ma cieca fattualità, possono soltanto scommettere sul miglioramento in termini di calcoli di costi e benefici, dimenticando però di dirci che non potranno mai farsi garanti del successo. In realtà, questo progetto di igiene sociale, che salda liberalismo e immanentismo, è risentito nei confronti della condizione storica e quindi si rifiuta di pensare che nella sua contingenza l’umano è destinato a conoscere non soltanto la morte come scacco, ma la decadenza come fatto empirico. La straordinaria normalità della finitezza è così esposta a un progetto di cattivo infinito che Hegel ha ben individuato come quel continuo superamento del limite, dettato dall’impossibilità di toglierlo, che comporta necessariamente una ricaduta nel limite stesso. Il regno “della libertà” è perciò sempre sul punto di precipitare di nuovo nel regno della necessità, dove i produttori si trasformano nei loro stessi prodotti: poiché in tutta questa ansia di perfezione e miglioramento resta pur sempre il mercato a dettar legge. Come ebbe a scrivere Horkheimer «Un animo veramente liberale conserva il concetto di infinito come coscienza che gli avvenimenti di questo mondo sono definiti e che l’uomo è irrimediabilmente abbandonato e, così, la società rimane preservata da un ottimismo ottuso, che si pavoneggia del suo sapere, quasi fosse una nuova religione».
L’uomo che cerca la propria identità non potrà accontentarsi né della nostalgia del Totalmente Altro né di una scommessa biotecnologica. C’è già una risposta e una promessa di un nuovo umanesimo, ed è quella che passa attraverso la riconciliazione tra Infinito e finito che si è fatta carne. Dentro il volto di Cristo l’uomo è riconsegnato alla sua identità e alla sua libertà nella storia.
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Storia della rivoluzione sessuale, cuore male interpretato del processo di secolarizzazione. Quella ferita aperta di cui preferiamo non parlare
(Lucetta Scaraffia) Una delle cause, e insieme degli effetti più clamorosi della secolarizzazione, è stata la fine dell’egemonia della morale sessuale cattolica nella vita quotidiana anche dei Paesi a maggioranza cattolica. Cioè quel processo di modernizzazione noto con il nome di rivoluzione sessuale, che ha cambiato la morale sessuale, i rapporti fra i sessi, le modalità del concepimento perché ha creato una cesura inedita fra vita sessuale e procreazione.
Anche se è passato almeno mezzo secolo dal suo farsi prassi concreta, nessuno ha cercato ancora di scriverne la storia, o almeno di provare ad avviare un primo bilancio di questo cambiamento, uno dei più significativi della modernità. La rivoluzione sessuale rimane lì, come una sorta di ferita aperta, di cui si preferisce non parlare. Oppure si affrontano i problemi relativi senza alcun tipo di approfondimento, soprattutto storico. Come dando per scontato che tutto va bene così, che la situazione è decisamente migliorata; oppure che non c’è niente da fare ed è inutile ripensarci. La rivoluzione sessuale è uno dei tanti cambiamenti della modernità che abbiamo subìto passivamente, senza riflettere sulle conseguenze che avrebbe comportato per il futuro. Adesso, che stiamo vivendo questo futuro, possiamo però ripercorrerne il processo, per renderci conto di cosa e come è realmente accaduto.
La rivoluzione sessuale è stata certamente una delle strade che ha preso quel cammino secolare che Mauro Magatti, in un recente convegno, ha definito «storia della libertà» per realizzare se stessi e, dal momento che riguarda il corpo e la procreazione, cioè il cuore dell’umano, è stata la trasformazione centrale della modernità, e quindi anche del processo di secolarizzazione.
Le sue origini si diramano indietro, a fine XIX secolo, ma forse anche prima, nel pensiero dell’illuminismo e di de Sade. I primi a proporla come un progetto sociale, che doveva coinvolgere tutta la società, sono stati gli eugenisti che, nel tentativo di selezionare la procreazione in base a categorie di salute e di miglioramento fisico-psichico, hanno visto nella possibilità di separare la sessualità dalla procreazione il modo per realizzare il loro progetto. Un imprinting, quello eugenista, che tornerà in tutti i movimenti a favore del controllo demografico e dell’aborto.
A cominciare dall’élite medico-statistica degli eugenisti, le proposte di liberalizzazione della morale sessuale sono state avanzate da gruppi di intellettuali che adducevano ragioni scientifiche per fondare la loro proposta: a partire da Freud, la psicanalisi ha criticato le varie forme di repressione dell’istinto sessuale, individuando in queste regole coercitive la causa di disturbi nevrotici individuali o, addirittura, collettivi. Fino ad arrivare, con Wilhem Reich, a teorizzare che la repressione sessuale era la causa prima dell’aggressività, e quindi anche delle guerre.
