sabato 31 agosto 2013

XXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C


Ascolta fratello, Dio è molto alto. 
Se tu sali, Egli va più in alto; 
ma se tu ti abbassi, Egli viene a te.

S. Agostino

*

MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 85,3.5
Abbi pietà di me, Signore,
perché ti invoco tutto il giorno:
tu sei buono e pronto al perdono,
sei pieno di misericordia con chi ti invoca.

Colletta
O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l'amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio...

 Oppure:
O Dio, che chiami i poveri e i peccatori alla festosa assemblea della nuova alleanza, fa' che la tua Chiesa onori la presenza del Signore negli umili e nei sofferenti, e tutti ci riconosciamo fratelli intorno alla tua mensa. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  3,17-20.28-29, neo-volg. Sir 3, 19-21.30-31
Fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore.

Dal libro del Siràcide
Figlio, compi le tue opere con mitezza,
e sarai amato più di un uomo generoso.
Quanto più sei grande, tanto più fatti umile,
e troverai grazia davanti al Signore.
Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,
ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.
Perché grande è la potenza del Signore,
e dagli umili egli è glorificato.
Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio,
perché in lui è radicata la pianta del male.
Il cuore sapiente medita le parabole,
un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
 
Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 67
Hai preparato, o Dio, una casa per il povero.
I giusti si rallegrano,
esultano davanti a Dio
e cantano di gioia.
Cantate a Dio, inneggiate al suo nome:
Signore è il suo nome.

Padre degli orfani e difensore delle vedove
è Dio nella sua santa dimora.
A chi è solo, Dio fa abitare una casa,
fa uscire con gioia i prigionieri.

Pioggia abbondante hai riversato, o Dio,
la tua esausta eredità tu hai consolidato
e in essa ha abitato il tuo popolo,
in quella che, nella tua bontà,
hai reso sicura per il povero, o Dio.
 

Seconda Lettura
  Eb 12, 18-19.22-24
Vi siete accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente. 

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola.
Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.


Canto al Vangelo
  Mt 11,29
Alleluia, alleluia.

Prendete il mio giogo sopra di voi, dice il Signore,
e imparate da me, che sono mite e umile di cuore.

Alleluia.

  
  
Vangelo  Lc 14, 1. 7-14
Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato.

Dal vangelo secondo Luca
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
 

*

Commento

Solo all'ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile


Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone. Ogni giorno, infatti, rifiutiamo qualcosa della volontà del Padre, spinti a tentare di «occupare il suo posto» per saziare in libertà le concupiscenze. Sperperiamo la sua eredità per «esaltarci» ai «primi posti» del prestigio e dell’onore, dove ci illudiamo si possa realizzare la nostra esistenza. Umiliamo e strumentalizziamo gli altri, mentiamo esibendo curriculum artefatti, sino a che il pallone gonfiato dagli inganni non ci scoppia tra le mani.
Precipitiamo allora all’«ultimo posto», accanto ai porci come il figlio prodigo, dove ci scopriamo «nudi» come i progenitori e, avvolti nella stessa «vergogna», ci nascondiamo dagli altri, affamati e soli. È quando il Signore, certo «più ragguardevole di noi», appare attraverso i fatti che ci umiliano, e il Padre ci dice di «lasciare a Lui il primo posto» nella nostra vita, come in quella della moglie, del marito, dei figli, del fidanzato o degli amici. Grazie all’amore di Dio che, geloso della sua creatura, attraverso la Croce ci umilia seriamente, la superba scalata alla menzogna del primo posto ci precipita sempre nella verità dell’ultimo.
Ma proprio in quel porcile immondo, seduti al «nostro posto», quello che ci spetta quale giusta conseguenza delle nostre scelte, ci raggiunge, gratuito e del tutto inaspettato, l'amore di Dio. Egli, infatti, vede in noi il suo Figlio disceso nel sepolcro, sino al «posto» dell’«ultimo» dei peccatori. E qui, con Gesù, il Padre abbraccia anche noi, ci risolleva e ci sussurra le parole più dolci: «amico mio vieni più avanti», ecco per te l’«onore» che ho dato a mio Figlio risuscitandolo dalla morte.
Il Signore ci chiama dunque a riconoscerci peccatori, ad accettare «umilmente» la nostra debolezza e a «metterci all’inferno e non disperare» (Silvano del Monte Athos) in attesa che ci «innalzi» nel suo perdono. A vivere ogni relazione nella verità che ci fa liberi davvero, senza stupirci di non essere considerati, «diminuendo» agli occhi degli altri perché il Signore «cresca» in noi e in loro, divenendo così il centro dove incontrarci e amarci.
Per questo la Chiesa ogni giorno è messa all'ultimo posto «davanti a tutti»; è solo lì che può annunciare l’«onore» di Cristo risorto preparato per ogni figlio scappato di casa. Altro che onori, legittimazioni, accoglienze nei parterre culturali. La Chiesa, cioè ciascuno di noi, esiste per occupare l’ultimo posto, quello che nessuno vuole. Mamma mia, a scuola ogni giorno come l’ultimo degli studenti? A casa sempre un passo dietro a mio marito? Al lavoro seduto a raccogliere il mobbing ingiusto, a sbrigare le pratiche che nessuno vuole guardare? Io, il parroco, in ginocchio davanti a ogni pecora affidata, lasciando che le nevrosi, le invidie e le gelosie si infrangano su di me?
Sì, perché questo è il posto che Dio ha riservato ai suoi apostoli, quello scelto da suo Figlio per salvare ciascuno di noi. Con Lui siamo chiamati ad essere gli ultimi per lavare i piedi di tutti; come scrive San Paolo, “spettacolo e spazzatura per il mondo”. Perché solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile.
Così accadde a San Francesco Saverio, apostolo indomito dell’Asia. Un giorno si trovava a Yamaguchi, in Giappone, annunciando il Vangelo; in giapponese sapeva solo il Credo, e questo ripeteva, con un sorriso disarmante. Alcuni ragazzini, vedendolo vestito così stranamente e con una faccia così ridicola, e udendolo balbettare in un giapponese improbabile parole astruse, presero a insultarlo, a sputargli e a tirargli pietre. E Francesco impassibile continuava “seduto all’ultimo posto”, il sorriso sul viso e il Credo sulle labbra. Passava di lì un samurai, osserva la scena e si ferma impietrito. Poi, stordito, si avvicina a Francesco. Attraverso il suo compagno e interprete gli dice: “Che cos’hai tu più di me? Io sono il primo in questa città, e l’onore è la cosa più importante per la mia vita. Tu qui sei l’ultimo, eppure devi avere una cosa più grande e importante dell’onore, per essere così libero da lasciare che te lo tolgano. Voglio quello che tu hai”. Fu il primo samurai convertito al cristianesimo. L’ultimo posto lo aveva attirato a cercare il tesoro meraviglioso che vi si nasconde.
Forse per noi continua ad essere diverso… Nella nostra vita sperimentiamo che ogni relazione, precaria nella friabilità degli affetti e instabile sotto la dittatura degli umori, nasce ferita da un’assenza. Nessuno può dare l'amore che il cuore dell'altro desidera. E invece ci ostiniamo a chiedere al prossimo di saziare i nostri vuoti. Quando «invitiamo amici, fratelli e parenti» ad entrare in comunione con noi ai nostri «banchetti», e sembriamo aprirci alle loro necessità, in realtà «offriamo» sofisticati menù a base di compromessi e ipocrisia; pensieri, parole e gesti come lacci tesi perché ci «invitino a loro volta» nell’intimità.
Come incantatori di serpenti cerchiamo di ipnotizzare e legare a noi il coniuge, i figli, gli amici. La nostra identità dipende dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Non possiamo vivere senza la loro attenzione, l'indifferenza ci polverizza. Così, ad esempio, diluiamo i «no» che dovremmo dire ai figli e gli permettiamo vestiti e orari inaccettabili, discoteche sature di droga e sesso, vacanze promiscue, gadget costosissimi: li tempestiamo di «inviti» al dialogo per non perdere l'affetto e non dover sopportare ribellione e rifiuto. Allo stesso modo con il coniuge, il fidanzato e gli amici: non amiamo perché non ci interessa il bene dell’altro. Non siamo “inquieti” per loro, come dice Papa Francesco. Al contrario, siamo sterili perché in tutto cerchiamo i primi posti” dove saziare noi stessi.
Ma la verità è che siamo tutti «poveri, storpi, zoppi e ciechi». Abbiamo bisogno di gustare le primizie della «ricompensa» celeste, la vita e l’amore più forti della morte capaci di liberarci dalla paura e dall’esigenza. Il compimento di ogni vita è in Cielo, inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà che è un’eco del peccato e del disordine da esso provocato, ci impedisce di appropriarcene aprendoci alla beatitudine. Dietro ad essa vi è l’amore di Dio, non il suo castigo.
Attraverso di essa ci chiama a guardarlo e a cercare le cose di lassù in ogni cosa di quaggiù. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, perché ci schiaccia sulla carne e ci impedisce di sperare il Cielo. «Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo proprio quando non ha nulla per «contraccambiare»: è allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità, facendoci così gustare le primizie della Vita Beata.
Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione. Questo è il Cielo sulla terra! Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne. Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme l’«invito» del Signore alla sua mensa della Parola e dei Sacramenti; e qui lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione».


