lunedì 30 settembre 2013

1 ottobre. Santa Teresa di Lisieux


Su Teresa di Lisieux vedi in questo blog tutti i post con la relativa etichetta.

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Appena do un’occhiata al Santo Vangelo,
subito respiro i profumi della vita di Gesù
e so da che parte correre… Non è al primo
posto, ma all’ultimo che mi slancio…
Sì lo sento, anche se avessi sulla coscienza
tutti i peccati che si possono commettere,
andrei, con il cuore spezzato dal pentimento,
a gettarmi tra le braccia di Gesù,
perché so quanto ami il figliol prodigo che ritorna a Lui.
Teresa di Lisieux

Mt. 18, 1-4
In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.

Il commento
L’ambizione è sempre figlia dell’insoddisfazione, dell’esigenza insopprimibile di colmare il vuoto che sperimentiamo. Tutto appare sfuggevole e precario, incapace di saziarci. Così si fa strada in noi l’illusione che in una certa grandezza vi sia la possibilità di dare consistenza e certezze alla nostra vita. Essere il più grande, la stessa tentazione che ha sedotto Adamo ed Eva, diventare come Dio, salire più in alto di tutti per decidere in tutta "libertà", dirigere e proteggere la propria vita senza nessuno che la contesti e frustri i nostri desideri. Il più grande in un affetto, al lavoro, nello studio, tra fratelli e amici, nel matrimonio, nella Chiesa. Il più grande per non scomparire e avere spazio nel cuore degli altri. Grandi, per essere cercati, accolti, compresi, apprezzati, ricordati, amati… Anche chi si nasconde nella timidezza cerca la stessa grandezza; spesso ci si sottomette all’evidenza della realtà covando risentimento, e l’apparente umiltà è solo un soprabito indossato per vestire le frustrazioni.

Ma la felicità, la beatitudine, la pace sono regali preparati per i bambini; non importa se capricciosi o irritanti, perché un bambino è amato proprio per la sua piccolezza. Più è debole, goffo e insicuro, più è oggetto di tenerezze e attenzioni. Non si può non amarlo, anche quando sbaglia, cade, urla e strepita o si chiude nel silenzio dei sogni infranti. Santa Teresa di Lisieux lo aveva compreso: Dio cerca, predilige e ama la piccolezza, la nostra realtà senza ipocrisie. Per questo una porta “porta stretta” schiude il passo al Regno dei Cieli. Per entrarvi non sono necessari sforzi e fantasie, le dimensioni di quell’uscio coincidono esattamente con le nostre, quelle “originali” con le quali Dio ci ha creati. Convertirci è, semplicemente, ritornare a quelle misure, al pensiero di Dio su ciascuno di noiquello che avanza non ci appartiene, è falso, fonte di sofferenza e frustrazione. Diventare come bambini, significa dunque aprire senza paura gli occhi su noi stessi e amare la nostra piccolezza, accogliere la storia che con la Croce pota il superfluo. Anche oggi infatti, Gesù ci “chiama a sé”, piccoli “in mezzo” ai tanti grandi secondo la carne, ma i “più grandi” nel suo cuore, il Regno dei cieli così vicino a noi.

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Martedì della XXVI settimana del Tempo Ordinario



Cari amici, siate veramente "angeli custodi"! 
Aiutate il Popolo di Dio, 
che dovete precedere nel suo pellegrinaggio, 
a trovare la gioia nella fede 
e ad imparare il discernimento degli spiriti: 
ad accogliere il bene e rifiutare il male, 
a rimanere e diventare sempre di più, 
in virtù della speranza della fede, 
persone che amano in comunione col Dio-Amore.
Anche oggi Egli ha bisogno di persone che, 
per così dire, gli mettono a disposizione la propria carne, 
che gli donano la materia del mondo e della loro vita, 
servendo così all’unificazione tra Dio e il mondo, 
alla riconciliazione dell’universo. 
Cari amici, è vostro compito bussare in nome di Cristo ai cuori degli uomini. 
Entrando voi stessi in unione con Cristo, 
portare la chiamata di Cristo agli uomini.

Benedetto XVI

Dal Vangelo secondo Luca 9,51-56.

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui Gesù sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme e mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Ma Gesù si voltò e li rimproverò. E si avviarono verso un altro villaggio.


