Di seguito il testo integrale della
relazione tenuta ieri, 27 di febbraio, da monsignor Bruno Forte,
arcivescovo di Chieti-Vasto, presso l'Istituto Teologico Pianum di
Chieti.
* * *
È possibile educare o educarsi alla fede, se la fede è un dono? E, se
è possibile, su quale fondamento lo si può affermare alla luce dal
disegno divino rivelato nella storia? E in quale forma? Come si educa
alla fede? Come si avanza nella fede? È a queste domande che cercherò di
rispondere nelle riflessioni che seguono, valendomi di due riferimenti
biblici: il Vangelo di Marco, Vangelo del catecumeno, per rispondere
alla questione sulla possibilità e il fondamento dell’educazione alla
fede; e l’icona dei Magi che da Oriente vanno a Gerusalemme e incontrano
il Bambino a Betlemme, per comprendere come ci si educhi e si possa
educare alla fede.
I - Educare alla fede: il Vangelo di Marco, itinerario del catecumeno
Educare alla fede è un compito e una sfida che s’impongono alla
comunità cristiana sin dalle sue origini. Ne è testimone la stessa
formazione degli scritti del Nuovo Testamento, in particolare dei
Vangeli, che nascono precisamente come narrazione orientata a suscitare
la fede in Gesù e ad introdurre in essa. “Marco - scrive il Card.
Martini - presenta una catechesi, un manuale per quei membri delle
primitive comunità che cominciano l’itinerario catecumenale… Matteo è il
Vangelo del catechista: cioè, il Vangelo che dà al catechista un
insieme di prescrizioni, dottrine, esortazioni. Luca è il Vangelo del
dottore: cioè, il Vangelo dato a colui che vuole un approfondimento
storico-salvifico del mistero, in una visuale più ampia. Giovanni è il
Vangelo del presbitero, quello che al cristiano maturo e contemplativo
dà una visione unitaria dei vari misteri della salvezza”1.
A motivare la genesi dei Vangeli è, insomma, un’intenzione pedagogica,
un atto d’amore: chi narra la vicenda di Gesù lo fa per rendere
partecipi i destinatari dell’esperienza, che gli ha trasformato la vita.
Quest’aspetto pedagogico è particolarmente evidente nel vangelo di
Marco, il più breve dei quattro, il più antico, costituito da un
racconto scarno e coinvolgente: “Marco il primo di questi quattro
manuali… è centrato su un itinerario catecumenale”2. Proprio così, il secondo Vangelo si presenta come un
cammino,
che parte dalle domande del narratore e del destinatario, impegna i due
nella ricerca e culmina nell’incontro col Risorto, da cui tutto nasce e
a cui tutto è orientato…
Si tratta di un
cammino coinvolgente, che pone davanti a
decisioni da prendere riguardo alla propria vita. In questo senso, il
racconto di Marco è “come un dramma, dove l’esito finale non è scontato…
Ogni lettore è invitato a fare il percorso dei personaggi del dramma
sia nella ricerca della vera identità di Gesù sia nella scoperta della
propria identità”3.
In questa luce, Pietro - figura centrale del racconto - appare come la
voce del catecumeno, che si apre progressivamente e non senza fatica ad
accogliere la rivelazione del Figlio di Dio. “Il vangelo di Marco si
presenta come la traccia di un cammino che va dalla paura e dal dubbio
alla gioia e alla pace dell’incontro… Il dramma di Gesù Cristo si
presenta come la parabola che ogni essere umano è chiamato a fare:
perdere la sua vita per ritrovarla”4.
La via che Gesù percorre dalla Galilea fino a Gerusalemme non è,
insomma, un puro e semplice tracciato geografico e cronologico, è anche
un percorso dell’anima, che stimola alla “sequela”.
Si potrebbe affermare che - proprio a questo scopo - il Gesù di Marco propone la sua identità come velata, in un
itinerario progressivo,
per proporsi alla libertà dell’assenso e non imporsi ad essa. Al
culmine si trova un’esplicita confessione di fede, posta in bocca a un
pagano, il Centurione romano ai piedi della Croce: “Davvero quest’uomo
era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Questa confessione è annunciata sin
dall’inizio del Vangelo: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di
Dio” (Mc 1,1). L’itinerario che porta alla professione finale è
costituito da un alternarsi di rivelazione e di nascondimento, che è
stato definito “segreto messianico”5.