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 Commento della Congregazione per il Clero

La liturgia della Parola di questa XXII domenica del tempo ordinario presenta alla nostra riflessione  quali devono essere  le grandi aspirazioni del cristiano che devono orientare il vivere quotidiano di ogni fedele: la corsa all’ultimo posto e l’imbandire tavole con disinteressata generosità per gli affamati.

Sono due realtà che sicuramente cozzano con i principi mondani del vivere, ma che il cristiano, come seguace di Cristo, non può non accettare e mettere in pratica per conquistare quella meta che è il fine ultimo del suo cammino: il Regno di Dio.

Sono stati, infatti, l’umiltà e la povertà gli insegnamenti principali di Gesù nella sua vita pubblica e il brano evangelico dell’invito a pranzo da parte di un fariseo nei confronti di Gesù, fornisce a Gesù stesso l’occasione per ribadire l’importanza di queste virtù e conferire ad esse una nuova luce, una luce che deriva dal mistero di Cristo, Figlio di Dio fatto uomo che da ricco diventò umile e povero, per rendere così gli uomini ricchi della sua povertà e quindi degni della gloria di Dio.

Il Signore Gesù, nel brano lucano, non vuole suggerire delle regole di comportamento sociale, ma intende offrire piuttosto un insegnamento per la nostra partecipazione di ogni giorno al banchetto della fede e della vita cristiana, che ha il suo culmine nella celebrazione dell’Eucarestia: serve a noi il suo Corpo e il suo Sangue, la sua umanità sacrificata e risorta che, unitamente alla divinità, si nasconde nell’umile povertà delle apparenze del pane e del vino.

E partendo dall’esperienza di quel banchetto, dove la maggior parte degli invitati si dava da fare per occupare i primi posti, Gesù trae lo spunto per rivolgere un invito caloroso all’umiltà, una virtù che dà i suoi frutti anche sul piano umano.

Infatti, nelle relazioni umane è sempre preferibile, per l’invitato, occupare l’ultimo posto onde poter suscitare la simpatia del padrone di casa che si adopererà per avvicinarlo a posti a lui più vicini, mentre chi si siede al primo posto corre il pericolo di dover retrocedere ad un posto più lontano e quindi sottoporsi all’umiliazione davanti ai commensali.

Da ciò nasce l’atteggiamento della vera saggezza che è propria del cristiano, il quale, come seguace di Cristo, trova più giusto e coerente occupare l’ultimo posto, e questo non per una questione di debolezza o di timidezza, ma perché essere umili significa sottomettersi al gioioso peso dell’amore. Dio stesso si è umiliato e sicuramente non per debolezza o maggior bisogno di aiuto, ma si è abbassato per salvare l’uomo, per amore!

Per servire l’uomo si è fatto piccolo, si è umiliato e lo ha fatto nella persona del Figlio suo che, spogliandosi della sua condizione divina, pur rimanendo sempre Dio, ha assunto la condizione di servo divenendo simile agli uomini.

Inoltre, è bene ricordare come Gesù, nella lavanda dei piedi, ha offerto un grande esempio di umiltà compiendo un gesto grande di amore e svelandoci il vero volto di Dio, che è amore infinito e non esita ad abbassarsi alla condizione di schiavo pur di servire l’uomo e così purificarlo dal suo peccato.

Il cristiano vivrà, dunque, con questi principi, in quella dimensione di carità che lo avvicinerà maggiormente a Dio e la cui autenticità si manifesterà ancora di più allorquando all’umiltà unirà la gratuità delle sue azioni.

È la seconda parte del brano evangelico in cui Gesù esorta il padrone di casa ad invitare in futuro non solo gli amici che sono nelle condizioni di poter ricambiare l’invito, ma anche quelle persone che, a causa del loro stato di indigenza non potranno ricambiarlo. Gesù si riferiva a quelle persone che erano emarginate: storpi, ciechi, zoppi, cioè già carichi di una povertà esterna che rendeva più grave quella interna e che aveva come conseguenza l’esclusione dalla partecipazione alla vita sociale del tempo.

L’amore, però, quello vero che deriva da Dio, non può essere solo espressione di simpatia e amicizia umane, ma anche e soprattutto espressione di una profonda fraternità manifestata in una scelta più vicina ai poveri, abbracciandone la causa, perché sicuri che essi sono il segno privilegiato della presenza di Cristo nella storia.

È questo il tema della prima lettura in cui si invoca per gli uomini la modestia, l’equilibrio, la lontananza dalle grandi pretese. Infatti, afferma che chi nella vita sociale occupa un posto elevato, certamente per ciò stesso non è in posizione di superbia, ma più facilmente potrebbe essere tentato per cui viene esortato. Quanto più una persona è in posizione sociale elevata tanto più deve adoperarsi per sollevare le difficoltà di chi si trova oppresso da qualsiasi tipo di povertà. Questo atteggiamento, fra l’altro, risulta pure vantaggioso per espiare le proprie manchevolezze.

Anche la seconda lettura esorta ad un’autentica vita religiosa con un pressante appello alla carità: virtù che tutti siamo chiamati a realizzare nella nostra vita, essendo la nostra meta il cielo, la Gerusalemme celeste che possiamo raggiungere solo per mezzo di Gesù Cristo mediatore della nuova alleanza, sommo sacerdote che realizza la riconciliazione dell’umanità con Dio.

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXII.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Il presule propone anche una lettura spirituale.
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LECTIO DIVINA
Pedagogia dell’umiltà
Rito romano
XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 1° settembre 2013.
Sir 3, 19-21.30-31; Sal 67; Eb 12, 18-19.22-24; Lc 14, 1. 7-14
Rito ambrosiano
I Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 30,8-15b; Sal 50; Rm 5,1-11; Mt 4,12-17
1) Norma religiosa e non di galateo.

La liturgia del rito romano ci propone nella prima lettura presa dal libro del Siracide una raccomandazione paterna: assumere un atteggiamento di attenzione e di docilità, un atteggiamento da discepoli, di fronte a colui che ci parla come un padre. Non solo riconoscerà in lui l'uomo ricco di esperienza, ma avrà fiducia nei suoi consigli dettati da paterna sollecitudine. La mitezza porta all'essere amato (v. 17), l’umiltà apre l'uomo ai doni di Dio (v. 18), lo colloca di fronte a Dio, di fronte alla grandezza della Sua potenza (v. 20) perché lo destina al posto che gli compete e ne fa un testimone di Dio e della Sua grazia. 


