domenica 30 giugno 2013

Lo sviluppo organico della liturgia.




Viene pubblicato in Italia il libro di Alcuin Reid «Lo sviluppo organico della liturgia. I principi della riforma liturgica e il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del Concilio Vaticano II» (Cantagalli, 432 pagine, 22 euro). Il libro ha la prefazione dell'allora cardinale Joseph Ratzinger

JOSEPH RATZINGERCITTÀ DEL VATICANO
 Negli ultimi decenni, la questione della corretta celebrazione della liturgia è diventata sempre più uno dei punti centrali della controversia attorno al Concilio Vaticano II, ovvero a come dovrebbe essere valutato e accolto nella vita della Chiesa.

Ci sono gli strenui difensori della riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l’ultima edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è considerata come “semper reformanda”, cosicché alla fine è la singola “comunità” che fa la sua “propria” liturgia, nella quale esprime se stessa. Un Liturgisches Kompendium [Compendio liturgico, ndr] protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat, Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come “progetto di riforma” (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti liturgisti cattolici. D’altra parte vi sono anche i critici accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua pratica applicazione, ma anche le sue basi conciliari.

Essi vedono la salvezza solo nel totale rifiuto della riforma. Tra questi due gruppi, i riformisti radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile solo se viene preservata l’identità della liturgia, e sottolineano che uno sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”. Come un giardiniere accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue energie vitali e alle sue leggi, così anche la Chiesa dovrebbe accompagnare rispettosamente il cammino della liturgia attraverso i tempi, distinguendo ciò che aiuta e risana da ciò che violenta e distrugge.

Se le cose stanno in tal modo, allora dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua energia vitale nel mutare dei tempi per incrementarla e rinnovarla. Il libro di dom Alcuin Reid si colloca in questa linea. Percorrendo la storia del Rito romano (Messa e breviario), dalle origini fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, cerca di stabilire quali siano i principi del suo sviluppo liturgico, attingendo così dalla storia, con i suoi alti e bassi, i criteri su cui ogni riforma deve basarsi. Il libro è diviso in tre parti. La prima, molto breve, analizza la storia della riforma del Rito romano dalle sue origini alla fine del XIX secolo. La seconda parte è dedicata al movimento liturgico fino al 1948.

La terza – di gran lunga la più estesa – tratta della riforma liturgica sotto Pio XII fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. Questa parte si rivela molto utile, proprio perché tale fase della riforma liturgica non viene più molto ricordata, nonostante che proprio in essa – come anche nella storia del movimento liturgico, evidentemente – si ritrovino tutte le questioni circa le modalità corrette per una riforma, facendo sì che sia possibile acquisire anche dei criteri di giudizio. La decisione dell’autore di fermarsi alla soglia del Concilio Vaticano II è molto saggia. Egli evita così di entrare nella controversia legata all’interpretazione e alla ricezione del Concilio, illustrando il momento storico e la struttura delle varie tendenze, la quale risulta determinante per la questione circa i criteri della riforma. Alla fine del suo libro, l’autore elenca i principi per una corretta riforma: essa dovrebbe essere in egual misura aperta allo sviluppo e alla continuità con la Tradizione; dovrebbe sapersi legata a una tradizione liturgica oggettiva e fare sì che la continuità sostanziale sia salvaguardata. L’autore, poi, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica, sottolinea che «anche la suprema autorità della Chiesa non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia» (CC n. 1125). Come criteri ulteriori troviamo, infine, la legittimità delle tradizioni liturgiche locali e l’interesse per l’efficacia pastorale. Vorrei sottolineare ulteriormente, dal mio punto di vista personale, alcuni dei criteri già brevemente indicati del rinnovamento liturgico. Comincerò con gli ultimi due criteri fondamentali. Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l’essenza del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione e perciò il primo garante dell’obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono.
La legge cui deve attenersi non è l’agire ad libitum, ma l’obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il “rito”, e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l’insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis. È importante a tale riguardo interpretare correttamente la “continuità sostanziale”. L’autore ci mette espressamente in guardia dalla strada sbagliata sulla quale potremmo essere condotti da una teologia sacramentaria neoscolastica slegata dalla forma vivente della liturgia. Partendo da essa, si potrebbe ridurre la “sostanza” alla materia e alla forma del sacramento, e dire: il pane e il vino sono la materia del sacramento, le parole dell’istituzione sono la sua forma; solo queste due cose sono necessarie, tutto il resto si può anche cambiare. Su questo punto modernisti e tradizionalisti si trovano d’accordo. Basta che ci sia la materia e che siano pronunciate le parole dell’istituzione: tutto il resto è “a piacere”. Purtroppo molti sacerdoti oggi agiscono sulla base di questo schema; e persino le teorie di molti liturgisti, sfortunatamente, si muovono in questa direzione.

Essi vogliono superare il rito come qualcosa di rigido e costruiscono prodotti di loro fantasia, ritenuta pastorale, attorno a questo nocciolo residuo, che viene così relegato nel regno del magico oppure privato del tutto del suo significato. Il movimento liturgico aveva cercato di superare questo riduzionismo, prodotto di una teologia sacramentaria astratta, e di insegnarci a considerare la liturgia come l’insieme vivente della Tradizione fattasi forma, che non si può strappare in piccoli pezzi, ma che deve essere visto e vissuto nella sua totalità vivente. Chi, come me, nella fase del movimento liturgico alla vigilia del Concilio Vaticano II, è stato colpito da questa concezione, può solo constatare con profondo dolore la distruzione di quel che ad esso stava a cuore. Vorrei brevemente commentare altre due intuizioni che appaiono nel libro di dom Alcuin Reid. L’archeologismo e il pragmatismo pastorale – quest’ultimo, peraltro, è spesso un razionalismo pastorale – sono entrambi errati. Potrebbero essere descritti come una coppia di gemelli profani. I liturgisti della prima generazione erano per la maggior parte storici e, di conseguenza, inclini all’archeologismo.


Volevano dissotterrare le forme più antiche nella loro purezza originale; vedevano i libri liturgici in uso, con i loro riti, come espressione di proliferazioni storiche, frutto di passati fraintendimenti e ignoranza. Si cercava di ricostruire la più antica Liturgia romana e di ripulirla da tutte le aggiunte posteriori. Non era cosa del tutto sbagliata; ma la riforma liturgica è comunque qualcosa di diverso da uno scavo archeologico e non tutti gli sviluppi di qualcosa di vivo devono seguire la logica di un criterio razionalistico/storicistico. Questa è anche la ragione per cui – come l’autore giustamente osserva – nella riforma liturgica non deve spettare agli esperti l’ultima parola. Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi). Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i Sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori. Poiché spesso, ovviamente, risulta impossibile elevare la conoscenza storica al rango di nuova norma liturgica, molto facilmente questo “archeologismo” si è legato al pragmatismo pastorale. Si è deciso in primo luogo di eliminare tutto ciò che non era riconosciuto come originale e, di conseguenza, come “sostanziale”, per poi integrare lo “scavo archeologico” – qualora fosse sembrato ancora insufficiente – con “il punto di vista pastorale”. Ma che cosa è “pastorale”? I giudizi intellettualistici dei professori su queste questioni erano sovente determinati dalle loro considerazioni razionali e non tenevano conto di ciò che realmente sostiene la vita dei fedeli. Cosicché oggi, dopo la vasta razionalizzazione della liturgia nella prima fase della riforma, si è di nuovo alla ricerca di forme di solennità, di atmosfere “mistiche” e di una certa sacralità.
Ma poiché esistono – necessariamente e sempre più evidentemente – giudizi largamente divergenti su che cosa sia pastoralmente efficace, l’aspetto “pastorale” è divenuto il varco per l’irruzione della “creatività”, la quale dissolve l’unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità. Con questo non si vuol dire che la liturgia eucaristica, come anche la liturgia della Parola, non siano molte volte celebrate, a partire dalla fede, in modo rispettoso e “bello” nel senso migliore della parola.

Ma dato che stiamo cercando i criteri della riforma, dobbiamo pure menzionare i pericoli che negli ultimi decenni, purtroppo, non sono rimasti soltanto fantasie di tradizionalisti nemici della riforma. Vorrei soffermarmi ancora sul fatto che, in quel compendio liturgico citato sopra, il culto è stato presentato come “progetto di riforma”, e cioè come un cantiere dove ci si dà sempre un gran da fare. Simile, seppure un po’ diverso, è il suggerimento, da parte di alcuni liturgisti cattolici, di adattare la riforma liturgica al mutamento antropologico della modernità e di costruirla in modo antropocentrico.