Con quest’espressione s’intende l’atteggiamento tenuto da Gesù durante
il suo ministero pubblico per tenere nascosta la sua identità di Messia
talvolta ai discepoli (Mc 8,29-30), talvolta ai miracolati (Mc 1,44;
5,43; 7,36; 8,26), talvolta ai demoni esorcizzati (Mc1,25; 1,34; 3,12), e
dichiararla infine al momento in cui inizia la sua passione, quando è
abbandonato dalla folla e dai discepoli. Allora, Gesù si manifesta
apertamente come il Cristo-Messia: “Il sommo sacerdote lo interrogò
dicendogli: ‘Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?’ Gesù rispose:
‘Io lo sono!’” (Mc 14,61-62).
Quello che Marco propone è un
itinerario mistagogico. “Nella
prima parte si tratta di riconoscere progressivamente chi è Gesù.
Quindi, una volta riconosciuto, Gesù trascina i discepoli e destinatari a
camminare dietro a lui, percorrendo la strada fino alla Croce”6. Ci si può allora chiedere come venisse utilizzato “questo testo nella comunità o nelle comunità che l’hanno visto nascere”7.
Sul piano letterario, il vangelo di Marco contiene tutti i segni
distintivi che ne fanno un discorso e un’azione drammatica, che richiede
di essere proclamata in una sola volta, d’un fiato. Un’ipotesi
suggestiva è che il racconto di Marco venisse letto durante la notte di
Pasqua, nella veglia fra il sabato e la domenica di resurrezione. Per
alcuni degli ascoltatori, nuovi membri della comunità, tale notte era il
punto d’approdo dell’iniziazione cristiana: al termine della lettura
integrale del racconto evangelico sarebbero stati battezzati e chiamati a
partecipare per la prima volta al banchetto eucaristico. Come la
struttura della cena pasquale ebraica comprendeva un racconto
drammatico, l’“haggadah” (“narrazione”), che costituiva il filo
conduttore del rito, così la veglia pasquale cristiana delle origini
avrebbe previsto un’analogo racconto, quello del Vangelo di Marco
appunto. “Dopo la lettura del Vangelo di Marco - ritiene Standaert -, ci
si recava al fiume o al mare per battezzare i catecumeni e poi ci si
ritrovava tutti insieme per il banchetto eucaristico celebrato il
mattino presto”.
Il secondo Vangelo non è, insomma, una semplice raccolta informativa: l’
itinerario proposto vuole essere
performativo,
tale cioè da indurre l’ascoltatore a decidere della sua stessa vita
davanti a Gesù, il Figlio di Dio. Dall’incontro con questo racconto non
si esce indenni: chi ne fa una lettura di fede, ne è segnato in maniera
profonda. In esso tutto nasce dall’amore del Dio che si rivela e da cui
il narratore è stato toccato e trasformato e tutto ha per scopo di
suscitare nei cuori questo amore. Si può dedurre da questo che
nell’educazione alla fede tutto nasca
dall’amore e tenda
all’amore.
È per amore che Dio si è rivelato agli uomini col desiderio di farli
partecipi della Sua vita. È per amore che chi crede - al pari degli
Evangelisti - vorrebbe trasmettere il dono ricevuto agli altri,
introducendoli nell’esperienza della carità di Dio. È per un profondo
bisogno di amore che ci si mette alla ricerca del Volto divino. Alle
sorgenti di ogni educazione alla fede c’è l’amore. Spesso si tratta di
un amore ferito: quello, ad esempio, dei genitori credenti che vedono i
loro figli allontanarsi dalla vita di fede o quello di chi ha
responsabilità pastorali e sperimenta quanto sia difficile a volte
trasmettere il dono della fede agli altri, specialmente ai giovani,
nella complessità del tempo che viviamo. Eppure, il desiderio di
comunicare la bellezza della fede sfida quest’amore ferito e lo spinge a
non arrendersi. Spesso, chi si allontana da Dio lo fa perché non ha mai
veramente sperimentato la grandezza del Suo dono. Non si esagera nel
pensare che tante volte l’amore divino è più ignorato che
consapevolmente rifiutato!