Passando al Vangelo di Luca, osserviamo innanzitutto che è un fatto capitato a Gesù. Arrivato a casa di un capo dei farisei che l’aveva invitato, il Messia osserva che gli ospiti fanno ressa per assicurarsi i primi posti. Sono persone convinte di avere diritto al posto d'onore. Allora il Redentore racconta una parabola, con la quale non intende ricordare una semplice regola di galateo, ma vuole offrire una regola religiosa sul come comportarsi con Dio e, di conseguenza, con gli uomini.
Per dare questo suo insegnamento religioso, il Redentore afferma: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: ‘Cedigli il posto!’. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: ‘Amico, vieni più avanti!’. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,7-14).
Ci sono due brani nel Nuovo Testamento che possono illuminare questa parabola: 

Il primo è la lettera di San Paolo ai Filippesi 2,3-11 in cui la frase centrale è l'invito ad “avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù... il quale... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce... Per questo Dio lo esaltò...”. 
La verità della parola di Gesù sull’umiltà appare nel fatto che egli stesso ha vissuto questa parola nella sua stessa persona a convalida della sua missione e della sua predicazione: abbandonare il primo posto per prendere l'ultimo è appunto il senso della sua incarnazione. 

Il secondo brano è il Magnificat (Lc. 1,46-55 ): “Dio ha guardatol’umiltà della sua serva...”; questi ultimi due termini (umiltà e serva) indicano chiaramente che la straordinaria e unica missione affidata da Dio a Maria ha avuto l'origine nella sua stessa umiltà vissuta con semplicità e gioia, aperta e disponibile alla volontà di Dio. 

2) A scuola dell’umiltà.
Andiamo a scuola da Maria, per imparare da questa Madre umile a seguire suo Figlio, peridentificarcicon lo stesso Signore Gesù (che, dalla sua condizione di Figlio di Dio, si è abbassato e umiliato fino ad assumere la nostra condizione umana), per potere con Lui e in Lui giungere alla gloria dellaresurrezione.

Nella Madonna, ma ciò va detto di ogni cristiano, l'umiltà non riguarda la stima di se stessi, ma il rapporto con Dio, che guarda in giù. Verso la serva prediletta, il cui amore è umile perché si mette a servizio dell’Amore e accetta di appartenere all’amore, dandoGli carne.
Dunque l’umiltàinsegnata e pratica dalla Madre Dio è il punto focale dove Dio fissa il Suo sguardo, dove Egli può stabilire un rapporto profondo e chiamare l’umile2 con il nome di “amico”. E l’amico non è il conoscente, il complice, è l’umile fedele alla Parola del Padre. Dunque, seguiamo Maria, per identificarci in lei che, come umile serva, ha accettato di diventare dimora della Sua Parola, di custodirla nel suo cuore e nel suo corpo, e di offrirla a tutta l'umanità. 

Se la Madonna non fosse stata umile, “piccola”, non avrebbe potuto accogliere la “grandezza” di Dio.Quel piccolo che portò nel grembo è la cosa grande che noi, oggi e sempre possiamo e dobbiamo accogliere come bene più grande da condividere gratuitamente.
Dunque accostiamoci ogni giorno (o almeno il più frequentemente possibile) all’Eucaristia, con un cuore puro e umile, quindi completamente libero e disponibile ad accogliere in noi il Dio vivente, a concepirlo e a darGli la vita tramite la nostra fragile carne redenta da Lui.
3) Gratuità senza frontiere.
Dopo la parola ai convitati, Gesù dice anche una parola per il padrone di casa: “Quando vai a un pranzo, non invitare gli amici o i ricchi vicini, ma i poveri”. Perché invitare sempre soltanto parenti ed amici? Siamo sempre all'interno di un amore interessato, all'interno di una concezione chiusa della vita: ci si invita fra amici, fra persone alla pari, oggi io invito te e domani tu inviti me. E i poveri restano sempre fuori, sempre esclusi. Il Vangelo vuole invece una fraternità con due caratteristiche ben precise: la gratuità e l'universalità. Devi dare anche a coloro dai quali non puoi sperare nulla in cambio. Gesù sta pensando alla sua futura comunità: la sogna come un luogo di ospitalità per tutti gli esclusi. Non si tratta certo di un insegnamento nuovo. Gesù l'ha già rivolto a tutti nel discorso della montagna (Lc 6.32-34): se amate soltanto coloro che vi amano, qual è il vostro merito? Anche i peccatori amano coloro che li amano. 
C'è la beatitudine per chi è povero (“beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio”) e c'è anche la beatitudine per chi trasforma i propri beni in occasione di ospitalità, ma deve trattarsi di un'ospitalità anche verso gli esclusi (“sarai beato perché non hanno da ricambiarti”).
Ma questa ospitalità è possibile solamente se accogliamo l’altro, come la Madonna ha verginalmente accolto l’Altro con una fede e un amore così grandi, che i suoi occhi ed il suo cuore si sono aperti alla Carità di Dio e “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi”.
La vita cristiana, quindi, non è in primo luogo meditare e praticare le virtù, ma ospitare e vivere della presenza di Cristo, che ci ama di amore infinito.
Se viviamo la realtà di questo mistero di carità, viviamo già in Paradiso. Le persone consacrate vivono già in Paradiso. Infatti, la vita religiosa nella teologia cattolica è stata sempre ritenuta come una anticipazione della vita del cielo.
Si dice che le suore di vita contemplativa vivono in clausura. Non è vero, perché una monaca che vive totalmente per Iddio vive la libertà pura di un’anima che spazia nell’immensità divina.
Anche per le appartenenti all’Ordo Virginum il loro luogo è l’immensità di Dio. Non sono chiuse in casa o nei luoghi di lavoro. Sono chiusi quelli che sono nomadi, vagabondi nel mondo e non vivono altro che la loro piccola vita nel piccolo mondo, granello minuscolo dell’Universo. La loro anima respira l’Infinito. Vivono in Dio e Dio è l’immenso, vivono nel Cristo e Cristo è l’Amore. “Dieu est le Dieu du coeur humain” [Dio è il Dio del cuore umano] (San Francesco di Sales3, Filotea o Trattato dell’Amore di Dio, I, XV).
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LETTURA SPIRITUALE
FILOTEA o Trattato dell’Amore di Dio
di San Francesco di Sales
Vescovo e Dottore della Chiesa
Capitolo V
L’UMILTA’ INTERIORE
“Tu, Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello dell’umiltà; quindi andiamo avanti.
Molti non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente, non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.
Direi proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da noi.
Rifletti: i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?
E se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la conoscenza genera la riconoscenza.
Ma se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile: pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.
La Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore, dice, perché ha fatto in me cose grandi.
Spesso diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’ proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma soltanto per passare con grande onore a capotavola.
L’umiltà vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà; perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere completamente ignorata e nascosta.
Eccoti il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero. Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione; aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno; questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità affettuosa.
L’uomo sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia contento di vedere condivisa la sua opinione.
Molti affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri. Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria opinione, della propria indole, della propria pigrizia.
Domanda a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso. Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra miseria.
Molto umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la responsabilità della nostra anima.
Pensare di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.
Quando lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.
L’umiltà richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude soltanto quando si alza il sole, sicché la gente del paese dice che questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo, non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.
Non vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.
E anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a trarre conclusioni per noi.
Davide, saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.
Quando sua moglie Micol glielo rimproverò cime una follia, non fece caso all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di disprezzo per il suo Dio.
Per questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.”
*
NOTE
1 Il verbo greco utilizzato dal Vangelo di Luca andrebbe tradotto letteralmente: “ha guardato in giù”, verso la bassezza dell’umile sua schiava.
2 da humus parola latina che vuol dire terra. Essere umili è riconoscere che noi siamo polvere di terra amata da Dio.
3 Dieu est le Dieu du coeur humain” [Dio è il Dio del cuore umano] (Trattato dell’Amore di Dio, I, XV): in queste parole apparentemente semplici cogliamo l’impronta della spiritualità di un grande maestro di san Francesco di Sales, Vescovo e Dottore della Chiesa. Nato nel 1567 e morto nel 1622, in una regione francese di frontiera,visse a cavallo tra due secoli, il Cinquecento e il Seicento, raccolse in sé il meglio degli insegnamenti e delle conquiste culturali del secolo che finiva, riconciliando l’eredità dell’umanesimo con la spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche. Fra i vari suoi scritti segnalo anche uno dei libri più letti nell’età moderna, l’Introduzione alla vita devota.