Il commento

La vera libertà implica l'accettare di non essere accettati. Il rimprovero di Gesù è oggi diretto a ciascuno di noi. Siamo così presi dalle nostre cose, dai progetti e dai programmi da non tollerare inciampi, fastidi e trappole. Il rifiuto poi è il boccone più indigeribile. Il Vangelo di oggi ci aiuta, attraverso le dure parole del Signore, a guardare bene alla nostra vita e alla nostra vocazione. Da essa dipendono il cammino e la meta. Chiamati a seguire il Signore non possiamo non condividerne le sorti. La vita di Gesù era orientata decisamente a Gerusalemme. L'urgenza dell'amore lo spingeva al compimento della missione. Non aveva tempo per guardarsi indietro, per compiangersi, per ripensare e dubitare.

Gerusalemme è la Città santa, ma è anche quella che uccide i profeti. La Città della Pace è anche quella del rifiuto. Tre volte all'anno ogni israelita doveva presentarsi davanti a Yahwè facendo di Gerusalemme la Città del pellegrinaggio. Città del culto segnata spesso da ministri del culto corrotti, nella sua storia si è assistito tante volte alla profanazione delle cose sante da parte di quanti erano stati scelti, in campo religioso e politico, ad esserne guardiani e amministratori. La Santa diviene la Prostituta. Gerusalemme è immagine della contraddizione inestricabile che, a causa del peccato originale, caratterizza ogni uomo. "Esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo: "C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (Rom. 7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto. Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una "seconda natura" che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa seconda natura fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: "questo è umano" ha un duplice significato. "Questo è umano" può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma "questo è umano" può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano.Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi. La questione è: come si spiega questo male? La fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivereQuesto è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso... neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 nella Vulgata). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fattoDio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte" (Benedetto XVI, Catechesi del 3 dicembre 2008). 

Gerusalemme riassume in sé questo mistero di luce e tenebre. Il profeta Ezechiele ebbe questa visione: "Vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente... che scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell'altare... Ne misurò altri mille: era un torrente che non potevo attraversare, perché le acque erano cresciute; erano acque navigabili, un torrente che non si poteva passare a guado. Allora egli mi disse: «Hai visto, figlio dell'uomo?». Poi mi fece ritornare sulla sponda del torrente; voltandomi, vidi che sulla sponda del torrente vi era una grandissima quantità di alberi da una parte e dall'altra. Mi disse: «Queste acque scorrono verso la regione orientale, scendono nell'Araba ed entrano nel mare: sfociate nel mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché dove giungono quelle acque, risanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà. Lungo il torrente, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina" (Ez. 47, 1-12). Dal Tempio, da Gerusalemme Dio ha fatto scaturire la guarigione; da quella Gerusalemme che aveva tradito, che aveva pervertito e adulterato, dall'abbondanza del peccato Dio ha fatto realmente sovrabbondare la Grazia. Nella contraddizione ha fatto scaturire la sorgente di puro bene che risolve ogni contraddizione; purificando il cuore dall'idolatria lo ha sanato conferendogli quell'unità, quel principio capace di orientare la vita secondo giustizia e verità. 

Immerso in questa ed altre profezie simili, Israele viveva Gerusalemme come il luogo della Presenza di Dio, della sua fedeltà più forte di ogni peccato. In Gerusalemme si scontravano l'altissima vocazione dell'uomo e la sua reale capacità di distruggersi nel modo più abietto; l'esilio, la lontananza e la nostalgia struggente di Gerusalemme sono immagine di ogni cuore esiliato dalla Verità. Dimenticare Gerusalemme, la presenza di Dio, era peggiore che vedersi seccare la mano, paralizzarsi la lingua: "Se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia!" (Sal. 137). La comunione con Dio nella contraddizione dell'esistenza, la speranza di un amore che varchi i confini della carne, tutto questo era, in fondo Gerusalemme. I pellegrinaggi annuali per le grandi feste non erano altro che un rientrare, attraverso la memoria liturgica, in questo fiume di guarigione che scaturiva dalla Città santa. Per questo Gerusalemme era, soprattutto, profezia dell'incarnazione, l'evento più imprevedibile, lo sgorgare improvviso e stupefacente, del fiume di salvezza che avrebbe risolto, per sempre, le contraddizioni: Dio stesso entrava, con una carne simile a quella di ogni uomo, nella storia, sino al fondo delle sue contraddizioni. 