Se la liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? In ogni riforma liturgica e in ogni celebrazione liturgica, il primato di Dio dovrebbe sempre occupare il primissimo posto. Con questo sono andato molto oltre il libro di dom Alcuin. Ma credo che, comunque, sia risultato chiaro che questo libro, con la ricchezza dei suoi spunti, ci insegna dei criteri e ci invita a un’ulteriore riflessione. Per questo ne raccomando la lettura.


L'Angelus di Papa Francesco. "Dobbiamo imparare ad ascoltare di più la nostra coscienza ...



Due nuovi tweet del Papa. 

"Oggi è la Giornata per la carità del Papa. Grazie per le preghiere e la solidarietà

 "Un cristiano non può mai essere annoiato o triste. Chi ama Cristo è una persona piena di gioia e che diffonde gioia"

(30 giugno 2013)

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L'Angelus di Papa Francesco. "Dobbiamo imparare ad ascoltare di più la nostra coscienza ... lo spazio interiore dell’ascolto della verità, del bene, dell’ascolto di Dio; è il luogo interiore della mia relazione con Lui ..."

 Il Papa Benedetto XVI ci ha dato un grande esempio in questo senso, quando il Signore gli ha fatto capire, nella preghiera, quale era il passo che doveva compiere. Ha seguito, con grande senso di discernimento e coraggio, la sua coscienza, cioè la volontà di Dio che parlava al suo cuore.
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Cari fratelli e sorelle, buon giorno!
il Vangelo di questa domenica (Lc 9,51-62) mostra un passaggio molto importante nella vita di Cristo: il momento in cui – come scrive san Luca – «Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (9,51). Gerusalemme è la meta finale, dove Gesù, nella sua ultima Pasqua, deve morire e risorgere, e così portare a compimento la sua missione di salvezza.

Da quel momento, dopo quella “ferma decisione”, Gesù punta dritto al traguardo, e anche alle persone che incontra e che gli chiedono di seguirlo, dice chiaramente quali sono le condizioni: non avere una dimora stabile; sapersi distaccare dagli affetti umani; non cedere alla nostalgia del passato.
Ma Gesù dice anche ai suoi discepoli, incaricati di precederlo sulla via verso Gerusalemme per annunciare il suo passaggio, di non imporre nulla: se non troveranno disponibilità ad accoglierlo, si proceda oltre, si vada avanti. 
(...)  
Tutto questo ci fa pensare. Ci dice, ad esempio, l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e seguirla. Gesù, nella sua esistenza terrena, non era, per così dire, “telecomandato”: era il Verbo incarnato, il Figlio di Dio fatto uomo, e a un certo punto ha preso la ferma decisione di salire a Gerusalemme per l’ultima volta; una decisione presa nella sua coscienza, ma non da solo: insieme al Padre, in piena unione con Lui! Ha deciso in obbedienza al Padre, in ascolto profondo, intimo della sua volontà. E per questo la decisione era ferma, perché presa insieme con il Padre. E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino. (...)  
Così anche noi: dobbiamo imparare ad ascoltare di più la nostra coscienza. Ma attenzione! Questo non significa seguire il proprio io, fare quello che mi interessa, che mi conviene, che mi piace... Non è questo! La coscienza è lo spazio interiore dell’ascolto della verità, del bene, dell’ascolto di Dio; è il luogo interiore della mia relazione con Lui, che parla al mio cuore e mi aiuta a discernere, a comprendere la strada che devo percorrere, e una volta presa la decisione, ad andare avanti, a rimanere fedele. (...)  
Il Papa Benedetto XVI ci ha dato un grande esempio in questo senso, quando il Signore gli ha fatto capire, nella preghiera, quale era il passo che doveva compiere. Ha seguito, con grande senso di discernimento e coraggio, la sua coscienza, cioè la volontà di Dio che parlava al suo cuore. (...) 
La Madonna, con grande semplicità, ascoltava e meditava nell’intimo di se stessa la Parola di Dio e ciò che accadeva a Gesù. Seguì il suo Figlio con intima convinzione, con ferma speranza. Ci aiuti Maria a diventare sempre più uomini e donne di coscienza, (...) capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione.

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Radio Vaticana
“Una generosità senza confini”: è questo il messaggio che accompagna la Giornata per la carità del Papa di oggi, promossa dalla Cei nelle parrocchie italiane. E’ la pratica antichissima dell’Obolo di San Pietro, una raccolta di offerte che coinvolge il mondo cattolico (...)

"Con Papa Francesco unità più facile"

(a cura di Marco Ventura) Il Mar di Marmara si appoggia dolce alla riva. A pochi metri, sotto il pergolato, i camerieri turchi servono il caffè. Siedono intorno al tavolo prelati ortodossi di varie Chiese, monsignori cattolici in collo romano. I sacerdoti georgiani intonano inni in slavonico. Tra loro, coinvolto, Bartolomeo I. (...)

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Ioannis Zizioulas

Joannis Zizioulas, metropolita di Pergamo "anche per il vescovo di Roma la sinodalità è un dato essenziale della Chiesa"

GIANNI VALENTE



È riconosciuto da molti come il più grande teologo cristiano vivente. La sua “ecclesiologia eucaristica” (che riconosce la sorgente della Chiesa nell’eucaristia, celebrata dalla comunità ecclesiale raccolta intorno al vescovo) è apprezzata sia da Papa Francesco che dal suo predecessore Benedetto XVI.
Ioannis Zizioulas, Metropolita di Pergamo, co-presidente della Commissione internazionale del dialogo tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa, ha guidato la delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli che ha presenziato la celebrazione della solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, patroni della Chiesa di Roma.

Eminenza, in occasione della sua visita a Roma, Papa Francesco le ha rivolto parole importanti e impegnative.

Sono stato molto contento di sentire che l’idea di sinodalità è così forte nel suo sguardo sulla Chiesa. Vi ha dedicato un passaggio-chiave nel discorso che ci ha rivolto quando ci siamo incontrati venerdì 28 giugno, e vi è tornato con forza anche nell’omelia della messa per i Santi Pietro e Paolo. Vuol dire che è un suo pensiero costante. Un altro elemento decisivo è il fatto che Papa Francesco sembra concepire e porre se stesso innanzitutto come vescovo di Roma. Se si cammina nella via suggerita da queste due coordinate  – comprendersi primariamente come vescovi e riconoscere la sinodalità della Chiesa - io credo che sarà molto facile per ortodossi e cattolici incontrarsi nell’unità sacramentale come fratelli in Cristo.

Quindi non solo come alleati in strategie culturali e battaglie etiche.
Non so ancora come cambierà il modo concreto di esercitare il papato. Ma in tanti gesti pratici e nelle parole di Francesco, sembra proporsi il meglio dell’idea di papato che era propria della Chiesa dei primi tempi. Il Papa è per prima cosa il vescovo di una Chiesa, la Chiesa di Roma. Le altre cose vengono dopo. Papa Francesco comprende anche la sinodalità come una cosa essenziale per la Chiesa, e questo potrà certo suggerire dei cambiamenti concreti.
Quale riforme potrebbe attendersi un ortodosso?

Un ortodosso potrebbe attendersi ad esempio che il Papa riconosca al sinodo dei vescovi cattolici una autorità deliberativa e non solo una funzione consultiva. Permettere che il sinodo decida. Se si continua come è stato finora, il sinodo rimarrà un organo di consultazione che il Papa può anche ignorare. Ho saputo che Papa Francesco ha già costituito un gruppo di cardinali per consigliarlo nel governo della Chiesa e nella riforma della Curia.

La Commissione teologica mista tra cattolici e ortodossi, al lavoro proprio sulla questione del primato, vive una fase di stand by. Come andare avanti?
Come è noto, nel documento di Ravenna del 2007 abbiamo riconosciuto che il primato è necessario e fa parte dell’essenza della Chiesa. Esso non è solo un elemento “organizzativo” umano. Ma deve essere sempre compreso e esercitato nel contesto della sinodalità. I cattolici su questo si sono detti concordi in linea di principio. Se ci muoviamo in questa direzione potremo continuare il cammino. Anche per questo spero che Papa Francesco continui a darci dei segni che potranno rendere più facile per gli ortodossi accettare il primato.

In che modo?

Gli ortodossi sono tradizionalmente preoccupati che il Papa voglia sottometterli e esercitare la giurisdizione su di loro. Potrà essere d’aiuto il fatto di mettere da parte esplicitamente ogni pretesa di giurisdizione. E questo ben si accorda con il fatto che Papa Francesco si presenta come il vescovo di Roma. Lui dice a me e a tutti i vescovi: io sono un vescovo, come lo sei anche tu. Tutti i vescovi, dal Papa ai Patriarchi fino all’ultimo di loro, sono uguali dal punto di vista del sacerdozio.