Not gay! Ex gay, post gay and proud. Get over it!

sentenza


Il 29 agosto 2013 la Corte d’Appello Federale per il Nono Circuito degli Stati Uniti, competente per la California, ha reso pubblica un’attesa sentenza sulla legittimità e la costituzionalità di una legge californiana – la prima del genere negli Stati Uniti, seguita lo scorso 19 agosto da una analoga del New Jersey – che dichiara illegale l’uso delle terapie riparative per pazienti minorenni. Gli psichiatri e psicologi che offrono queste terapie a minori rischiano la perdita della licenza professionale e anche il carcere. Come è noto, le terapie riparative sono quei metodi psico-terapeutici che mirano ad aiutare le persone che percepiscono come un problema il loro orientamento omosessuale e desiderano cambiarlo.

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Le terapie riparative sono al centro di una grande polemica internazionale, di cui anche la nostra testata si è occupata, e toccano un nervo scoperto della comunità degli attivisti gay. In Italia la semplice menzione di queste terapie da parte del vice-presidente dei Giuristi Cattolici, l’avvocato Giancarlo Cerrelli, in una trasmissione televisiva, ha scatenato un’aggressione senza precedenti nei confronti del giurista, di cui pure abbiamo avuto occasione di occuparci. Non ripeterò in questa occasione – né ne avrei la competenza – gli argomenti sul carattere non scientifico, ma piuttosto ideologico, dell’aggressione contro le terapie riparative che uno psicologo ha esposto sulla Nuova Bussola Quotidiana lo scorso 27 agosto, in polemica con il presidente dell’Ordine degli Psicologi – e già candidato (trombato) nella lista di Nichi Vendola alle elezioni regionali pugliesi del 2010 –, il dottor Giuseppe Luigi Palma, che era stato tra i più violenti nell’attacco a Cerrelli. M’interessa invece qui commentare l’intervento del legislatore californiano – e di quello del New Jersey – in una controversia scientifica.
La Corte d’Appello del Nono Circuito stabilisce un principio molto pericoloso – tanto più in un Paese come gli Stati Uniti dove, felicemente, le decisioni delle associazioni professionali, spesso su questi temi ideologicamente orientate, sono meno cogenti che in Europa –, e cioè che le leggi e i tribunali hanno il diritto di rendere obbligatoria un’ortodossia scientifica stabilita dai gruppi maggioritari – o che si presentano come maggioritari – in una determinata branca della scienza. Di norma, afferma la sentenza, il diritto alla libertà di espressione negli Stati Uniti è assoluto. Benché nessuno scienziato affermi che la Terra è piatta, esistono curiose associazioni che insistono sul fatto che il nostro pianeta è proprio piatto, non è rotondo, e propagandando le loro idee non si va in prigione.
Ma c’è un ma. La Corte d’Appello spiega che le teorie anti-scientifiche non possono essere liberamente insegnate, e tanto meno se ne possono derivare conseguenze pratiche o terapeutiche, quando interferiscono con i diritti di categorie protette o favoriscono la discriminazione. Tra le categorie protette contro la discriminazione ci sono gli omosessuali, e la pratica delle terapie riparative implica necessariamente – afferma la sentenza – la tesi che l’omosessualità «sia una malattia», «non sia normale» o comunque sia una condizione meno positiva e desiderabile dell’attrazione verso persone dell’altro sesso. Questa opinione, oltre che «condannata dalla scienza», non è protetta dalla libertà di espressione, ma al contrario la sua manifestazione implicita o esplicita è vietata dalle leggi contro l’omofobia.
L’evidente obiezione è che se l’omosessualità sia una condizione «normale» e desiderabile, o se invece – come insegna per esempio il Magistero della Chiesa Cattolica – l’inclinazione omosessuale sia «oggettivamente disordinata» e «costituisca per loro [le persone omosessuali] una prova» (così afferma, al n. 2358, il «Catechismo della Chiesa Cattolica»), non è una questione che possa essere decisa esclusivamente dalla scienza psichiatrica, o da una maggioranza di psichiatri. Presenta profili che interessano la sociologia – la quale s’interessa della questione se esistano effettivamente gruppi di omosessuali che considerano la loro condizione «una prova» e preferirebbero cambiarla – la filosofia e anche la teologia. La questione è enormemente complicata e controversa. Come ha rilevato, intervenendo sul caso Cerrelli con un articolo su «Avvenire» del 29 agosto, lo stesso professor Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani – non proprio un talebano dell’opposizione alle leggi sull’omofobia e le unioni omosessuali, come sanno i nostri lettori – imporre per legge o affidare ai tribunali la decisione su quali opinioni siano lecite e quali no in questo campo costituisce una gravissima violazione della libertà di opinione e di espressione.
La sentenza californiana considera questa obiezione e risponde che la libertà di opinione non c’entra, in quanto la legge non vieta ai medici e terapisti di discutere in astratto le terapie riparative o di «scrivere un libro o tenere un comizio» dove affermano che le terapie riparative sono utili e funzionano, ma vieta loro soltanto di utilizzarle nella loro pratica medica e psichiatrica rivolta a minori. La risposta, anche qui, non è convincente: anzitutto perché, una volta stabilito che ogni affermazione in favore delle terapie riparative nasce necessariamente da un pregiudizio omofobo, l’espressione pubblica di questo pregiudizio – se non sarà colpita dalla nuova legge contro le terapie riparative – cadrà nell’ambito di applicazione delle leggi esistenti contro l’omofobia. In secondo luogo, perché è molto curioso riconoscere a un medico la libertà di affermare in pubblico che una certa terapia è benefica e utile, e nello stesso tempo vietargli di utilizzarla.
Si dovrebbe tenere conto anche della libertà del paziente di prestare il suo consenso informato a terapie che reputa utili a migliorare la sua condizione.
Curiosamente, la sentenza non insiste molto sul fatto che la legge californiana vieta solo di offrire le terapie riparative ai minorenni, ma non ne vieta l’uso con i maggiorenni. Certo è singolare che – mentre le possibilità di un sedicenne di prendere decisioni sulla sua vita si ampliano continuamente – l’unica scelta vietata è quella di intervenire per modificare il proprio orientamento omosessuale. C’è un clamoroso parallelo con la decisione di cambiare sesso: una pratica – come rivelò un’inchiesta televisiva della CBS nel 2012 – sempre più offerta a minorenni negli ospedali americani, per non parlare dell’accompagnamento psicologico di ragazzine teenager che si dichiarano lesbiche e sono «aiutate» ad adottare la nuova identità che si sono scelte.
Ma la sentenza non insiste su questo punto per una ragione politica. Sa bene che il divieto delle terapie riparative offerte a minorenni è solo il primo passo, e che le organizzazioni gay ora si battono per una legge che mandi in galera chiunque offra terapie riparative a persone omosessuali di qualunque età. Così recita il progetto di legge che ogni settimana in Gran Bretagna raccoglie nuove firme di membri del Parlamento di tutti i partiti, con il sostegno della stampa «politicamente corretta». E si ha l’impressione, leggendo tra le righe, che anche i giudici californiani ritengono che alla fine il problema sia culturale: occorre educare le minoranze non illuminate a capire che l’omosessualità non è un disagio, ma una condizione simpatica, gradevole e alla moda. Quando le leggi diventano strumento per rieducare chi è riluttante a entrare nel meraviglioso mondo del «politically correct» siamo sbarcati in quella che Benedetto XVI nell’enciclica «Caritas in veritate» chiama la peggiore delle ideologie: la tecnocrazia, dove le opinioni presentate come «scientifiche» sono imposte a tutti con la minaccia della galera, in una sinergia perversa fra tecnocrati in camice bianco e tecnocrati in toga, tristi gendarmi gli uni e gli altri della dittatura del relativismo.
Introvigne