Gli antropologi, prontamente ripresi dagli esperti di una nuova disciplina, la sessuologia, hanno raccontato che nelle società primitive non esisteva una regola del comportamento sessuale, tutti erano liberi e felici, privi di nevrosi e sensi di colpa. L’introduzione scritta dal sessuologo inglese Havelock Ellis al libro di Malinowski sulla vita sessuale dei primitivi è l’esempio più noto di questa collaborazione, ripetuta poi da numerosi epigoni, fino all’italiano De Marchi.
Alle teorie seguì presto l’analisi della realtà: soprattutto negli Stati Uniti, gli anni della seconda guerra mondiale e quelli immediatamente successivi sono stati gli anni delle grandi inchieste sul comportamento sessuale degli americani. Il primo e più importante è stato senza dubbio Alfred Kinsey (entomologo figlio di un repressivo pastore metodista) che si propose di studiare il comportamento sessuale con la stessa tecnica che aveva caratterizzato le sue ricerche sugli insetti. Altre inchieste seguirono quella di Kinsey, sempre volutamente “scientifiche”, cioè con sfoggio di numeri che dovevano confermare la realtà inoppugnabile della verità che si proponevano di dimostrare. William Masters, sessuologo e ginecologo, e Virginia Eshelman Johnson, formarono un’equipe che a Saint Louis redasse il primo studio approfondito sulla fisiologia sessuale umana, esaminando, in undici anni, oltre diecimila atti sessuali compiuti da circa 700 volontari. L’indagine è documentata nel volume L’atto sessuale nell’uomo e nella donna (1966) che suscitò discussioni in tutto il mondo. Molti, infatti, si chiedevano se le ragioni scientifiche giustificano davvero un’intromissione tanto disinvolta nella sfera più privata.
Poi venne Vance Packard, sociologo e giornalista americano di successo, che nel 1968 pubblica un’ampia inchiesta dal titolo un po’ ammiccante: Il sesso selvaggio. Non si tratta certo di un testo erotico, ma di un’esauriente disamina di tutte le numerose inchieste pubblicate sul comportamento sessuale negli Stati Uniti, con qualche sondaggio in altri Paesi, come Inghilterra e Svezia. Packard si propone infatti di mettere in chiaro quale sia il comportamento sessuale dei giovani — cioè di risolvere la questione in sospeso se siano veramente aumentati i rapporti prematrimoniali fra coetanei — e quali gli effetti di questi cambiamenti su famiglia e società, ma anche di prefigurare il futuro e di proporre regole per nuovi codici morali.
Colpisce il lettore di oggi che gli autori delle indagini diano per scontato che il fine dei giovani sia il matrimonio (tanto da definirli sempre rapporti prematrimoniali): non pensano neppure lontanamente che si possa affermare un costume di vera promiscuità sessuale. Stupisce che persone di fatto moderate come Packard, ben lontano dal vedere di buon occhio un’aperta promiscuità sessuale e tanto meno una crisi della famiglia tradizionale, non si accorgessero che il processo di liberalizzazione sessuale era già sfuggito loro di mano. Credevano invece che si stessero avverando due degli aspetti utopici della rivoluzione sessuale più conclamati: fine della prostituzione e miglioramento della società grazie alla nascita di figli desiderati.
Queste inchieste furono tradotte in tutte le lingue, anche in Italia, dove la rivoluzione sessuale fu un fenomeno interamente di importazione, sebbene poi anche noi abbiamo dato contributi non secondari alla diffusione di questa ideologia. Basti pensare al libro-scandalo Porci con le ali (1976): nato anch’esso come sorta di inchiesta che doveva rivelare il reale comportamento sessuale degli adolescenti in una scuola romana, divenne una sorta di manifesto di liberazione per i giovani sessantottini. Un altro contributo venne dal film di Bertolucci Ultimo tango a Parigi (1972). Sebbene si trattasse di due opere molto tristi, che in fondo non portavano prove convincenti che la rivoluzione sessuale conducesse alla felicità, il loro effetto fu paradossalmente quello di accendere un grande desiderio di libertà di sperimentazione erotica. Colpisce, rileggendole o rivedendole oggi, che entrambe fossero una sorta di accusa pesante contro la famiglia, simbolo di ogni repressione, causa di ogni male.
Ma se queste furono le spinte intellettuali al cambiamento, non va dimenticato che la rivoluzione sessuale è stata resa concretamente possibile dalla scoperta della pillola anticoncezionale nel 1963 da parte del dottor Pinkus (che lavorava su mandato e finanziamento di due femministe americane).