Educare alla fede vorrà dire, allora, far conoscere credibilmente
quest’amore con la testimonianza della parola e della vita, attrarre ad
esso, comunicarlo con l’eloquenza silenziosa di chi ne fa esperienza e
ne irradia la bellezza in maniera credibile. Educarsi alla fede, a sua
volta, significherà accettare la sfida di mettersi alla ricerca
dell’infinito amore, aprendosi a tutti gli aiuti possibili sulla via
dell’incontro sempre più profondo con Dio. Alla luce del carattere
performativo del vangelo di Marco si può affermare, insomma, che
l’educazione alla fede è un itinerario non solo possibile, ma
necessario, e che esso nasce dalla volontà di Cristo e dal Suo amore,
per culminare nell’esperienza crescente di questo stesso amore, che
libera e salva.
II - Educare alla fede: le tappe di un cammino
L’itinerario dell’educazione alla fede, di cui il vangelo di Marco ci offre il modello normativo, avviene necessariamente per
tappe.
Queste muovono dall’esperienza fontale dell’incontro col Risorto e
tendono a suscitarla sempre di nuovo, tanto in chi educa, quanto in chi
viene educato. Per descrivere queste tappe ricorro a un’icona biblica,
tratta dal Vangelo secondo Matteo (2,1-12): quella dei Magi che dal
lontano Oriente vanno a Betlemme, guidati da una stella. Nella sua
essenzialità narrativa, essa consente di riconoscere sei tappe
costitutive dell’educazione alla fede in Cristo e alla sequela di Lui.
1.
Da Oriente a Gerusalemme: il punto di partenza, ovvero la domanda originaria. e la meta dell’educazione alla fede.
Stando al racconto evangelico i Magi vengono “da oriente a
Gerusalemme”: “Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode,
ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme” (Mt 2,1).
Nell’immaginario biblico l’Oriente, lì dove sorge il sole, è il luogo
dell’originario, dove tutto comincia. In questo senso i Magi sono figura
di quanti, muovendo dalle esigenze originarie, costitutive dell’essere
umano, vanno verso la Città di Dio. Non si azzarda, allora, nel
riconoscere nei Magi la figura di ogni onesto cercatore di Dio, mosso
dal bisogno radicale, di cui si fa voce Sant’Agostino all’inizio delle
sue Confessioni: “Ci hai fatto per Te e inquieto è il nostro cuore
finché non riposi in Te” (I, 1). Il richiamo alla provenienza da Oriente
dice, inoltre, che i Magi si sono messi in cammino lasciando il loro
mondo vitale, l’insieme delle loro sicurezze e delle loro abitudini
radicate. Non si va alla ricerca di Dio senza prendere una decisione,
senza fare un taglio, sradicandosi dal contesto rassicurante del piccolo
universo che ci è proprio, per aprirsi al rischio della ricerca del
Volto desiderato e nascosto. Il viaggio di ogni cercatore di Dio va dal
proprio Oriente - e dunque dagli abissi del proprio cuore, dalle domande
più profonde che ci abitano - verso la “città di Davide” (Luca 2,11),
vero concentrato della rivelazione divina. Proviamo a chiederci: qual è
il nostro Oriente? Quali sono le domande più vere e importanti che
riconosciamo nel nostro cuore? Abbiamo mai scelto veramente di muoverci
da dove siamo verso la Città di Dio, incontro al Suo dono d’amore? Siamo
pronti a lasciare le nostre certezze per vivere l’avventura della
ricerca dell’amore più grande, quello che solo Dio potrà darci? Porre
questi interrogativi e rispondere ad essi è l’inizio dell’educazione
alla fede, stimolo a prendere la decisione necessaria per andare dal
nostro oriente verso la Città di Dio. Eppure, solo in questa decisione
che ci fa cercatori del Volto nascosto, mendicanti del cielo, si
realizza la nostra vera e piena umanità. Lo esprimono questi versi di
Margherita Guidacci:
Come onde la tua riva tocchiamo,ogni istante è confine tra l’incontro e l’addio.Dal nostro mare in te fuggire, nel nostro mare fuggirti:Non altro è di noi labili il destino.Né tregua mai ci è data, anche se amoreOd altra arcana ansia più lontano ci spinseSulle tue sabbie, in vista delle torriDella superba tua città. Ché ancoraIndietro ci trascina il nostro pesoNel mutevole abisso –Siamo di nuovo desiderio e lamento8
.
2.