Preghiere per la Siria

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Di seguito la lettera che  quattro suore trappiste hanno inviato al sito oraprosiria. Le quattro religiose vivono in monastero cistercense appollaiato su una collina in un villaggio maronita al confine col Libano, fra Homs e Tartous. ( fonte: tempi.it )
Oggi non abbiamo parole, se non quelle dei salmi che la preghiera liturgica ci mette sulle labbra in questi giorni: «Minaccia la belva dei canneti, il branco dei tori con i vitelli dei popoli… o Dio disperdi i popoli che amano la guerra…». «Il Signore dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morte»… «ascolta o Dio la voce del mio lamento, dal terrore del nemico preserva la mia vita; proteggimi dalla congiura degli empi, dal tumulto dei malvagi. Affilano la loro lingua come spada, scagliano come frecce parole amare… Si ostinano nel fare il male, si accordano per nascondere tranelli, dicono: “Chi li potrà vedere? meditano iniquità, attuano le loro trame. Un baratro è l’uomo, e il suo cuore un abisso”. Lodate il mio Dio con i timpani, cantate al Signore con cembali, elevate a lui l’accordo del salmo e della lode, esaltate e invocate il suo nome. POICHE’ IL SIGNORE E’ IL DIO CHE STRONCA LE GUERRE. “Signore, grande sei tu e glorioso, mirabile nella tua potenza e invincibile”».
siria-cristiani-giuseppe-nazzaro-aleppoGuardiamo la gente attorno a noi, i nostri operai che sono venuti a lavorare tutti come sospesi, attoniti: «Hanno deciso di attaccarci». Oggi siamo andate a Tartous… sentivamo la rabbia, l’impotenza, l’incapacità di formulare un senso a tutto questo: la gente cerca di lavorare, come può, di vivere normalmente. Vedi i contadini bagnare la loro campagna, i genitori comprare i quaderni per le scuole che stanno per iniziare, i bambini chiedere ignari un giocattolo o un gelato… vedi i poveri, tanti, che cercano di raggranellare qualche soldo, le strade piene dei rifugiati “interni” alla Siria, arrivati da tutte le parti nell’unica zona rimasta ancora relativamente vivibile… guardi la bellezza di queste colline, il sorriso della gente, lo sguardo buono di un ragazzo che sta per partire per militare, e ci regala le due o tre noccioline americane che ha in tasca, solo per “sentirsi insieme”… E pensi che domani hanno deciso di bombardarci… Così. Perché “è ora di fare qualcosa”, così si legge nelle dichiarazioni degli uomini importanti, che domani berranno il loro thé guardando alla televisione l’efficacia del loro intervento umanitario… Domani ci faranno respirare i gas tossici dei depositi colpiti, per punirci dei gas che già abbiamo respirato?
La gente qui è davanti alla televisione, con gli occhi e le orecchie tesi: «Si attende solo una parola di Obama»!!!! Una parola di Obama?? Il premio Nobel per la pace, farà cadere su di noi la sua sentenza di guerra? Aldilà di ogni giustizia, di ogni buon senso, di ogni misericordia, di ogni umiltà, di ogni saggezza?
Parla il Papa, parlano Patriarchi e vescovi, parlano innumerevoli testimoni, parlano analisti e persone di esperienza, parlano persino gli oppositori del regime… E tutti noi stiamo qui, aspettando una sola parola del grande Obama? E se non fosse lui, sarebbe un altro, non è questo il problema. Non si tratta di lui, non è lui “il grande”, ma il Maligno che in questi tempi si sta dando veramente da fare.
siria-suore-3Il problema è che è diventato troppo facile contrabbandare la menzogna come nobiltà, gli interessi più spregiudicati come una ricerca di giustizia, il bisogno di protagonismo e di potere come “la responsabilità morale di non chiudere gli occhi”… E a dispetto di tutte le nostre globalizzazioni e fonti di informazioni, sembra che nulla sia verificabile, che un minimo di verità oggettiva non esista… Cioè, non la si vuole far esistere; perché invece una verità c’è, e gli uomini onesti potrebbero trovarla, cercandola davvero insieme, se non fosse loro impedito da coloro che hanno altri interessi.
C’è qualcosa che non va, ed è qualcosa di grave… perché la conseguenza è la vita di un popolo. È il sangue che riempie le nostre strade, i nostri occhi, il nostro cuore.
Ma ormai, a cosa servono ancora le parole? Una nazione distrutta, generazioni di giovani sterminate, bambini che crescono con le armi in mano, donne rimaste sole, spesso oggetto di vari tipi di violenza… distrutte le famiglie, le tradizioni, le case, gli edifici religiosi, i monumenti che raccontano e conservano la storia e quindi le radici di un popolo…
Domani, dunque (o domenica ? bontà loro…) altro sangue.
Noi, come cristiani, possiamo almeno offrirlo alla misericordia di Dio, unirlo al sangue di Cristo che in tutti coloro che soffrono porta a compimento la redenzione del mondo. Cercano di uccidere la speranza, ma noi a questo dobbiamo resistere con tutte le nostre forze.
A chi ha un vero amore per la Siria (per l’uomo, per la verità…) chiediamo tanta preghiera… tanta, accorata, coraggiosa…
le sorelle trappiste
da ‘Azeir – Syria, 29 agosto 13