Il Patriarca Bartolomeo ha proposto a  Papa Francesco di incontrarsi a Gerusalemme, 50 anni dopo lo storico abbraccio tra Paolo VI e Atenagora. L’incontro si farà?

Papa Francesco è d’accordo, la proposta gli piace molto. Ma la questione è complessa, coinvolge i rapporti con le realtà politiche e su questo lui ha detto che dovrà consultarsi con i suoi collaboratori. Noi aspettiamo la sua decisione finale. Dal canto nostro, noi siamo pronti. Certo, sarebbe molto bello, soprattutto in questo  momento. Il Papa e il Patriarca darebbero un messaggio di pace e riconciliazione per tutto il Medio Oriente.

Vedi anche:
«Quando parliamo del primato... (30Giorni, 2003, Gianni Valente)

Consigliare i dubbiosi




Spoleto, 29 giugno 2013
Riflettere sulle opere di misericordia non è un tema che appartiene ai nostri discorsi quotidiani. Eppure, rappresenta un’esperienza che nei suoi risvolti concreti si fa presente ogni giorno, se siamo ancora capaci di cogliere la realtà che viviamo. La prima considerazione immediata, che viene spontanea alla mente per il credente, è quella di sapere che queste opere, sia corporali che spirituali, sono generate dalla fede. Credere non è aderire a una teoria, ma incontrare una persona. E’ a partire dalla fede che si produce un movimento dinamico che porta ad avvicinare concretamente altre persone nel nome di Cristo. Una fede vissuta, non può non incontrarsi –per usare un’espressione sintomatica di Papa Francesco- con la “carne di Cristo” che si rende visibile in ogni forma di povertà che tocca l’uomo. D’altronde, Gesù ha detto: “Non chi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio” (Mt 7,21). Parole che hanno ispirato in primo luogo gli apostoli i quali a più riprese hanno scritto: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1Gv 3,18), come già raccomandava Giovanni ai primi cristiani. Oppure, le parole ancora più impegnative di Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola, non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi… Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?... Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc 1,22; 2,14.17-18). In primo luogo, pertanto, nella fede le opere non le parole o le intenzioni rendono evidente l’impegno assunto.

Le opere di misericordia, come le conosciamo fino ai nostri giorni, hanno un fondamento nella Sacra Scrittura. Per quelle corporali è normativo il riferimento al capitolo 25 del vangelo di Matteo dove, per la maggioranza, sono elencate in maniera esplicita per indicare il giudizio che verrà compiuto sul credente alla fine dei tempi. Per chi ha realizzato queste azioni –come anche a quanti si sono sentiti esonerati dal doverlo fare- risuonerà la parola del Signore: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me” (Mt 25,40). Le opere di misericordia spirituale, invece, sono sparse qua e là nella sacra Scrittura e il loro riferimento, dai profeti ai libri sapienziali e storici, è indice di un permanente atteggiamento richiesto al credente per vivere fin dall’intimo la sua relazione con Dio.

Le opere di misericordia si trovano per la prima volta nello scrittore ecclesiastico Lattanzio (250-325). Forse, non è per puro caso che si deve far riferimento a questo apologeta. A differenza di altri suoi contemporanei tesi a difendere la fede, infatti, egli preferisce presentare in maniera concreta la vita dei cristiani e i contenuti del loro credo. La sua apologia si fa forte della testimonianza dei cristiani piuttosto che della confutazione delle teorie contrarie. Elenca, comunque, quattordici espressioni della misericordia cristiana: sette corporali e sette spirituali. Già il numero “sette”, ripetuto per ben due volte, intende sottolineare il grande valore simbolico che è raccolto nel testo sacro. Esso indica la completezza. Sta a significare che nulla può essere lasciato al caso nel servizio verso il prossimo. La Chiesa, quindi, è chiamata a prestare attenzione senza distrazione alcuna verso ogni persona che incontra sulla sua strada. Essa ha la vocazione di svolgere il suo servizio disinteressato, non limitandosi solo alle esigenze del corpo, ma guardando in profondità anche a quelle dell’animo. Limitarsi a una sola prospettiva, infatti, impoverirebbe non solo l’impegno concreto ma soprattutto lascerebbe scoperto il fondamento per cui si agisce (cfr. ccc 2447). Le opere di misericordia, pertanto, attestano che la fede guarda sempre alla complessità e globalità della persona; non può mai fermarsi a un solo aspetto parziale.

Ciò che crea fondamento a queste opere è la misericordia. Essa indica il culmina dell’amore, perché attesta la permanente fedeltà che sa giungere fino al perdono e al dono di sé. Come indica la semantica latina, il cuore (cor) prova compassione (misereor). La persona cioè si apre all’esigenza dell’altro e non le fa mancare la sua attiva partecipazione e condivisione. Nel richiamo alla misericordia, come proviene dall’uso biblico, si sottolinea maggiormente la bontà e la tenerezza di Dio. Come si sa, è a partire da questa dimensione che si scoprono i tratti materni dell'amore divino. Dio, che è come un padre per Israele, ama anche con la tenerezza e la premura di una madre. Il ricorso alla misericordia, quindi, indica il percorso qualificante che le opere incarnano: quello dell’impegno più radicale, perché giunge in qualche modo alla condivisione e unità profonda con l’altra persona. In una parola, misericordia è amore che diventa responsabilità. Come la fede non è un’astrazione, ma un’azione che coinvolge tutta la persona, così la misericordia non è solo un nome, ma esprime un volto. Il volto della misericordia è l’amore che non fa preferenze. E’ il volto di chi sa andare incontro a tutti, e non si rifiuta di accogliere chiunque si fa vicino e prossimo. Misericordia sintetizza il Vangelo ed esprime l’essenza di Dio. Non è un caso che il libro dell’Esodo, prima di ogni altra qualificazione, attribuisca a Dio il titolo della misericordia. “Tu sei un Dio misericordioso” (cfr. Es 34,6; Gn 4,2) è l’affermazione lapidaria che il testo sacro ci lascia come un’icona su cui tenere fisso lo sguardo. In questo contesto, infine, non è da sottacere il fatto che la stessa arte nel corso dei secoli ha volute farsi interprete del valore delle opere di misericordia, raffigurandone i suoi momenti salienti. Il Caravaggio ha dipinto le opere corporali, mentre il Canova ne ha prodotta certamente una sull’istruire gli ignoranti; così come Emilio Greco ha voluto istoriare il monumento a Giovanni XXIII con la visita ai carcerati, agli ammalati e alla consolazione degli afflitti. L’arte quindi ha voluto produrre diverse di queste esperienze per indicare, tra l’altro, che quelle forme di vita erano diventate cultura e comportamento quotidiano dei credenti.

Consigliare i dubbiosi è la prima indicazione che ci viene data. Prima ancora di insegnare agli ignoranti e di ammonire i peccatori; di consolare gli afflitti e perdonare l’offesa ricevuta; prima ancora di pregare Dio per i vivi e per i morti e di sopportare con pazienza le persone moleste, viene chiesto di consigliare chi è nel dubbio. Perché questo primato e cosa comporta? Il dubbio -ἀπορία come dice il greco- indica lo stato di incertezza in cui si trova una persona. E’ la condizione di chi non sa scegliere, di chi esita e rimane sospeso perché manca di una visione chiara e sicura. La problematicità della vita si fa sentire nel dubbioso in maniera sconvolgente, così da renderlo debole, insicuro e per questo esposto a ogni sorta di rischio. La vita del dubbioso, purtroppo, oscilla pericolosamente dalla paura all’angoscia, creando situazione di vera sofferenza.
 Il dubbio. E’ con questo tema che abbiamo bisogno di confrontarci noi, uomini moderni, che abbiamo elevato il dubbio a metodo. Soprattutto, da quando Cartesio nelle sue Meditations methaphisiques lo ha fatto diventare chiave di volta per possedere la conoscenza certa. Se un genio malefico può divertirsi ad ingannare gli uomini, creando l’illusione che stanno vivendo realmente un’esperienza concreta, mentre è solo un sogno, allora è necessario abbattere questo dubbio per possedere la conoscenza che dia certezza esistenziale. E’ per questo che Voltaire nel suo potrà scrivere circa un secolo più tardi: “La certezza fisica della mia esistenza, di pensare e di sentire, e la certezza matematica hanno lo stesso valore” (Dizionario filosofico, 163). Descartes, comunque, ha bisogno di far diventare certezza almeno il fatto di pensare: “Mentre rigettiamo tutto ciò di cui possiamo dubitare e immaginiamo perfino che sia falso… non sapremmo impedirci di credere che questa conclusione Penso, dunque sono, non sia vera e per conseguenza non sia la prima e più certa conclusione che si presenta a colui che conduce i suoi pensieri con ordine” (Principia philosophiae, I,7).