Pellegrini nella notte, guidati dalla stella. . I Magi
compiono il loro viaggio lasciandosi guidare da una stella: «Dov’è colui
che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e
siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,2.9-10). Abbiamo qui alcune indicazioni
importanti sulle condizioni della ricerca di Dio, e dunque
dell’educazione alla fede: il cammino ha bisogno d’una guida. Il fatto
che a guidare i Magi sia una stella, mostra come il percorso si svolga
di notte: la via verso la fede non è un itinerario luminoso. Occorre
avanzare nell’oscurità, pellegrini verso la luce, di cui la stella è
annuncio e promessa. Che cos’è la stella? Nell’immaginario biblico essa
sta a dire un segno che viene dal cielo, raggiungendo gli uomini
nell’oscurità della loro esperienza per condurli dove il Signore li
chiama. C’è un linguaggio di Dio nella natura e nelle vicende umane che
dobbiamo imparare a conoscere: da una parte, si tratta della “silenziosa
scrittura dei cieli”, cantata ad esempio dai Salmi (“I cieli narrano la
gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento”: 19,2),
della testimonianza, cioè, che il creato rende al Creatore col fatto
stesso di esistere. Dall’altra, si tratta dei “segni dei tempi” con cui
il Signore raggiunge i cercatori del Suo volto per indicare loro la
strada nella complessità delle opere e dei giorni. Come afferma il
Concilio Vaticano II, “è dovere permanente della Chiesa di scrutare i
segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo” (Costituzione
Gaudium et Spes
4). La stella guida il cammino dei cercatori di Dio, affacciandosi nei
segnali di attesa che spesso gli uomini manifestano per dare un senso
alla vita e nella ricerca di una giustizia più grande per tutti, oltre
che nelle testimonianze di amore che tante volte illuminano perfino le
situazioni più tristi e difficili. Inoltre, seguire la stella per andare
verso il Bambino che nascerà lì dove essa si poserà, vuol dire anche
uscire da sé per andare verso l’altro, soprattutto piccolo e debole.
Aprirsi alla fede o educare altri ad essa vuol dire anche mettersi in
ascolto della natura e della storia e impegnarsi ad andare verso gli
altri con scelte e gesti in cui esprimere il dono di sé. Renzo
Barsacchi, il poeta toscano in cui fede e poesia s’incontrano spesso in
modo struggente, in una poesia dal titolo
Tu puoi soltanto attendere
richiama questa continua ricerca di segni, che l’amore esige nella
nostra vita, e la certezza che questo bisogno non viene da noi, ma ci
raggiunge come dono da accogliere in segni sempre nuovi, da riconoscere
come stella sul cammino delle notti:
Il tempo è incerto. In bilico il serenoe la pioggia. Ma né l’uno né l’altrodipendono da te.Tu puoi soltanto attendere, scrutandosegni poco leggibili nell’aria.Ti affidi al desiderioascoltando il timore. Le tue manisono pronte a difendersi e ad accogliere.Così non sai quando Dio ti prepariuna gioia o un dolore e tu stai quasiorigliando alla porta del suo cuore,senza capire come sia decisoda quell’unico amore,lo splendore del riso o delle lacrime9
.
3.
La notte del mondo e la Parola di Dio. Bisogna ammettere
che questo “ascolto dei segni” non è sempre facile. Perfino il dono di
sé può restare qualcosa di ambiguo e faticoso nel cammino verso Dio. La
notte che copre la storia talvolta è veramente buia. Ecco, allora, che
il Signore ci offre un aiuto decisivo per arrivare a credere in Lui: si
tratta della Sua Parola, della rivelazione storica del Suo Volto, che si
è compiuta attraverso eventi e parole intimamente connessi, di cui ci
dà testimonianza la storia della salvezza, presentata nella Bibbia.
Anche i Magi ne hanno avuto bisogno, tant’è vero che seguono il
suggerimento dei capi dei sacerdoti e degli scribi del popolo,
consultati da Erode, circa il luogo in cui doveva nascere il Cristo: «A
Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non
sei davvero
l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele»
(Matteo 2,5-6). Il testo citato per indicare il luogo dell’incontro col
Messia è tratto dal profeta Michea (5,1-3) e contiene diverse risonanze
bibliche (2 Samuele 5,2; 1Cronache 11,2). La storia dei Magi viene così
a dirci che nella notte del tempo la Parola di Dio è veramente lampada
ai nostri passi e luce sul nostro cammino (cf. Salmo 118,105). Chi vuol
incontrare il Dio vivente, deve fidarsi della Sua Parola, mettersi in
ascolto umile, perseverante e fiducioso di essa. Imparare dalle Sacre
Scritture il linguaggio di Dio, aiuta a riconoscere gli appuntamenti con
la Sua Grazia. Chi accoglie la rivelazione divina nella Bibbia sa di
non essere mai solo, perché la Parola del Dio vivente lo raggiunge,
abita il suo cuore e gli dona occhi per vedere e credere e lasciarsi
guidare dall’Amato ai pascoli della vita che vince e vincerà la morte.