Riflessioni su alcuni personaggi di scienza


In questi giorni di mare ho ritagliato alcuni articoli di giornale sulla storia della scienza. Li metto in fila.
Il più notevole è sicuramente la paginata di Giulio Meotti, su Il Foglio del 24 agosto. Si ricorda che Orwell scrisse “1984” dopo aver appreso “la degradazione della scienza sotto un regime totalitario”. Lo scrittore inglese era stato colpito dalla sorte toccata a eminenti scienziati russi: al genetista Vavilov, sottoposto a duemila ore di interrogatori, torturato e lasciato morire di fame nel gulag di Saratov; a Tulaikov e Karpechenko, altri due biologi sostenitori, come Vavilov, della genetica mendeliana, e per questo fucilati. 
Perché i sostenitori di Mendel, nella Russia atea, venivano privati delle cattedre, emarginati e persino, talora, condannati a morte? L’accusa a Mendel era duplice: essere stato un prete cattolico e aver proposto, con le sue leggi, una “superstizione metafisica”.
L’espressione “superstizione metafisica” ci fa capire quanto i sovietici fossero “buoni filosofi”. L’atto di nascita della genetica, come di tutta la scienza moderna, infatti, era stato proprio un atto di fede metafisico non nel caos, ma nell’ordine del creato; in un ordine di derivazione trascendente, evidente nelle leggi che regolano la realtà data. Mendel prima credette che esistessero delle leggi, qualcosa di invisibile che regola e guida ciò che è visibile; qualcosa di “intelligente” che rimanda a Legislatore, ad Intelligenza. Poi le cercò, pazientemente, per anni, sino a trovarle. Gli atei sovietici lo sapevano, e condannarono Mendel per decenni; così come condannarono l’astronomia del sacerdote cattolico Lemaitre, primo teorico dell’espansione delle galassie e del Big bang: suonavano, anche le sue scoperte, poco confacenti al dogma dell’eternità della materia.
Ma Mendel non piace neppure oggi: o lo si prende solo in parte, per dire che l’uomo è determinato dai suoi genti (cosa che lui mai avrebbe pensato neppure dei suoi piselli), oppure, implicitamente, lo si nega quando si sostiene, per esempio, che non esiste una identità sessuale naturale. Tutta le teoria del gender ha radici marxiste, e di fatto non fa altro che negare il dato genetico: la XX delle femmine e l’ XY dei maschi.
E’ anche per questo che a febbraio e marzo dell’anno prossimo si celebreranno, in 30 città italiane, i Mendel day. Per ricordare fatti storici, idee metafisiche, realismo filosofico.
Forse sarà anche l’occasione per rammentare che le uniche grandi persecuzioni di uomini di scienza sono state realizzate dai giacobini: quelli bolscevichi, e, prima, quelli della Rivoluzione francese che tagliarono la testa a Lavoisier e a diversi altri scienziati francesi, prima di togliere la cattedra ai troppo devoti Ruffini, Galvani…
Il secondo ritaglio è dal Corriere del 18 agosto: vi si racconta la storia di un grande fisico del Novecento, Gillo Pontecorvo che “scelse l’Urss e finì leggendo la Bibbia”. Pontecorvo fu un fervente comunista, tanto da dichiarare: “Per me il comunismo era come una religione. Ma ho commesso tanti errori”. Prima di assistere alla caduta terrificante di una religione durata pochi decenni, aveva scelto di leggere, ogni giorno, la Bibbia. Passando dal messianismo marxista, che salva l’Umanità tramite gli uomini, all’interesse per il Dio “fons pietatis”, “qui salvando salvas gratis”.
Il terzo ritaglio è sempre dal Corriere (25 agosto): Anna Meldolesi ricorda che il “co-scopritore” della selezione naturale, Alfred Russell Wallace, è stato dimenticato a vantaggio di Darwin, senza un vero motivo scientifico. Meldolesi lo definisce “vittima di una ‘selezione naturale’”. In verità fu tutto assai artificiale: Darwin fu scelto dal pensiero socialista e marxista che lo piegò ai suoi fini: fare dell’evoluzionismo la “prova” del materialismo. Wallace non poteva servire al fine: credeva in Dio e nell’unicità spirituale dell’uomo. Così fu accantonato…
Infine, sempre dal Corriere del 18 agosto: si pubblicizzano i “corsivi” di Umberto Veronesi. Medico, ma soprattutto, così ama presentarsi da tempo, storico, filosofo, teologo… Questo il succo: “Credo nell’uomo, non in Dio. Io non sono credente, e rispetto al problema di Dio mi considero agnostico. Sono però profondamente convinto che esiste una morale laica altrettanto valida della fede in Dio”.
Veronesi, lo ha ricordato più volte, è anche lui un figlio del materialismo comunista. Qui ci sono diverse visioni della storia: Veronesi crede nell’uomo, nonostante i gulag e i lager, e forse, anche a ragione di essi, non crede in Dio; io non credo nell’uomo, che per dare a tutti la felicità, senza Dio, ha creato i gulag, e credo in Dio, grazie ad uomini (che mi fanno credere anche nell’uomo) come i ragazzi della rosa bianca, san Massimiliano Kolbe o Solgenitsyn (secondo il quale: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, ecco perché tutto questo è accaduto”)…
Veronesi è a favore dell’aborto (uccisione di un uomo piccolo da parte di un uomo grande); crede nella bontà della clonazione (uomo grande che fotocopia uomo piccolo); crede nella bontà dell’utero in affitto (persone ricche affittano l’utero di povere)… Cosa intenda, in concreto, per “credere nell’uomo”, mi sfugge… Il Foglio, 28 agosto 2013
F. Agnoli

Martire per la fede e l’unità dei cristiani



"Se tu metti Dio in tutto ciò che fai, lo troverai in tutto ciò che ti accade."
Beato Vladimir Ghika (1873 - 1954)

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A Bucarest il cardinale Amato presiede la beatificazione di Vladimir Ghika.

«Il martire è testimone della vita e non della morte»: lo ha detto il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ricordando la testimonianza di Vladimir Ghika (1873-1954), il sacerdote romeno vittima della persecuzione del regime totalitario e morto per le estreme conseguenze della prigionia. Presiedendo a nome del Pontefice il rito di beatificazione sabato 31 agosto, a Bucarest, il porporato ha presentato la figura del martire richiamando proprio le parole della lettera apostolica di Papa Francesco, che lo ha definito «pastore zelante, testimone tenace della carità divina, difensore coraggioso della fede cattolica e della comunione con la Chiesa di Roma». Nella sua omelia il cardinale ha fatto riferimento alle violente persecuzioni del secolo scorso contro i cristiani, tra le quali ha menzionato «la tragedia messicana, la persecuzione spagnola, lo sterminio nazista, l’olocausto comunista». E ha sottolineato come «una tra le peggiori persecuzioni del secolo» sia stata quella avvenuta in Romania. «I cattolici — ha detto — furono umiliati, i loro beni confiscati, vescovi e sacerdoti imprigionati e uccisi, seminaristi torturati, laici costretti ad abbandonare la fede cattolica, religiosi dispersi, istituti di educazione confiscati, chiese chiuse, libertà religiosa negata».
Di fronte a questa tragedia — ha ricordato il porporato — Pio XII rivolse ai vescovi, al clero, e al popolo della Romania un forte messaggio, nel quale espresse solidarietà, preghiera e vicinanza a quanti erano vittime di ingiustizia e di violenza in quanto cattolici. In questo contesto così tribolato emerse la figura di Ghika, che, battezzato nella Chiesa ortodossa, dopo un percorso di riflessione passò al cattolicesimo il 13 aprile 1902. Questa conversione, come ha sottolineato il cardinale, «non fu un semplice cambio di confessione, ma la scelta deliberata di un progetto di vita totalmente consacrata a Dio nel sacerdozio, a servizio del prossimo e dell’azione per l’unità della Chiesa».
All’età di cinquant’anni Ghika venne ordinato sacerdote a Parigi, dove iniziò un intenso apostolato di carità a favore dei piccoli e dei poveri. Dopo l’invasione nazista della Polonia, decise di rimanere in Romania per aiutare i rifugiati polacchi. «Fedele alla sua teologia del bisogno, théologie du besoin — ha aggiunto il porporato — egli si occupò dei malati, dei feriti e dei prigionieri di guerra. Confermò questa sua decisione anche nel 1948 quando, dopo l’abdicazione e la partenza del re Michele, il regime comunista iniziò una violenta e sistematica repressione dei cattolici». Il 18 novembre 1952 venne incarcerato a Jilava, «uno dei più terribili campi di sterminio», dove, il 16 maggio 1954, a causa «delle crudeli torture inflittegli dalla Securitate», trovò la morte.
Il porporato ha poi evidenziato tre aspetti della carità pastorale del nuovo beato. Il primo riguarda l’anelito ecumenico. «Sognava — ha detto — l’unità della Chiesa. Per lui l’Oriente e l’Occidente erano i due polmoni dell’unica Chiesa di Cristo. Per questo ebbe il privilegio, eccezionale a quell’epoca, del “biritualismo”. Egli proponeva la santità come un mezzo indispensabile per promuovere l’unità dei cristiani». Promuoveva anche l’ecumenismo delle opere: vedeva cioè «nell’esercizio della carità il luogo di una nobile emulazione tra tutti i cristiani». Secondo lui, l’ecumenismo «doveva essere fondato sull’apostolato dell’amore, rispettando la libertà e la buona fede altrui ed evitando polemiche inutili e dannose». Inoltre, ha aggiunto il cardinale, «vedeva nel martirio di milioni di cristiani ortodossi perseguitati soprattutto in Russia e nell’Europa dell’est dai regimi comunisti la garanzia di una vera risurrezione, che, nella logica del mistero pasquale, doveva portare all’unità ritrovata».
Il secondo aspetto della sua figura riguarda l’impegno a favore dei rifugiati, dei feriti di guerra, dei malati. «Visitava spesso i detenuti della prigione di Văcăreşti, alla periferia di Bucarest — ha ricordato — per confortarli durante i bombardamenti, parlare di Dio e celebrare la messa». Utilizzò anche la sua influenza presso le autorità per salvare molti ebrei dalla deportazione verso i campi di concentramento. Sollecitò inoltre l’aiuto degli Stati Uniti d’America, attraverso il nunzio apostolico, perché fornissero cibo durante la terribile carestia del 1946. Volle che gli aiuti venissero distribuiti anche ai monasteri ortodossi della Moldova.
Il terzo aspetto concerne infine la sua sofferenza e la sua morte sotto il regime stalinista. Egli fu sottoposto a «lunghi e sfibranti interrogatori di giorno e di notte, pestaggi feroci tanto da far temere la perdita dell’udito e della vista, simulazioni di impiccagione». E «sopportò con fede e coraggio questo martirio con l’aiuto della preghiera». Recitava il rosario ogni giorno con un gruppo di detenuti e a ogni decina teneva una piccola meditazione. «Un giorno — ha ricordato in conclusione il cardinale Amato — aprì la sua meditazione citando le parole di Giacobbe: “questo luogo è santo e io non lo sapevo”». Quando pregava, «dava l’impressione di essere veramente felice. Smagrito, malato, sfinito, la sua fortezza era quella dell’isaiano servo del Signore di fronte alla morte». Accusato falsamente di «minacciare l’ordine sociale, in realtà egli fu incarcerato perché era un prete zelante e santo che attirava molte persone a Dio».
L'Osservatore Romano