Cartesio, su questa problematica aveva un buon maestro, anche se non lo ha seguito fino in fondo. Il suo nome era Agostino. Ben presente al filosofo erano le pagine del De vera Religione dove il vescovo di Ippona esortava a rientrare in se stesso, nell’intimo, per poter approdare alla verità. “Non è la verità che giunge a se stessa con il ragionamento –sosteneva Agostino- ma è la verità che cercano quanti usano la ragione”. E per esplicitare al meglio l’intuizione, scrive una di quelle pagine che rimarranno come punto di riferimento insuperabile nella storia del pensiero: “Se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo… chiunque comprende che sta dubitando, comprende il vero e di ciò che comprende è certo; dunque è certo del vero. Ciò vuol dire che chiunque dubita dell'esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non può dubitarne. Ma il vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve dubitare della verità chi ha potuto dubitare per qualche motivo” (De vera religione, 39,73). In una parola, il valore positivo del dubbio è sostenuto per la possibilità intrinseca al dubbio stesso di giungere alla verità come punto di non ritorno per una conquista personale, forse faticosa e sofferta, ma tappa ineliminabile nella tensione verso la verità tutta intera e la costruzione di se stessi.

Come si può osservare, la validità del dubbio ha un suo spazio, possiede valore e merita di essere argomentato. L’estensione del dubbio oltre misura, tuttavia, non consente all’uomo di ritrovare più se stesso e di dare alla sua vita il fondamento e la certezza di cui ha bisogno. Il dubbio va in qualche modo sostenuto purché giunga a cogliere la verità che ricerca. Il fine a cui tendere, dunque, è la verità non la permanenza infinita nel dubbio. In questo contesto, non si può trascurare il dubbio che entra nella mente del credente circa i contenuti della sua fede. Questo dubbio è paradossale e contraddittorio, perché chi crede non può dubitare. Il cristiano vive con la certezza della verità che accoglie liberamente nella sua vita, e sa che questa gli è data attraverso la rivelazione di Dio. Per dirla con s. Anselmo, chi crede fa esperienza di Dio e quindi ha certezza della sua verità. Ciò che muove a conoscere e dare fondamento non è altro che il desiderio stesso della fede di voler conoscere di più.

La ricerca della verità, quindi, è un dovere di carità e la vicinanza al dubbioso è una responsabilità che chi ama non può rifiutare di offrire. Al contrario, la ricerca e la condivide perché il cammino verso la verità non è mai un percorso solitario, ma sempre un sentiero condiviso. Forse, in alcuni momenti potrà anche interrompersi, ma rimarrà inalterata e sempre presente la cima verso cui tendere. Si comprende perché la Chiesa consideri un’opera di misericordia, pertanto, stare vicino al dubbioso e con lui instaurare il dialogo perché la verità prenda corpo, la mente si illumini e la volontà diventi capace di scegliere.

Ciò che entra in gioco, alla fine, è l’esercizio della libertà. Il dubbio abilita alla scelta, ma questa va sostenuta dalla verità trovata. Quest’opera di misericordia ha un valore profondamente antropologico. L’essenza dell’uomo è messa in questione con il dubbio, la verità e la libertà raggiunte gli restituiscono dignità. Per alcuni versi, è proprio Pascal che riesce a portare in equilibrio la nostra problematica quando scrive: “Bisogna saper dubitare quando è necessario, affermare quando è necessario e sottomettersi quando è necessario. Chi non si comporta così, non capisce la forza della ragione. Ci sono persone che sbagliano contro questi tre principi o affermando tutto come apodittico, perché non si intendono di dimostrazione; o dubitando di tutto, perché non sanno a chi bisogna sottomettersi; o sottomettendosi in tutto, perché ignorano quando si deve giudicare” (268). Queste parole sono preziose perché esprimono nello stesso tempo la forza della ragione, sia quando si fa padrona con il dubbio sia quando sa accettare il suo limite di non poter andare oltre.

Se nessuno me lo chiede, posso dare un consiglio? E richiederlo non è forse segno di debolezza? Con quanto distacco ci si può sentire trattati quando, dando un consiglio, ci viene risposto che non era mai stato chiesto? Cosa ci ha spinto a darlo e come è stato recepito? Interrogativi non affatto estranei al vivere quotidiano. Se ne fece interprete anche un cantautore che sapeva andare al cuore dei nostri comportamenti, Fabrizio de André, quando in Bocca di Rosa scrisse: “Si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, si sa che la gente dà buoni consigli quando non può dare il cattivo esempio”. D’altronde, è proprio la sacra Scrittura che afferma: “Guardati da un consigliere e informati quali siano le sue necessità” (Sir 37,8). Che fare, dunque? 
E’ sempre l’autore sacro che indica il percorso da seguire. Da una parte, suggerisce di compiere il discernimento perché non accada che il consigliere si trasformi in un solerte interessato al proprio guadagno e accondiscenda solo a quanto uno vuole sentirsi dire: “Egli nel consigliare penserà al suo interesse… e dice: “La tua via è buona”, poi si terrà in disparte per vedere quanto ti accadrà” (Sir 37,8-9). Dall’altra, viene dato l’identikit del vero consigliere: “Frequenta spesso un uomo pio che tu conosci come osservante dei comandamenti e la cui anima è come la tua anima; se tu inciampi, saprà compatirti” (Sir 37,12). In una parola, si delinea lo stato d’animo del dubbioso, che per l’autore sacro non è affatto passivo, al contrario; mentre viene descritto il volto del vero consigliere. Egli dovrà avere credibilità per essere trasparente tra il suo dire e il suo agire. Non è un caso, comunque, che il testo sacro concluda la sua descrizione con il ricorso a rientrare in se stessi per trovare la via della verità: “Segui il consiglio del tuo cuore, perché nessuno ti sarà più fedele di lui. La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare. Al di sopra di tutto questo prega l'Altissimo perché guidi la tua condotta secondo verità” (Sir 37,13-15).

Il consiglio verso il dubbioso, a questo punto, giunge come espressione di amore. Si ritorna, infatti, al cuore, alla condivisione e alla misericordia come forma e anima dell’agire cristiano. Solo così le nostre parole entrano nell’intimo della mente e chi le riceve si sente amato prima ancora che giudicato. Fuori da questo orizzonte, il rischio di chiedere un consiglio per ricevere solo l’approvazione a quanto abbiamo già deciso, oppure di dare un consiglio per mostrare la nostra superiorità è sempre all’erta. E’ urgente, invece, farsi carico dell’altro, diventare solidale con lui, e per paradossale che possa sembrare, dubitare e ricercare con lui. Non con l’arroganza di chi ha già raggiunto la verità, ma con la passione e il desiderio di ricercarla insieme, pur sapendo di avere ricevuto già in dono la certezza della fede. E poiché “la fede viene dall’ascolto” (Rm 10,17) è necessario che chi è chiamato a dare consiglio sappia far tesoro del silenzio. Prima di indicare la strada che un altro deve percorre è necessario che io per primo abbia fatto quel percorso perché la mia parola sia credibile e il consiglio offerto efficace.

Se guardiamo al presente, alla fine, potremmo dire che oggi più che mai il compito di quest’opera di misericordia non sia più solo quello di dare una certezza per andare oltre il dubbio. Probabilmente, è venuto il momento di diventare noi provocatori di dubbio. Con ragione, se leggiamo con attenzione questi nostri decenni, N. Bobbio scriveva: “Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze” (Politica e cultura, 1955). In ogni nostra azione, soprattutto quando in gioco vi è il senso della vita e il futuro che dobbiamo costruire, non sarebbe fuori luogo porre al termine della nostra riflessione un punto interrogativo. Ciò diventa obbligatorio quando per troppo tempo sono stati dati per ovvi e scontati alcuni contenuti del vivere sociale e pubblico. Il dubbio, ad esempio, se come stiamo vivendo sia veramente degno dell’uomo e crei un vero progresso. Il dubbio se questa cultura porterà realmente a uno sviluppo coerente dell’umanità oppure se la sottoporrà a una nuova forma di schiavitù che la priva della dignità fondamentale, quale la sua libertà personale che non può coincidere con il proprio diritto individuale. Il dubbio se stiamo andando nella giusta direzione. Il dubbio per tendere ad andare oltre i luoghi comuni e sviluppare una conoscenza più critica, forte della tradizione precedente, e più solida nella sua espressività. Il dubbio, insomma, se non sia giunto il momento di una reale e radicale svolta nei nostri comportamenti oppure se dobbiamo attendere ancora il momento favorevole. Questo dubbio diventa responsabilità che non delega ad altri il compito di farsi consiglieri credibili e strumento vivo di rinnovamento in vista del futuro delle giovani generazioni.