Per chi vuol educarsi ed educare altri alla fede è indispensabile il
riferimento al testo biblico, sorgente di luce nell’andare verso
l’incontro con Dio. Veramente
lampada per i miei passi è la tua parola,luce sul mio cammino (Salmo 118/119, 105).
4.
L’incontro con Erode: la tentazione in agguato. È a
questo punto che nella vicenda dei Magi si colloca un incontro
pericoloso, che potrebbe avere conseguenze drammatiche. Essi si recano a
Gerusalemme in cerca di maggiori ragguagli sulla loro destinazione.
Sono ancora nella situazione in cui la Parola di Dio non ha rischiarato
loro pienamente la strada, pur segnalata nelle coordinate fondamentali
dalla stella. Nella Città Santa risuona la loro domanda: «Dov’è colui
che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e
siamo venuti ad adorarlo…». Si inserisce qui l’azione del re Erode,
simbolo non solo del potere, ma del delirio di onnipotenza che esso può
suscitare, lì dove il cuore si chiuda al riconoscimento onesto del
dovere di obbedire alla Verità al di sopra di tutto. Erode è turbato
dalla richiesta dei Magi, vi intuisce un pericolo per la sua autorità.
Si finge cercatore del vero, ma in realtà l’indagine che svolge presso
gli esperti della Legge è finalizzata solo a saperne di più per
intervenire a tutela della sua smisurata volontà di potenza. A tal fine
vorrebbe utilizzare anche i Magi: «Allora Erode, chiamati segretamente i
Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la
stella e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi
accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere,
perché anch’io venga ad adorarlo”» (vv. 7-8). Sulla via della ricerca di
Dio il vero possibile rischio è fare del nostro “io” e delle sue
ambizioni l’idolo cui sacrificare ogni cosa. Questa tentazione può
presentarsi nelle forme più diverse, ma la molla che vi agisce è sempre
la stessa: l’orgoglio. È la tentazione diabolica, la pretesa di voler
essere come Dio, quella che raggiunse la creatura umana sin dal primo
mattino del mondo (cf. Genesi 3). Il seguito del racconto ci mostra come
i Magi abbiano saputo schivarla, riconducendo le richieste di Erode
alla loro vera misura, quella di un delirio accecante che nega
l’evidenza del primato di Colui che ci trascende tutti. Il cercatore di
Dio o sarà umile e impegnato a vincere le trappole dell’orgoglio, o non
arriverà mai alla meta, sciupando quanto di più bello può esserci
nell’esistenza umana. E questo esigerà una continua vigilanza e una
continua lotta. L’amore di cui la fede è espressione, porta con sé
l’esigenza ineludibile di conoscere la ferita del cuore. Esprimono
l’idea che ogni relazione d’amore - in particolare quella con Dio - va
vissuta come unità di vita e di morte a favore della vita, questi
bellissimi versi di Elena Bono:
Quando tu mi hai ferita?Forse ero ancora nel seno di mia madreo forse solo nei tuoi pensieri.Tu mi amasti da sempre.Io non ho che un piccolo tempo da dartied un piccolo amore.Ma mi perdo nel tuo,questo mare che bruciae di sé si alimenta.Allorché mi feristiio non sapevoquanto il tuo amore facesse male.Ed è questo che vuoi,soltanto questo in cambio dell’infinito amore:che io soffra l’amor tuo,che me lo porti come piaga profondae non la curi10
.
5.