Quella speranza che resta sempre accesa



Il cardinale Carlo Maria Martini e la dimensione contemplativa dell’esistenza.

Oggi, 31 agosto, in occasione del primo anniversario della morte del cardinale Carlo Maria Martini, è stata celebrata nel pomeriggio, nel Duomo di Milano, una messa di suffragio. Di seguito l’omelia pronunciata dal cardinale arcivescovo di Milano.
(Cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano) «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» (Matteo, 4, 16). L’evangelista Matteo, per descrivere l’inizio del ministero pubblico di Gesù, utilizza le parole di una profezia di Isaia (cfr. Isaia, 8, 23 - 9, 1). Una descrizione efficace, che ben esprime l’iniziativa di Dio nei confronti della umana condizione. Non si può forse dire di ogni uomo che «abita in regione e ombra di morte»? Questa, come un sordo rumore di fondo, accompagna tutta la nostra vita. Non è proprio la morte, soprattutto quella delle persone a noi care e quella degli innocenti, ad aprire dolorosamente l’interrogativo circa il bene della vita? Se non c’è, infatti, risposta alla morte, se non esiste una luce in grado di dissipare l’ombra della morte, uno scetticismo dalle molte sfumature s’impadronisce di noi. Nessuno può sottrarsi a queste domande. Esse attraversano, senza distinzione, l’esistenza di credenti e di non credenti, incamminati sulla stessa strada. Nell’iniziativa che Gesù prende dopo la cattura di Giovanni, si apre a noi una strada per guardare in faccia la bruciante questione della morte: in prima persona nel territorio intorno a Cafarnao Gesù «incominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino”». E allora «il popolo vide una grande luce» (Matteo, 4, 16-17). «Cristo è morto per noi» (Romani, 5, 8): così Paolo esplicita il cuore abbagliante di questa grande luce.
Celebrare l’Eucaristia nel primo anniversario della dipartita dell’arcivescovo Carlo Maria è un’occasione privilegiata per rendere grazie a Dio del bene compiuto nel suo ministero episcopale. Il suo sguardo appassionato per tutti gli uomini continua ad accendere la speranza «che non delude» (Romani, 5, 5). Non delude perché proviene dall’amore stesso di Dio che gratuitamente si riversa nei nostri cuori. Non viene meno neppure quando siamo «deboli», «peccatori» e «nemici» (cfr. Romani, 5, 6-10). L’arcivescovo Carlo Maria fu indomito portatore di questa «speranza affidabile» (Spe salvi, 1 e 2) che deriva dalla fede incrollabile nella Risurrezione di Gesù. Fra le pagine che il cardinale ha dedicato alla morte e alla risurrezione ve n’è una assai penetrante che narra della straordinaria modalità con cui Gesù appare, risorto, ai suoi. Reincontrando la Maddalena, i discepoli di Emmaus, Pietro sul lago di Tiberiade, Gesù, che avrebbe potuto rimproverarli perché, presi dalla paura, l’avevano in vario modo abbandonato, invece «non giudica il comportamento che hanno avuto, non critica, non condanna, non rinfaccia i ricordi dolorosi della loro debolezza, ma conforta e consola» (Carlo Maria Martini, La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor. Esercizi spirituali, Milano, Bur-Rizzoli, 2004, pag. 166). Consola perché non approfitta «dell’umiliazione altrui per schernire, schiacciare, mettere da parte, ma riabilita, ridà coraggio, ridà responsabilità» (ibidem, pag. 167). Con la luce della sua risurrezione li inoltra, in pienezza di verità, sulla strada di una responsabile novità.
«Nella conversione e nella calma sta la vostra forza» (cfr. Isaia, 30, 15). Il cardinal Martini diceva che per poter partecipare, da poveri uomini, a questa forza di «consolazione regale» propria di Gesù bisogna «avere in sé un grande tesoro, una grande gioia» (La trasformazione, 167). La memoria viva del cardinale si fa per noi questa sera invito ad accogliere, come ci ha detto san Paolo, anche in mezzo alle tribolazioni di varia natura, quella pace che fa fiorire «la pazienza, la virtù provata e la speranza» (Romani, 5, 3-4). Quella offerta a tutti gli uomini dal grande tesoro che è Gesù Cristo morto e risorto è, insiste Paolo, «la speranza della gloria di Dio» (ibidem, 5, 2). Una speranza in forza della quale passato, presente e futuro, inscindibilmente intrecciati dalla misericordia di Dio, formano l’ordito della nostra storia personale, della storia della Chiesa e del mondo. La luce della fede che ci ha portato Gesù (cfr. Lumen fidei, 1) illumina il cammino che la Provvidenza ha donato alla nostra Chiesa. Un’unità che si esprime e risplende nella pluriformità di accenti e di risposte personali alla grazia di Dio.
Significativamente l’arcivescovo Carlo Maria ha dedicato la sua prima lettera pastorale alla preghiera contemplativa. In essa egli definisce l’uomo in questi termini: «Aperto al mistero, paradossale promontorio sporgente sull’Assoluto, essere eccentrico e insoddisfatto» (La dimensione contemplativa della vita, I). Apertura, sporgenza, eccentricità, insoddisfazione: non sono tutte categorie appropriate per descrivere la tensione positiva alla vita e alla vita “per sempre” che inquieta il cuore in ogni uomo rendendolo consapevole di non essere lontano da nessun altro uomo? Non esistono domande autentiche di un uomo che non siano di tutti gli uomini; le “periferie esistenziali” — per usare l’espressione di Papa Francesco — sono innanzitutto i confini della stessa esperienza di ciascuno di noi. La dimensione contemplativa dell’esistenza restituisce l’uomo a se stesso, affermava l’allora arcivescovo di Milano in quella prima lettera pastorale. Questo insegnamento riletto ora, alla fine del suo pellegrinaggio terreno, esprime bene il centro della sua personalità, della sua testimonianza di vita, della sua azione pastorale, della sua passione civile, dell’indomito tentativo di indagare gli interrogativi brucianti dell’uomo di oggi. Per questo la ricca complessità della sua persona e del suo insegnamento continuano a interrogare uomini e donne di ogni condizione. La dimensione contemplativa della vita del cardinal Martini rappresenta l’antefatto, l’orizzonte, il precedente di tutta la sua riflessione e di tutta la sua azione. Ciò che è stato e che viene detto e scritto sulla sua figura, sul suo pensiero e sulla sua opera diventerebbe facilmente unilaterale se non venisse collocato in questa unificante prospettiva.
Al termine della santa messa ci recheremo a pregare sulla tomba del cardinale. Questo gesto che la liturgia chiama di suffragio — con cui onora la memoria dei defunti e offre il sacrificio eucaristico perché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1032) — chiede a ognuno di noi una risposta personale che ci spalanchi al campo che è il mondo intero. È una conversione che ha la forma di un «abbandono confidente» (Isaia, 30, 15). Invochiamo, per intercessione della santissima Vergine Maria, la grazia di un simile abbandono.
L'Osservatore Romano

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L’udienza ai Gesuiti italiani e le parole pronunciate nell’occasione da Papa Francesco avevano acceso fin da ieri l’attenzione sulla figura del cardinale Carlo Maria Martini, del quale si ricorda oggi un anno dalla sua scomprsa. Nel pomeriggio, alle 17.30, il cardinale arcivescovo Angelo Scola presiederà nel Duomo di Milano una solenne celebrazione eucaristica di suffragio. A ricordarne la caratura di vescovo e di studioso è anche il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio della Cultura, che a Milano è stato per lunghi anni prefetto della Biblioteca Ambrosiana. 
R. – A distanza di un anno, si può già incominciare a misurare che cosa abbia significato la presenza di questa figura nell’interno non soltanto dell’orizzonte ecclesiale, ma anche di quello culturale e civile in genere. E ci sono molti elementi che sono già stati messi in luce, che bisognerà comunque, sempre in qualche modo riattualizzare come sua testimonianza.