Rino Fisichella

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LE OPERE DI MISERICORDIA
DI SEGUITO IL PROGRAMMA

Prediche


29 GIUGNO
Consigliare i dubbiosi
S.E.R. Mons. Rino Fisichella

30 GIUGNO
Insegnare agli ignoranti
Suor Catherine Aubin

5 LUGLIO
Ammonire i peccatori
S.E.R. Mons. Matteo Maria Zuppi

6 LUGLIO
Consolare gli afflitti
S.E.R. Card. Francesco Coccopalmerio

7 LUGLIO
Perdonare le offese
S.E.R. Mons. Giancarlo M. Bregantini

12 LUGLIO
Sopportare pazientemente le persone molesteProf. Gianluigi Pasquale

13 LUGLIO
Pregare per i vivi e per i morti
S.E.R. Mons. Renato Boccardo

a cura di Lucetta Scaraffiaproduzione Spoleto56 Festival dei 2Mondi
in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione


Dopo la felice esperienza dell’anno scorso, in cui le prediche sui sette vizi capitali hanno riscosso un interesse di pubblico eccezionale e per certi versi inatteso, quest’anno il Festival dei 2Mondi, sempre in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, propone un nuovo ciclo di prediche, questa volta dedicato alle Opere di misericordia spirituale.
La misericordia, intesa come amore concreto e visibile, effettivo e non semplicemente affettivo, operativo e pratico, è al fondamento del messaggio giudaico-cristiano, come insegnano le Sacre Scritture. Ma è alla tradizione cristiana che dobbiamo la costituzione di un vero e proprio elenco di opere di misericordia che ogni cristiano è tenuto a compiere, intervenendo di fronte ai differenti bisogni delle altre creature umane.
Oggi le opere di misericordia corporale – dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti – se pure sempre attuali, sono in gran parte assorbite dal welfare statale o dalle opere di assistenza organizzata, mentre le opere di misericordia spirituale, quasi dimenticate, suggeriscono un campo d’azione per l’iniziativa individuale. Esse inducono a prestare attenzione alla qualità dei rapporti che instauriamo con le persone che ci circondano, o perfino con quelle che incontriamo per caso: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare per i vivi e per i morti.
Certo, sono opere di misericordia difficili da definire e da esercitare in un’epoca di relativismo culturale. Richiedono umiltà e attenzione: se consolare gli afflitti è senza dubbio una delle opere di misericordia più praticabili e di cui si ha sempre bisogno, che non si può delegare a una istituzione assistenziale, consigliare i dubbiosi può diventare facilmente un manipolare, ma al tempo stesso fornire un consiglio illuminante può rivelarsi una ricchezza inestimabile per la nostra vita.
In un mondo che si muove ad una velocità sempre crescente, la virtù della pazienza è difficile anche solo da comprendere, ma è essenziale: la pazienza è l’arte di vivere l’incompiutezza, non solo degli altri, ma anche nostra.
Lucetta Scaraffia



S.E.R. MONS. RINO FISICHELLA
Rino Fisichella, nato a Codogno (Lodi) il 25 Agosto 1951. Ordinato sacerdote per la diocesi di Roma il 13 marzo 1976 e Vescovo Ausiliare di Roma nel 1998. Ha conseguito, nel 1980, il dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana, dove ha insegnato "Teologia Fondamentale" dal 1981 al 2001. Professore invitato in diverse Università italiane e straniere. Dal 2002 al 2010 è stato Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense. Dal 2008 al 2010 è stato Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Dal 30 giugno del 2010 è Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. È inoltre Membro della Congregazione per la Dottrina della Fede, della Congregazione per le Cause dei Santi, del Pontificio Consiglio della Cultura, del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali. È considerato tra i più autorevoli teologi italiani a livello internazionale.. Nel 2005 ha ricevuto la medaglia d’oro per la Cultura dal Presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi.

SUOR CATHERINE AUBIN
Nata in Francia nel 1959, domenicana della Congregazione Romana di San Domenico. Si è laureata in psicologia poi in teologia presso la Facoltà di Teologia dell’"Institut Catholique" di Parigi, poi ha ottenuto il dottorato in Teologia Spirituale presso la Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino a Roma dove insegna la Teologia Sacramentare e Spirituale come presso la Pontificia Università Urbaniana e l’Istituto di Teologia della Vita Consacrata. Collabora a Radio Vaticana per alcune trasmissioni di spiritualità. Ha scritto libri sull’antropologia spirituale tradotti in diverse lingue.

S.E.R. MONS. MATTEO MARIA ZUPPI
Nato a Roma nel 1955, entra nella Comunità di Sant’Egidio fin dalle scuole superiori. Si è laureato in Lettere all’Università di Roma in Storia del Cristianesimo, con una tesi di laurea sul Cardinale Ildefonso Schuster. Ordinato sacerdote nella Diocesi di Palestrina nel 1981 continua i suoi studi all’Università Lateranense.  Svolge il ministero pastorale prima come Vice Parroco nella Basilica di S. Maria in Trastevere e poi, dal 2000 al 2010, come parroco. Successivamente é stato pèarco nel quartiere popolare di Torre Angela. Nella Comunità di Sant’Egidio è stato Assistente Ecclesiastico Generale. Si è occupato in particolare delle questioni legate alla pace ed alla solidarietà, in particolare per l’America Latina e l’Africa. Nel corso dei negoziati di pace per il Mozambico, è stato uno dei quattro mediatori. Don Matteo ha presieduto la Commissione per la Sicurezza e la Pace del negoziato per la pace in Burundi, del quale Nelson Mandela è stato il facilitatore.

S.E.R. CARD. FRANCESCO COCCOPALMERIO
Nato il 6 marzo 1938 a San Giuliano Milanese, ordinato sacerdote il 28 giugno 1962; dottorato in diritto canonico nell 1968 presso Pontificia Università Gregoriana, laurea in giurisprudenza nel 1976 all’Università Cattolica di Milano.
Dal 1980 avvocato generale della curia milanese e nel 1985 pro-vicario generale; l’8 aprile 1993 nominato vescovo ausiliare di Milano, presidente del consiglio per gli affari giuridici CEI dal 1999.
Dal 2007 presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi e membro di alcuni Dicasteri vaticani; dal 2008 consulente centrale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani.
Dal 1981 professore invitato nella facoltà di diritto canonico della Gregoriana. È co-fondatore della rivista Quaderni di Diritto Ecclesiale e autore di numerose pubblicazioni scientifiche.

S.E.R. MONS. GIANCARLO M. BREGANTINI
Padre GianCarlo Maria Bregantini, nasce a Denno (TN) il 28 settembre 1948. La vicinanza al mondo del lavoro affonda le radici nell’esperienza vissuta da giovane nelle fabbriche veronesi. La comprensione di problemi e sacrifici dei lavoratori lo prepara a svolgere il suo apostolato nella Pastorale del Lavoro dell’arcidiocesi di Crotone-Santa Severina dove apre varchi nel mondo operaio. Ordinato sacerdote il 1° luglio 1978, insegna religione all’Istituto Nautico e Storia della Chiesa nel Pontificio Seminario Teologico Regionale di Catanzaro. Da cappellano del carcere, luogo dove bene e male si scontrano, con una tale potenza che non consente di restare neutrali, impara la misericordia di un Dio che si fa vicino all’errante; non lo giudica, ma lo salva. A Bari è docente nello Studentato interreligioso pugliese, parroco di San Cataldo e cappellano del CTO. L’incontro con la realtà della sofferenza lo plasma in fraternità e tenerezza. Eletto vescovo di Locri-Gerace il 12 febbraio 1994 e consacrato nella cattedrale di Crotone il 7 aprile, un mese dopo fa il suo ingresso in diocesi. Presidente della Commissione C.E.I. Problemi Sociali e Lavoro, Giustizia e Pace e Salvaguardia del Creato dal 2000 al 2005, l’8 novembre 2007 è assegnato alla sede arcivescovile metropolitana di Campobasso-Bojano dove entra il 19 gennaio 2008. Attualmente è membro della Commissione Pontificia per il clero e la vita consacrata.