L’incontro con Dio: la gioia, la comunità, l’umiltà, l’adorazione e il dono di sé. Il
racconto di Matteo prosegue: «Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la
stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si
fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella,
provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino
con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro
scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (vv. 9-11). Si
riconoscono qui, nella semplicità del racconto, le caratteristiche
fondamentali dell’incontro con Dio, grazie al quale cambia tutto:
“All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una
grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che
dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”
(Benedetto XVI, Enciclica
Deus caritas est, 1). Innanzitutto, s’affaccia
la gioia:
incontrare l’Amato, desiderato e cercato, è fonte di grandissima gioia,
perché vuol dire sentirsi raggiunti da un amore infinito, da
un’indicibile bellezza. Niente dà al nostro cuore tanta gioia quanto il
riconoscerci amati e l’amare. Perciò l’esperienza della fede è così
bella e vale la pena di accettare ogni sacrificio per educarci ad essa e
comunicarla ad altri: in Dio si trova la vera gioia, il senso
d’esistere, l’amore che è origine, grembo e patria della vita presente e
di quella che ci attende oltre la morte. La gioia accompagna il passo
successivo, semplice e concreto: entrare “nella casa”. Tenendo conto
dell’immagine della Chiesa come “casa, edificio”, presente in Matteo
(cf. 16,18: “su questa pietra edificherò la mia Chiesa”), vorrei vedere
qui espressa la necessità della
comunità ecclesiale
nell’educazione alla fede. La Chiesa è luogo e segno della presenza di
Cristo, della Parola che salva, dell’incontro col Risorto attraverso i
segni sacramentali e l’amore fraterno. È la Chiesa ad affidare il
servizio dell’annuncio / testimonianza / educazione, che parli
attraverso la vita. La fede è donata e nutrita nella Chiesa,
“comunità educante”. Senza la comunione vissuta nella Chiesa Madre,
l’educazione alla fede rischia di naufragare nell’individualismo o
nell’evasione consolatoria! All’interno della casa la gioia dei Magi
alla vista del Bambino con la Madre si esprime nel bisogno
dell’adorazione: essi si prostrano in segno di profonda umiltà e adorano
il Piccolo, riconoscendo l’assoluta sovranità dell’Amore incarnato di
Dio davanti a cui sono giunti. Umiltà e stupore adorante sono i due
atteggiamenti fondamentali della preghiera, espressione e nutrimento
della fede: con
l’umiltà confessiamo il nostro niente; con
l’adorazione
ci lasciamo colmare dal tutto di Dio. Vivere una simile esperienza
genera il bisogno di rispondere all’amore con l’amore, offrendo a Dio
i doni
dello scrigno del nostro cuore. La tradizione cristiana ha letto
nell’oro, nell’incenso e nella mirra offerti dai Magi i simboli del
triplice riconoscimento di cui vive la fede nel Figlio di Dio fatto uomo
per noi: «La mirra, perché in quanto uomo era destinato a morire ed
essere sepolto; l’oro, poiché era il re, il cui regno non avrà fine; e
l’incenso, poiché era Dio, che si è fatto conoscere in Giudea»
(Sant’Ireneo di Lione,
Adversus Haereses III, 9, 2). I doni dei
Magi sono simbolo del totale coinvolgimento dell’uomo nella risposta
all’amore di Dio, che dona tutto e chiede tutto. Questo giocarsi tutto
nell’atto d’amore a Colui che è amore, è espresso da versi come questi
di Ada Negri:
Non seppi dirti quant’io t’amo, Dionel quale credo, Dio che sei la vitavivente, e quella già vissuta e quellach’è da viver più oltre: oltre i confinidei mondi, e dove non esiste il tempo.Non seppi; - ma a Te nulla occulto restadi ciò che tace nel profondo. Ogni attodi vita, in me, fu amore. Ed io credettifosse per l’uomo, o l’opera, o la patriaterrena, o i nati dal mio saldo ceppo,o i fior, le piante, i frutti che dal solehanno sostanza, nutrimento e luce;ma fu amore di Te, che in ogni cosae creatura sei presente. Ed orache ad uno ad uno caddero al mio fiancoi compagni di strada, e più sommessesi fan le voci della terra, il tuovolto rifulge di splendor più forte,e la tua voce è cantico di gloria.Or - Dio che sempre amai - t’amo sapendod’amarti; e l’ineffabile certezzache tutto fu giustizia, anche il dolore,tutto fu bene, anche il mio male, tuttoper me Tu fosti e sei, mi fa tremanted’una gioia più grande della morte.Resta con me, poi che la sera scendesulla mia casa con misericordiad’ombre e di stelle. Ch’io ti porga, al descoumile, il poco pane e l’acqua puradella mia povertà. Resta Tu soloaccanto a me tua serva; e, nel silenziodegli esseri, il mio cuore oda Te solo11.
6.
Fecero ritorno al loro paese per un’altra strada: vivere la fede nella quotidianità.