D. – C’è, in particolare, un elemento dell'eredità lasciata dal cardinale Martini che le sembra particolarmente attuale nella vita della Chiesa?

R. – A dire il vero, io ne ricorderei almeno quattro. Da una parte, la memoria nei confronti della Bibbia, il rimando costante alla Bibbia. Se noi guardiamo la sua bibliografia, sostanzialmente c’è questa specie di piccolo oceano testuale che è composto di commenti spirituali alla Bibbia. Il secondo tema sicuramente rilevante è quello del dialogo, del confronto con le diversità, con la complessità dell’umano: questa è una componente che è stata esaltata anche – dobbiamo dire – dallo stesso Papa Francesco, perché comunque fa parte della necessità che la Chiesa ha, oggi, nel suo confrontarsi con la cultura e con il mondo contemporaneo. Il terzo elemento è proprio quello del suo respiro universalistico. Papa Francesco parla delle periferie: ecco, io direi che il cristianesimo di sua natura è irradiazione che percorre non soltanto le grandi strade della civiltà e anche – se si vuole – della stessa Chiesa, ma percorre anche i bassifondi. C’è un sottobosco, anche, che attende forse delle scintille di luce. E da ultimo, sicuramente, il genere della misericordia, tanto per stare ancora in sintonia con Papa Francesco, che io però declinerei anche come inquietudine dello spirito nei confronti dell’umanità che domanda, che interroga, che spesso si trova desolata e isolata… E in questa luce, certamente, gli ultimi anni del cardinale Martini sono stati significativi, quando si vedeva chiaramente il suo tormento nei confronti del fatto che la Chiesa non sapesse rispondere a tante di queste domande e se rispondeva, non rispondeva con quella necessaria sintonia e, appunto, misericordia.

D. – Quindi, lei è d’accordo sul fatto che la Chiesa del dialogo e della misericordia, così centrale nel magistero di Papa Francesco, abbia delle affinità con l’idea di Chiesa che aveva il cardinal Martini?

R. – Sì, sicuramente, io credo. Anche se ci sono diversità di percorso, perché evidentemente la formazione del cardinale Martini era tendenzialmente una formazione di tipo intellettuale, che però era stata ininterrottamente confrontata con le istanze pastorali. In questa luce, direi che esiste una sorta di sintonia tra i due, attorno a questi temi. Ma c’è anche, poi, nel cardinale Martini questa sua originalità che era affidata anche ad una matrice particolare.

Sul profilo pastorale e intelletuale del cardinale Martini, Fabio Colagrande ha sentito il gesuita padre Giacomo Costa, vicepresidente della Fondazione intitolata al porporato scomparso, presentata ieri a Papa Francesco:

R. – Penso che la figura di Carlo Maria Martini sia stata un dono per tutta la Chiesa e sia importante che questo dono continui a fruttare. Allora, la Fondazione è un po’ in questa prospettiva. Bisogna dire che il cardinale Martini aveva nominato la Provincia dei Gesuiti italiani sua erede e in particolare erede di tutti i suoi scritti, dei suoi diritti di autore. Questo ci ha fatto riflettere: per assumere questa bellissima e molto impegnativa eredità, abbiamo pensato che il metodo migliore fosse una Fondazione. L’idea è quella di raccogliere i suoi scritti, costituire un archivio con tutti i materiali che lo riguardano – un importantissimo patrimonio intellettuale e spirituale – e metterlo a disposizione perché possa essere letto, studiato e quindi fruttificare. Però, qualcosa che non soltanto si limiti a portare avanti il ricordo della persona, ma che continui anche a far vivere lo spirito che ha animato il cardinale: questa attenzione alla Sacra Scrittura, questa cura del dialogo con altri credenti, con persone non credenti… Quindi, la Fondazione porta avanti quello che è lo spirito di Chiesa che ha caratterizzato il cardinale Martini. 

D. – Voi avete annunciato la creazione di questa Fondazione intitolata al cardinale Martini, presentandola a Papa Francesco… 

R. – Certo. Ci sembra veramente importante, perché non si tratta soltanto dell’iniziativa di qualche gesuita e neanche soltanto della Provincia di Italia, ma è una Fondazione che si vuole proprio al servizio proprio di tutta la Chiesa, tanto locale quanto nazionale e universale. Per cui, l'andare da Papa Francesco ha voluto sottolineare questa dimensione di servizio e disponibilità di un qualcosa che non è autoreferenziale, ma che veramente vuole portare un messaggio e uno stile per il servizio di tutte le persone. Penso proprio che l’eredità di Martini possa ancora fare molto per portare avanti anche il progetto di Chiesa di Papa Francesco.
 Radio Vaticana 

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Bose, 31 agosto2013 
In memoria del card. Carlo M. Martini
In occasione del I anniversario dell’esodo pasquale del cardinale Carlo M. Martini riportiamo le parole con cui il priore Enzo Bianchi lo ricorda nell’“Introduzione” al nostro libro in uscita prossimamente: Rowan Williams, Carlo M. Martini, Essere cristiani credibili.
Mi tornavano alla mente le parole della prima lettera pastorale di Martini come arcivescovo di Milano, che egli aveva voluto dedicare a La dimensione contemplativa della vita. Allora qualche zelante collaboratore ambrosiano si era affrettato a minimizzarla, dicendo che il nuovo arcivescovo aveva scelto un tema spirituale buono per tutte le stagioni, per prendersi il tempo di conoscere meglio la diocesi e, solo successivamente, dare indicazioni pastorali più concrete e operative. Invece la storia avrebbe ben presto mostrato che uno dei massimi esperti mondiali di esegesi biblica era profondamente convinto che non solo la sua azione pastorale ma anche, e soprattutto, la vita di fede dei cristiani affidati al suo ministero dipendevano dalla capacità di “mettersi in ginocchio” di fronte al Signore e alla sua Parola, di ascoltarla e leggerla con il cuore, di metterla in pratica nel quotidiano dell’esistenza ... Da queste parole emerge una via maestra per ciascuno di noi: sottomettersi al primato della Parola, sforzarsi quotidianamente di leggere la propria e le altrui vite con lo sguardo di Dio e, da quello sguardo, da quel seguire i pensieri di Dio che non sono i nostri pensieri, sgorga allora l’azione secondo Dio, la bellezza della vita cristiana, la capacità di essere credibili, affidabili, uomini e donne su cui gli altri possono contare per cercare e trovare un senso nelle loro vite. Oggi più che mai vi è necessità di uno sguardo intelligente, capace di vedere oltre, di leggere dentro (intus-legere), c’è bisogno di “conoscenza di sé, di fissare lo sguardo su di sé” e, al contempo, di sostare dinanzi al “mistero della persona, mistero sempre singolare e singolarmente inedito, non sommabile, non raffrontabile”.
R. Williams, C. M. Martini, Essere cristiani credibili