Così in Gerusalemme emerge lo stesso contrasto che provoca la persona di Gesù: vero uomo e vero Dio. L'Altissimo, che nessuno spazio - neanche il Cielo - può contenere, fattosi tanto piccolo da abitare in una Città concreta, nello spazio angusto di un Tempio, e, in esso, in un'Arca di dimensioni ridottissime. Gesù, Tempio nuovo e definitivo, presenza di Dio tra gli uomini, che non cessa d'essere un uomo, capace di segni prodigiosi, ma pur sempre, agli occhi carnali, un semplice uomo, di cui si conoscono le origini e la storia. 

In questa luce si comprende il Vangelo di oggi: il pellegrinaggio di Gesù è già il compimento del disegno di Dio; Gesù ne aveva conversato con Mosè ed Elia nella trasfigurazione, erano i giorni della sua elevazione. Non si tratta solo della Croce e della risurrezione: l'elevazione-esodo di Gesù inizia a compiersi proprio nel viaggio a Gerusalemme, il viaggio del profeta che doveva morire a Gerusalemme. L'elevazione di Gesù, il cuore della sua missione è una profezia, l'ultima, la decisiva e definitiva. Le sue parole e gli avvenimenti che lo attendono sono tutti parte della profezia di Dio sulla storia e sull'uomo, una profezia di misericordia e di amore. Per questo Gesù rende saldo il volto, con lo sguardo puntato irrevocabilmente al compimento dell'opera del Padre, come il profeta ed il servo incamminati sul sentiero dell'obbedienza. Uno sguardo di pietra pronto a ricevere insulti e rifiuti, sputi e bestemmie; uno sguardo colmo di una misericordia illimitata, decisa a salvare ogni uomo.  

Gerusalemme è il luogo dove la profezia troverà il suo compimento. Per questo la Presenza di Dio consiste nella sua stessa opera, le meraviglie compiute nella storia, frammenti divini spalmati sullo scorrere dei giorni; eventi inafferrabili, sempre sfuggenti e profetici, parole vive che chiamano e mettono in cammino verso un altro luogo, misterioso ma reale, come è stato per Abramo, per Mosè, per Elia, per Gesù. La presenza di Dio è deposta nell'esperienza, l'autentico luogo dell'incontro. Gerusalemme è dunque essenzialmente un'esperienza, un avvenimento che si ripete, identico nella sostanza ma diverso nella forma, che muta a seconda delle vicende della storia.Gerusalemme è una porta dischiusa sul Cielo, sulla Gerusalemme celeste patria definitiva di ogni uomo. Secondo la tradizione ebraica erano legati a Gerusalemme la creazione di Adamo e il sacrificio di Isacco al Monte Moria: profezie che si sarebbero compiute nel nuovo Adamo tentato in un giardino e, come Isacco, legato ad un legno. A Gerusalemme la stessa tradizione fissava il luogo del sogno di Giacobbe,  quando, "addormentato sulle pietre riconciliate e riunite" (Gen R 68), aveva visto "la scala dalla terra fino al cielo" (Gen. 28,10-22), la croce che avrebbe dischiuso il Regno al Figlio di Dio.  

La scala che conduce al Cielo affonda le sue radici anche nel villaggio di Samaritani del Vangelo di oggi, ebrei eretici che guardavano Gerusalemme e il suo tempio come lo scandalo più grande. Mistero Pasquale di Cristo non è avvenimento di un istante circoscritto, è un pellegrinaggio, una salita-elevazione verso e attraverso Gerusalemme, ha una storia, passa per villaggi e incontri, relazioni; laPasqua, come prescritto nella tradizione ebraica, esige dei preparativi, profetizzati anch'essi nella lunga storia di Salvezza inaugurata, non a caso, da un pellegrino, Abramo partito in obbedienza alla parola di Dio. 


Ma la Pasqua di Cristo, affinchè sia un'opera che raggiunga concretamente ogni uomo, esige anche uomini scelti per annunciarla e realizzarne la preparazione. Angeli inviati davanti al volto di Gesù, come recita l'originale greco. "Nell’antica Chiesa – già nell’Apocalisse – i Vescovi venivano qualificati "angeli" della loro Chiesa... Da una parte, l’Angelo è una creatura che sta davanti a Dio, orientata con l’intero suo essere verso Dio. Tutti e tre i nomi degli Arcangeli finiscono con la parola "El", che significa "Dio". Dio è iscritto nei loro nomi, nella loro natura. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui. Proprio così si spiega anche il secondo aspetto che caratterizza gli Angeli: essi sono messaggeri di Dio. Portano Dio agli uomini, aprono il cielo e così aprono la terraProprio perché sono presso Dio, possono essere anche molto vicini all’uomo. Dio, infatti, è più intimo a ciascuno di noi di quanto non lo siamo noi stessi. Gli Angeli parlano all’uomo di ciò che costituisce il suo vero essere, di ciò che nella sua vita tanto spesso è coperto e sepolto. Essi lo chiamano a rientrare in se stesso, toccandolo da parte di Dio. In questo senso anche noi esseri umani dovremmo sempre di nuovo diventare angeli gli uni per gli altri – angeli che ci distolgono da vie sbagliate e ci orientano sempre di nuovo verso Dio... L'amore di Cristo, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite. Come all'Arcangelo Raffaele, al sacerdote è affidato il compito di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere "l’angelo" risanatore" (Benedetto XVI, Cappella papale per l'Ordinazione di nuovi Vescovi, 29 settembre 2007).