PROF. GIANLUIGI PASQUALEGianluigi Pasquale, dei Frati Minori Cappuccini, Dottore di Ricerca in Teologia e Dottore di Ricerca in Filosofia, è Professore di Teologia sistematica nella Pontificia Università Lateranense, Città del Vaticano. Dal 2001 al 2010 Preside dello Studio Teologico affiliato "Laurentianum" di Venezia, dove ancora è Docente, insegna Teologia anche al "Marcianum" di Venezia, alla LUMSA di Roma e a Milano. È socio ordinario di Associazioni Teologiche Italiane ed Europee e, nelle Università degli Studi di Venezia e di Torino, membro dei rispettivi Centri CISE e SdAFF. Autore di una trentina di monografie, molte già tradotte, e di vari articoli, dirige tre Collane Editoriali ed è poliglotta.

S.E.R. MONS. RENATO BOCCARDONasce a S. Ambrogio di Torino il 21 dicembre 1952. Ordinato Sacerdote il 25 giugno 1977entra nel servizio diplomatico della Santa Sede nel 1982 e presta la sua opera nelle Nunziature Apostoliche di Bolivia, Cameroun e Francia. Viene nominato Responsabile della Sezione Giovani del Pontificio Consiglio per i Laici il 22 luglio 1992. In questa veste coordina, tra l’altro, l’organizzazione e la celebrazione delle Giornate Mondiali della Gioventù di Denver (1993), Manila (1995), Parigi (1997) e Roma (2000), nonché il Pellegrinaggio dei Giovani d’Europa a Loreto (1995). Nel 2001 viene nominato Capo del Protocollo della Segreteria di Stato con incarichi speciali (responsabile dell’organizzazione dei viaggi apostolici del Sommo Pontefice). Diventa Vescovo titolare di Acquapendente e Segretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali il 29 novembre 2003. NEl 2005 viene nominato Segretario Generale del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano e nel 2009 viene promosso Arcivescovo di Spoleto-Norcia.

Incontro Cammino Neocatecumenale con Kiko a Livorno 9/6/13



In preparazione alla GMG di Rio..............

sabato 29 giugno 2013

XIII domenica del Tempo Ordinario. Anno C

   
XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Anno C

Nella 13.ma Domenica “per annum” il Vangelo di Luca annuncia la “ferma decisione” di Gesù di incamminarsi verso il compimento della sua missione. Mentre dunque andava con i suoi discepoli per la strada, un tale gli disse:

"Ti seguirò ovunque tu vada".


Secondo il Vangelo di Luca, Gesù, che ha portato a termine il suo ministero in Galilea, “indurisce il suo volto” per incamminarsi verso Gerusalemme. Secondo le parole del profeta Isaia, nel terzo canto del Servo, rende la sua faccia “dura come la pietra” (Is 50,7), per fare solo la volontà di Dio. E con questo volto “verso Gerusalemme, dove compirà la sua passione e il suo “essere elevato in alto”, il Signore non ha tempo per altro: è la fretta, l’impazienza propria del tempo di Dio. E così non c’è più tempo per “convincere” i Samaritani ad accoglierlo: se non lo vogliono ricevere, Egli si incammina verso un altro villaggio. Vedendolo così determinato, un tale gli dice: “Ti seguirò dovunque tu vada”. E Gesù a lui: “Le volpi hanno le loro tane…, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, non c’è tempo per la comodità di una vita normale; ad un altro Gesù dice: “Seguimi”, ma questi non è pronto, vuole andare a seppellire suo padre: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il Regno di Dio”. Un terzo si offre di seguirlo, ma prima vorrebbe congedarsi da quelli di casa sua. La risposta di Gesù è tagliente: “Nessuno che mette mano all’aratro e si volge indietro è adatto per il Regno di Dio”. Nella missione di Cristo non c’è posto per mezze misure, per ripensamenti e rimpianti. Così, semplicemente, non si è “adatti” per il Regno di Dio. Dove questo “non essere adatti” non è un giudizio morale, ma una misura del cuore. La missione, infatti, parte dal cuore di Dio, ha la misura del cuore di Dio. E questa misura è l’amore, è la donazione completa di sé all’altro.
(Don Ezechiele Pasotti)

*

MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 46,2
Popoli tutti, battete le mani,
acclamate a Dio con voci di gioia.


Colletta

O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa' che non ricadiamo nelle tenebre dell'errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo...

 Oppure:
O Dio, che ci chiami a celebrare i tuoi santi misteri, sostieni la nostra libertà con la forza e la dolcezza del tuo amore, perché non venga meno la nostra fedeltà a Cristo nel generoso servizio dei fratelli. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te...

LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura  1 Re 19, 16. 19-21
Eliseo si alzò e seguì Elia.

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto».
Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello.
Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te».
Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.


Salmo Responsoriale 
 Dal Salmo 15

Sei tu, Signore, l'unico mio bene.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu».
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.
 

Seconda Lettura
  Gal 5, 1.13-18
Siete stati chiamati alla libertà


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati
Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù.
Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!
Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
 
Canto al Vangelo
  1Sam 3,9; Gv 6,68
Alleluia, alleluia.

Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta:
tu hai parole di vita eterna.

Alleluia.

  
  
Vangelo
  Lc 9, 51-62
Prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme. Ti seguirò ovunque tu vada.

Dal vangelo secondo Luca
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

 
*

"Seguire Cristo è lanciarsi in un'avventura di cui non si conosce nulla, se non l'amore"

Meditazione sulle letture della XIII domenica del Tempo Ordinario. Anno C

di don Antonello Japicca.

L'amore autentico desidera il bene dell'amato, per questo conosce il dolore del rifiuto. Per «compiersi» ed «elevare» al Cielo ciò che sta marcendo sotto terra, l'amore di Dio deve farsi pellegrino e scendere nell'abisso del male che incatena il cuore. Con il «volto saldo», pronto per ricevere insulti, sputi e bestemmie, Gesù si reca a Gerusalemme, la Città della Pace che uccide i profeti, la santa e prostituta nella quale si riflette la contraddizione che caratterizza ogni uomo: amato come un figlio, è condannato a vivere come un orfano. Passo dopo passo, villaggio dopo villaggio, rifiuto dopo rifiuto, Gesù si reca pellegrino a Gerusalemme come al cuore malato di ciascuno di noi, dove salire sulla Croce e «compiere» la Pasqua, il passaggio dalla schiavitù alla libertà per ogni uomo. 
Secondo la tradizione ebraica, la Pasqua esigeva «preparativi» accurati e lunghi, quanto il cammino di Gesù verso Gerusalemme, e «messaggeri» scelti per realizzarli. Essi, come i membri di uno staff che conosce intimamente il presidente e ne condivide la missione, sono inviati per bonificare e preparare la visita. Anche noi, «angeli inviati davanti al volto» di Gesù, ci «incamminiamo» ogni giorno verso il «villaggio dei samaritani» eretici che rifiutavano scandalizzati il Tempio di Gerusalemme. Siamo inviati in famiglia, al lavoro, a scuola, ovunque la Croce sia di scandalo, per prepararvi la Pasqua del Signore, bonificando la menzogna con l'annuncio del Vangelo caricandoci del rifiuto. E questo non ci piace, piuttosto vorremmo bruciare peccati e peccatori, fraintendendo il fuoco di Elia che incendiò l'idolatria per mostrarne l'inganno e così annunciare la Verità. Ma non è questa la missione di Gesù, e il suo sguardo che ci ha sempre perdonato ce lo ricorda. Siamo inviati a cercarehametz, il lievito vecchio dell'ipocrisia che rifiuta la verità, e a prenderlo su di noi, perché Gesù possa compiere la sua Pasqua. 
E non vi è altro modo per rinvenire e smascherare l’ipocrisia che “seguire” Gesù; seguire significa innanzi tutto consegnare la propria vita a un altro. Nello scalare una montagna è fondamentale avere fiducia del capocordata. Seguire Gesù è rinunciare ad aprire il cammino, a decidere strategie e rotte: è fidarsi e seguire le orme, fissare le sue spalle, il segno dell'amore che ci ha chiamati caricando la Croce. Seguire Gesù è affidargli la vita sul concreto legno della Croce che ci accompagna ogni giorno, rinunciando a se stessi in ogni relazione per vivere la sua vita.
Ma questo è possibile solo se si ama. Non si è discepoli in virtù di una propria scelta, neanche di un desiderio, per sublime che sia, come nessuno decide se, quando e dove innamorarsi. E' un'elezione gratuita per "vivere disposti al volo, pronti a qualunque partenza. È il futuro inimmaginabile, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente» (Maria Zambrano). La sequela di Gesù è un esodo d'amore alla ricerca della libertà, come fu per il Popolo d'Israele. Nessun merito, nessun requisito se non quello di essere il più insignificante e testardo della terra, e, per questo, amato gratuitamente. 
Il “discepolo” è l'uomo della Pasqua, si nutre del pane della fretta, non ha luogo dove riposare; è attratto in un esodo che lo strappa alla schiavitù insieme a un popolo che mostrerà al mondo il destino di libertà preparato per ogni uomo. Per questo si lascia alle spalle gli Egiziani, il mondo, non ha tempo per guardarsi indietro e salutare e seppellire il passato di catene e schiavitù, i legami di carne destinati a corrompersi. Non perde tempo cercando di ricomporre le relazioni morbose, idolatriche, carnali: le seppellirà Dio affogandole nel mare per non rivederle mai più... Il discepolo di Gesù è un innamorato, immerso in un amore che lo ha raggiunto senza vedersi porre condizioni, laddove egli si trovava, come Matteo, come Zaccheo, senza il tempo di riordinare, di farsi belli, piacevoli, attraenti. Come Israele, sposa infedele raggiunta, amata e perdonata dal Signore.
Lo stesso amore di Dio che "dei due fa una cosa sola" è la sorgente della sequela: ogni vocazione è un sacramento, una Parola di Dio che crea una novità celeste nella carne e nella storia degli uomini. Così il matrimonio, il presbiterato, la vita religiosa, la vita missionaria e itinerante, tutto scaturisce dalla stessa Parola creatrice: solo in essa un uomo e una donna possono lasciare suo padre e sua madre. Non si può seguire Cristo rimanendo con cuore, mente e carne nella propria casa, cercando sempre negli affetti e negli idoli mondani un “luogo dove reclinare il capo”.
Così come chi, pur sposandosi, non abbandona mai la propria casa di origine, e cerca di farne una replica. Seguire Cristo è lanciarsi in un'avventura di cui non si conosce nulla, se non l'amore che ci ha raggiunti, salvati e liberati. Un amore infinito presuppone spazi, prospettive, esiti senza limiti. Seguire Gesù, non è altro che essere cercati, ritrovati, amati e caricati sulle spalle dal Buon Pastore, e imparare, ogni giorno, a posare lo sguardo esattamente dove lo posa Lui, perché "amarsi non vuol dire guardarsi l'un l'altro, ma guardare insieme nella stessa direzione" (Antoine de Saint-Exupéry).