La diffusione degli anticoncezionali, così come la propaganda per la depenalizzazione dell’aborto, anche se costituì la condizione decisiva per la realizzazione della rivoluzione sessuale, fu realizzata in realtà attraverso una propaganda di tipo diverso: non si parlava di libero amore e di diritto al piacere, ma di pianificazione familiare. Non si attaccava la famiglia come istituzione repressiva, ma si presentava la pratica anticoncezionale come una salvezza per la coppia, che avrebbe evitato le tensioni dovute alla paura di gravidanze indesiderate. Non si metteva in discussione l’attività procreativa della coppia, ma si prometteva la procreazione di figli desiderati, allevati con più attenzione, che sarebbero diventati esseri umani migliori. La diffusione degli anticoncezionali si fondava anche su discorsi di più ampio respiro: si parlava molto della bomba demografica, che avrebbe condotto l’umanità all’estinzione. Qui l’utopia non era quella della felicità e della fine delle nevrosi raggiunta con la liberazione dell’eros, ma la pace familiare e la nascita di generazioni di figli migliori. La creazione di un mondo privo di violenza e infelicità.
Inutile dire che la Chiesa, che continuava a opporsi a queste utopie rivelandone il carattere menzognero, veniva vista come la peggiore nemica della felicità. Ripercorrendo oggi le polemiche seguite alla promulgazione dell’Humanae vitae (1968), ritroviamo nelle parole dei critici di Paolo VI, anche di quelli cattolici, le stesse speranze utopiche che erano state lanciate dai profeti della rivoluzione sessuale e del controllo delle nascite.
Rileggendo gli scritti degli anni Sessanta e Settanta, si ha l’impressione di una sorta di impazzimento generale, di fuga nell’utopia travestita da indagine scientifica. Oggi sappiamo che quasi tutte quelle sbandierate verità scientifiche erano infondate. Non era vero che i popoli primitivi vivessero felici nella totale libertà sessuale: avevano solo regole diverse che gli antropologi non erano riusciti a comprendere e che oggi, decenni dopo, sono state finalmente raccontate. Non è vero che tutte le nevrosi nascono dalla repressione sessuale, o che l’aggressività è frutto di una mancanza di soddisfazione sessuale, oggi non lo sosterrebbe neanche il meno dotato degli psicologi. La prostituzione non solo non è finita, ma si è molto ampliata, coinvolgendo in misura non trascurabile minorenni.
Si è poi scoperto che Kinsey e Masters erano maniaci sessuali che si servivano delle loro indagini per approfittare dei collaboratori; che il tipo di campionamento a cui era ricorso Kinsey non aveva alcun valore rappresentativo, avendo egli intervistato solo persone presentatesi spontaneamente. Sempre Kinsey, poi, aveva praticato, e predicato, la pedofilia. In sostanza, la base scientifica su cui si era fondata la teoria della liberazione sessuale era infondata. Ma ormai le false certezze avevano avuto il loro effetto: era impossibile tornare indietro. E va sottolineato come questi profeti fossero tutti maschi, lasciando alle donne solo la possibilità di confermare le loro teorie in opere quasi sempre autobiografiche.
Oggi vediamo chiaramente che quello che doveva essere un cambiamento che rafforzava la famiglia e migliorava la società ha avuto effetti opposti. È diventata costume diffuso una promiscuità sessuale non solo giovanile che ha minato le basi della famiglia e mortificato le donne, costrette ad adattarsi a una “liberazione” che non corrispondeva ai loro desideri. I figli desiderati (che sono oggi più della maggioranza dei nati) non si sono rivelati migliori dei loro antecedenti: anzi, forse, peggiori, dato l’aumento del bullismo. La disgregazione del nucleo familiare ha colpito più duramente i ceti disagiati.
Ma dobbiamo anche segnalare gli effetti positivi di questa trasformazione. Oggi si possono affrontare i problemi legati al sesso con maggiore serenità; quelle che una volta erano le ragazze madri non vengono più stigmatizzate; il riconoscimento del desiderio femminile e del rispetto dovuto al corpo femminile ha portato alla condanna di ogni tipo di violenza sulle donne, anche dentro la famiglia, violenza prima sottovalutata.
La pressione per la “pianificazione familiare” ha spinto la Chiesa a chiarire meglio la sua posizione: non un rifiuto assoluto e pregiudiziale, ma l’accettazione di metodi naturali, che ha portato all’importante scoperta dei coniugi Billings.
La cultura cattolica deve elaborare una propria interpretazione critica, ma equilibrata, della trasformazione avvenuta, senza rifiutare l’esigenza profonda che essa esprime, cioè quella di procedere verso la libertà dell’essere umano. Ma a questa libertà deve essere dato uno sbocco generativo, deve essere canalizzata in senso costruttivo, non solo respinta come un pericolo insensato. Non è un’operazione facile, ma ne discendono aspetti importanti del rapporto fra la tradizione cristiana e la modernizzazione, quindi dell’evangelizzazione in un mondo secolarizzato. Ne vale decisamente la pena.
L'Osservatore Romano