La storia dei Magi non termina qui. C’è un seguito molto importante per
chi si riconosce al pari di loro “cercatore di Dio”: «Avvertiti in
sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al
loro paese» (v. 12). Due aspetti vanno sottolineati: l’incontro con Dio
non fa evadere dalla storia, dagli impegni della quotidianità e dalle
responsabilità a cui si è stati chiamati. Il ritorno dei Magi al loro
paese dice precisamente questo, escludendo ogni concezione consolatoria
della fede, che ne faccia un rifugio per sottarsi ai propri doveri e
alla rete di amore, in cui ciascuno è posto. L’eternità, cui siamo
chiamati, si esprime sempre in un giorno, l’oggi in cui vivere il sì a
Dio nella fede e testimoniare agli altri la bellezza del Suo amore
mediante la carità. L’altro elemento che il racconto ci fa capire è che
il ritorno alla vita ordinaria dopo l’incontro con il Signore avviene
“per un’altra strada”. Si è gli stessi, eppure non più gli stessi, se si
è vissuto l’incontro col Dio vivente. Ormai, non c’è Erode che tenga
per trattenere chi ha incontrato il Signore nella logica dell’egoismo e
dell’avidità che tutto rapporta alle brame del proprio “io”. Incontrare
il Figlio di Dio nel Bambino di Betlemme significa riconoscere l’umiltà
del Dio incarnato e lasciarsi trasformare dal Suo dono, per diventare
una creatura nuova, che canta con la vita il cantico nuovo di chi è
stato reso nuovo dallo Spirito di Dio. Il cammino della vita sarà un
continuo, sempre nuovo incontro con l’Amato, se custodiremo con fedeltà
il dono ricevuto, ravvivandolo ogni giorno. Allora, avvertiremo il
bisogno di chiedere a Colui che si è donato a noi il dono di questa
fedeltà, nell’esperienza sempre nuova del Suo amore. Allora, potremo
trasmettere ad altri la fede, come irradiazione del nostro cuore umile,
innamorato di Dio, nella certezza che il protagonista principale
dell’incontro col Signore resta Lui, che agisce col Suo Spirito nei
nostri cuori. Possiamo, così, far nostre le parole che Giovanni Papini -
ateo militante convertito clamorosamente alla fede nel 1921 - scrisse
nello stesso anno della sua conversione, al termine della sua
Storia di Cristo:
Gesù, sei ancora, ogni giorno, in mezzo a noi. E sarai con noi
per sempre… Noi abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu
solamente, che ci ami, puoi sentire, per noi tutti che soffriamo, la
pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo puoi sentire
quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c’è di te, in
questo mondo, in questa ora del mondo… Tutti hanno bisogno di te, anche
quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli
che lo sanno… Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza
accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei
pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l’unica verità
degna d’esser saputa; e chi s’affanna dietro la pace cerca te, sola pace
dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti chiamano senza
sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso
del nostro… La grande esperienza volge alla fine. Gli uomini,
allontanandosi dall’Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte.
Più d’una promessa e d’una minaccia s’è avverata. Ormai non abbiamo, noi
disperati, che la speranza d’un tuo ritorno… Noi, gli ultimi, ti
aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra
indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare
dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato
per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo
implacabile amore12.
*
NOTE
1 C.M. Martini,
L’itinerario spirituale dei Dodici, Borla, Roma 1981, 7s.
2
Ib.
3 R. Fabris,
Marco, Cittadella Editrice, Assisi 2005, 14.
4
Ib., 15.
5 La formula fu coniata da W. Wrede,
Il segreto messianico nei Vangeli, D’Auria, Napoli 1995: originale tedesco
Das Messiasgeheimnis in den Evangelien, 1901; 1994.
6 B. Standaert,
Il Vangelo secondo Marco, Borla, Roma 1984, 43.
7 Prefazione all’opera monumentale dello stesso Standaert,
Marco, vangelo di una notte, vangelo per la vita,
cit.
8
All’eterno,
Paglia e polvere, Rebellato, Padova 1961.
9
Marinaio di Dio, Nardini, Firenze 1985, 74.
10
I galli notturni, Garzanti, Milano 1952, 77.
11 A. Negri,
Il dono, in
Poesie, Mondadori, Milano 19663, 847s.
12 G. Papini,
Storia di Cristo,
540. 549, parole conclusive. Pubblicata per la prima volta nel 1921 e
più volte ristampata (cf. Vallecchi, Firenze 2007), l’opera è
considerata il "libro della redenzione" dello scrittore più irriverente
del Novecento italiano.