*

Noi predichiamo Cristo a tutta la terra
Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa  (Manila, 29 novembre 1970)
«Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9, 16). Io sono mandato da lui, da Cristo stesso per questo. Io sono apostolo, io sono testimone. Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è l'amore che a ciò mi spinge. Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (cfr. Mt 16, 16). Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d'ogni creatura (cfr. Col 1, 15). E' il fondamento d'ogni cosa (cfr. Col 1, 12). Egli è il Maestro dell'umanità, e il Redentore. Egli è nato, è morto, è risorto per noi. Egli è il centro della storia e del mondo. Egli è colui che ci conosce e che ci ama. Egli è il compagno e l'amico della nostra vita. Egli è l'uomo del dolore e della speranza. E' colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice e, come noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di lui. Egli è la luce, è la verità, anzi egli è «la via, la verità, la vita» (Gv 14, 6). Egli è il pane, la fonte d'acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete, egli è il pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Come noi, e più di noi, egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore e paziente nella sofferenza. Per noi egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore e i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli.
Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare, anzi voi, la maggior parte certamente, siete già suoi, siete cristiani. Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annunzio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l'alfa e l'omega. Egli è il re del nuovo mondo. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini. Egli è il mediatore, il ponte fra la terra e il cielo; egli è per antonomasia il Figlio dell'uomo, perché egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, sua madre nella carne, madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico.
Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annunzio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra, e per tutti i secoli dei secoli.

Nuova Evangelizzazione e crisi



“Dall’Ecclesia in Europa all’anno della Fede”: questo il titolo dell’incontro annuale dei segretari generali del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee) che si concluderà domani a Varsavia. Fausta Speranza ha raggiunto telefonicamente nella capitale della Polonia, mons. Wojciech Polak, segretario generale della Conferenza Episcopale Polacca:

R. – Ci siamo incontrati soprattutto per riflettere sulla questione della Nuova evangelizzazione in Europa nell’arco di questi dieci anni che sono passati dall’Ecclesia in Europa, dopo il Sinodo sull’Europa, fino all’Anno della Fede. Stiamo guardando anche al futuro, non soltanto alle cose passate, pur sapendo che l’Europa oggi soffre diverse crisi: economica, di valori... Ci siamo resi conto anche, ascoltandoci gli uni con gli altri, che si tratta di una crisi abbastanza profonda. Ma non è uno scenario soltanto "scuro", vogliamo vedere anche i segni della speranza. Questo è molto importante. Dalla nostra realtà polacca abbiamo invitato sopratutto i movimenti della Nuova Evangelizzazione, il Consiglio per la nuova evangelizzazione della Conferenza episcopale polacca… Poi abbiamo parlato della difesa della famiglia nel dibattito pubblico che è stata guidata, anche in tempi e in condizioni molto difficili, dalla Conferenza episcopale francese.

D. - Come dialogare con l’uomo contemporaneo per la Nuova Evangelizzazione, oggi, proprio in tempi di crisi?

R. – Io penso che si debba vedere che nell’uomo di oggi, oltre le paure che vengono proprio da questa situazione di crisi, c’è sempre anche il desiderio di capire se stesso, di capire un senso più profondo. C’è la possibilità di accogliere l’uomo con tutte le sue angosce, con tutte le sue preoccupazioni ma anche con tutte le sue speranze. Vorremmo non soltanto dialogare con gruppi, con tutta la società, ma propriamente indirizzare il nostro messaggio a ogni uomo, che sta vivendo un tempo difficile, per scoprire il senso e la speranza che ci può portare anche l’annuncio del Vangelo.

D. – Il Vangelo è sempre lo stesso, quando parliamo di Nuova Evangelizzazione, deve essere nuova la modalità…

R. – Soprattutto si dice di pensare alle nuove condizioni: la prima cosa è che siamo nel mondo nuovo, diverso da quello che è passato. Poi, ci sono le nuove modalità, i mezzi attraverso i quali evangelizzare, ma anche un nuovo slancio. Questo è più importante: un nuovo coraggio di essere evangelizzatori nel mondo moderno, anche tramite la rete di Internet, la rete di facebook… Quindi usando i mezzi di comunicazione di oggi e non quelli del passato. Quindi, è lo stesso Vangelo, con la stessa forza, ma con un nuovo coraggio e un nuovo slancio.
 Radio Vaticana 

Il mese dell'orgoglio Ex-Gay

ex gay-pride

Quest’anno luglio si trasformerà nel primo Mese dell’Orgoglio Ex-Gay. Lo ha deciso d’imperio ma non d’istinto Voice of the Voiceless, l’organizzazione con sede a Bristow, in Virginia, che si adopera con carità e servizio al ricupero (si può usare questa parola?....) degli omosessuali, ovvero per contrastare il disordine morale e culturale che innesca quelle ubbie sul gender e sulla sessualità che oramai sono il pane quotidiano della società contemporanea.
Se giugno è infatti il mese che tradizionalmente la comunità GLBT sacrifica sull’altare del famoso e famigerato “Gay Pride”, gli ex di quel mondo non sono affatto disposti a lasciarsi ghettizzare nel cantuccio dell’“omofobia”. Loro, infatti, gli ex, attraverso la piaga omosessualista ci sono, passati; ne sono, a fatica, usciti; e oggi desiderano solo comunicare ai quattro venti che la liberazione è davvero possibile. Perché infatti, dice Voice of the Voiceless (il nome dell’organizzazione è assai indicativo), si dovrebbe tollerare solamente la spavalderia GLBT e mai ascoltare la testimonianza sempre dura, spesso commovente, di chi ha il coraggio di andare controcorrente per tornare secondo natura?
È cioè l’ora, dice Voice of the Voiceless, «di riconoscere l’unicità dell’esperienza di chi prima è stato omosessuale», organizzando eventi appropriati che «mettano in risalto il ruolo davvero speciale che gli ex gay svolgono oggi nella società americana». L’esempio, infatti, assieme al precedente, è tutto. E il cruccio che tormenta gli ex gay oggi non cosa è da poco. Perché se chi contrasta la cultura omosessualista da eterosessuale, viene facilmente bersagliato come “intollerante”, o peggio, chi invece dall’omosessualità è passato e ne è uscito viene se possibile discriminato in forme ancora più odiose, come si trattasse di un “traditore”. Gli ex omosessuali sono insomma «l’ultima minoranza invisibile», antipatica e fastidiosa come può esserlo solo chi rompe le uova nel paniere. 
Il tutto si fa del resto oggi ancora più cogente, e grave, nel momento in cui (lo ha annunciato ufficialmente, il 19 giugno) Exodus International, l’organizzazione d’ispirazione protestante per la cura delle persone omosessuali attiva da anni, chiude bottega con decisione unanime del proprio consiglio di amministrazione e con proclama ufficiale, del presidente, Alan Chambers, che si scusa nei confronti della comunità LGBT per – dice – le troppe sofferenze causate agli omosessuali nel tentativo di ricuperarli. Quali che siano le vicende che hanno portato a tale decisione, è ovvio che la propaganda GLBT ci già andando… a nozze…
Importantissima è dunque l’iniziativa di contro-outing lanciata da Voice of the Voiceless per un mese di luglio davvero diverso, chiamando a raccolta le molte organizzazioni e i tanti singoli che ne condividono le battaglie culturali, la sollecitudine caritativa e magari anche una certa esperienza di vita. L’organizzazione americana sta ora raccogliendo sottoscrizioni e adesioni per trasformare radicalmente, nelle prossime settimane, il cuore stesso di Washington, lo stesso teatro delle grandi manifestazioni americane, lo stesso delle marce in difesa della vita umana nascente e del matrimonio eterosessuale. E Washington non è stata scelta per le progettate manifestazioni solo perché è la capitale federale degli Stati Uniti, ma soprattutto perché il District of Columbia (il fazzoletto di terra dove essa sorge) attualmente è, negli Stati Uniti, l’unico spazio dove gli ex gay sono riconosciuti pubblicamente come “entità” e quindi protetti a norma di legge contro ogni discriminazione. Un esempio che Voice of the Voiceless chiede e spera venga seguito in tutto il Paese.
Per questo, mentre allestisce il primo Mese dell’Orgoglio Ex-Gay, l’organizzazione ha richiesto, per rispetto e per decoro, per cerimoniale e pure per sfida, alla Casa Bianca (che in questi giorni gongola per la sentenza con cui la Corte Suprema sancisce la liceità delle unioni gay e, nello stesso giorno, per l’ostruzionismo della senatrice Democratica Wendy Davis che ha bocciato una legge antiabortista del Texas) di “benedire” pubblicamente la propria lecitissima e legittimissima difesa delle vere libertà della persona contro l’oscurantismo omosessualista. Una sfida moschettiera dal profondo significato politico.
(M. Respinti)

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I gay come strumento per far passare una rivoluzione eugenetica



La questione gay è stata impiegata come strumento per raggiungere obiettivi non dichiarati. Chi e perché sta dietro questa operazione.
 Nell’articolo pubblicato pochi giorni fa su CS (il 25 giugno) intitolato “La guerra sulla biologia“, è stata posta l’attenzione sull’interesse dell’economista e banchiere francese Jacques Attali verso gli argomenti della biologia e quelli delle rivendicazioni omossessuali. Per comprendere cosa lega la biologia con le battaglie gay riportiamo un ulteriore passo dell’articolo apparso su Mondialisation:
 Per Jaques Attali, la sessualità si separerà sempre più dalla procreazione: “Più generalmente, l’apologia della libertà individuale condurrà inevitabilmente a quella della precarietà; la richiesta di immortalitàche spinge ad accettare tutte le mutazioni sociali o scientifiche permettendo di lottare contro la morte, o almeno di ritardarla.
I progressi tecnici causano infatti questi valori e si orientano per soddisfarli: questo ha cominciato con la pillola, poi la procreazione medicalmente assistita, poi la gravidanza per gli altri. Il vero pericolo arriverà se non si farà attenzione alla clonazione e alla matrice artificiale, che permetteranno di concepire e far nascere dei bambini al di fuori di ogni matrice materna.E sarà molto difficile di impedirlo, perché tutto questo sarà sempre al servizio dell’uguaglianza, della libertà o de l’immortalità. 
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Che questo fosse il vero fine delle politiche che focalizzano l’attenzione sulla questione gay era già stato detto su queste pagine (Veronesi: cosa si nasconde dietro “l’amore più puro”) sin da quando, proprio due anni fa esatti, il prof. Umberto Veronesi aveva fatto delle inattese dichiarazioni sui rapporti omosessuali dichiarandone la superiorità rispetto a quelli etero. Adesso un altro tassello è stato posto con la presa di posizione di grandi gruppi bancari a favore della recente sentenza della Corte Suprema USA che ha bocciato il “Defence Marriage” che stabiliva la possibilità di matrimonio solo tra uomo e donna. La notizia è stata riportata su un sito specializzato in finanza Cobraf.com (inutile ormai cercare le notizie interessanti sulla grande stampa o sulle TV). Ecco quanto riferito in “Goldman, JP Morgan e i Miliardari Finanziano il Matrimonio Gay“:
Goldman Sachs e JP Morgan oggi lodano la decisione della Corte Suprema (“Dimon Joins Goldman Sachs Praising Court on Gay Marriage”) USA, che ha cancellato la legge, approvata tramite referendum popolare in California, che dichiarava il matrimonio un unione tra uomo e donna. Queste banche emettono comunicati su tutte le questioni politiche importanti? No, affatto, in genere anzi stanno attente a non schierarsi…
I fondi hedge più importanti di New York hanno finanziato direttamente le campagne per far cancellare questa legge sul matrimonio e hanno finanziato con milioni i politici che si dichiarassero pro-gay. A New York in pratica il matrimonio e adozioni gay sono passati grazie ai milioni di dollari pompati da tre trader di mega hedge funds (Paul Singer, Dan Loeb e Cliff Asness) (“Hedge Fund Heroes That Helped Make Gay Marriage Legal In New York), i quali hanno letteralmente comprato i politici che ancora avevano dubbi. 
Inoltre diversi miliardari da Jeff Bezos di Amazon a Bill Gates hanno donato milioni di dollari ai comitati pro-matrimonio gay. Nel partito repubblicano l’elettorato è al 90% contro il matrimonio gay, ma i finanziatori più importanti hanno invece donato milioni di dollari ai politici repubblicani perchè si schierassero a favore e ovviamente sta funzionando.
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Il dispiegamento di potenza a favore delle unioni omosessuali della grande finanza è indubbio e impressionante, e quello che colpisce di più l’autore dell’articolo è il fatto che si tratti di un problema, in termini percentuali di popolazione direttamente interessata, assolutamente marginale:
Il diritto ad adottare e sposarsi dei gay riguarda probabilmente meno di 1/10 della popolazione gay (la stragrande maggioranza dei gay non si sogna di sposarsi e di adottare..) la quale a sua volta è circa il 3% della popolazione, quindi questo problema riguarda alla fine circa ( 1/10 X 3% =) al massimo lo 0.3% della popolazione americana. E non è che se non ti sposi hai in municipio hai problemi particolari nell’ambiente dei gay di New York e delle grandi città che sono largamente benestanti…
Qui hai un problema che NON INTERESSA AL 99.7% DELLA POPOLAZIONE americana e anche a quello 0.3% della popolazione costituito da gay che vogliono sposarsi non gli cambia quasi niente. E’ difficile immaginare una questione meno rilevante per la popolazione americana, è difficile pensare a qualcosa di più futile come problema sociale.
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Ma unendo queste ultime notizie con le dichiarazioni di Attali, l’apparente inspiegabilità di questo supporto alle politiche pro gay viene superata lasciando spazio ad una visione della realtà che mostra un progetto chiaro e coerente finalizzato ad ottenere una società basata sull’eugenetica, un progetto portato avanti cavalcando le rivendicazioni omosessuali che vengono così ridotte ad un utilissimo strumento politico per raggiungere un’artificiale “eterogenesi dei fini”.
Intanto un altro passo verso il superamento del concetto stesso di genitori e di famiglia viene compiuto in Inghilterra dove con la motivazione di evitare le malattie ereditarie legate ai mitocondri si propone una fecondazione che impieghi il materiale genetico di 3 donatori, e così addio al concetto di padre e madre “UK may OK creating babies with DNA from 3 people“.
Ma se la questione gay si rivela un’arma perfetta per far passare nascostamente una rivoluzione eugenetica, si tratta di un’arma che non svolge solo un ruolo propositivo ma che si presta in modo molto efficace per colpire gli oppositori.
Ma questo argomento richiede una trattazione a sé.
(E. Pennetta)