Non solo i Vescovi e i presbiteri è riservata questa missione. In virtù del battesimo ciascun cristiano è un angelo chiamato a vivere nell'intimità con Dio per annunciarla ad ogni uomo. Come Santo Stefano, il cui volto appariva ai suoi assassini trasfigurato come quello di un angelo, anche il nostro volto è modellato perchè in esso sia impresso lo stesso volto di Cristo, rivolto decisamente verso Gerusalemme. Ciascuno di noi è un messaggero inviato dinanzi al Signore a fare i preparativi per lui. La nostra vita è un po' come quella di chi appartiene allo staff di un Presidente. Inviati prima di una sua visita ufficiale, i membri dello staff hanno il compito di "bonificare" l'area - setacciare ogni angolo alla ricerca di eventuali pericoli -; organizzare la visita preoccupandosi della logistica, degli orari, di ogni particolare. Per realizzare il compito è necessaria una profonda conoscenza del Presidente, delle sue abitudini, del suo modo di fare, dei suoi obiettivi. Così anche la vita dei messaggeri del Signore presuppone una sua profonda conoscenza, unita ad una totale condivisione della sua missione. Occorre immergersi nella realtà alla quale si è inviati, bonificando l'area annunciando la Verità senza ipocrisie e compromessi; soprattutto, non si possono nascondere identità e missione del Signore. Lui va a Gerusalemme.

La missione di Gesù consiste essenzialmente nell'essere rifiutato e nel prendere su di sé il rigetto. Per salvare ciò che è perduto deve perdere se stesso. E' esattamente ciò che appare nel Vangelo di oggi. Chi è diretto a Gerusalemme, al Tempio ma anche alla Croce, è rifiutato. Questo il destino di Cristo e di chi ne prepara la Pasqua, come è stato per Giovanni Battista. La Croce è lo scandalo e l'idiozia indigeribile al mondo e alla nostra povera carne. Spesso ci ribelliamo come i discepoli, e mostriamo di non aver compreso a cosa siamo stati chiamati. Vorremmo bruciare ogni ostacolo, ogni eretico, ogni male; mistifichiamo, come gli apostoli, la profezia di Elia che distrusse l'idolatria per mostrarne la menzogna, mentre noi vorremmo solo la scomparsa del male e dei malfattori, dimenticando le ferite originali che porta ogni uomo. "Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza... Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini" (Benedetto XVI, Omelia di inizio pontificato). 

E Gesù si volta anche oggi, ci fissa, e, con amore, orienta nuovamente il nostro cammino sulle sue stesse orme luminose di libertà. Essere angeli del Signore è infatti annunziare con libertà la libertà. Messaggeri della Buona Notizia presente nella loro vita. Angeli che incarnano Dio stesso, come quelli apparsi a Mambre annunciando ad Abramo la vittoria della vita sulla morte. Siamo gli angeli che cercano ognihametz, ogni lievito vecchio nascosto nella vita degli uomini, perchè si compia la Pasqua del risanamento di ogni contraddizione. Angeliche, con libertà, passano attraverso gli episodi di rifiuto di ogni giorno, bonificando, sanando e salvando ogni luogo e ogni uomo, nell'attesa che Cristo compia l'opera donando a tutti la sua stessa Vita.

Il primo tassello del Grande califfato


di Leone Grotti
«Noi non vogliamo capire che l’islam moderato non esiste, che la Primavera  araba è finita e che la sua nuova fase consiste nel progetto islamista e  jihadista di costruire il Grande califfato islamico. Neanche a dirlo, il  principale ostacolo alla sua costruzione siamo noi».Domenico Quirico, inviato della Stampa,  rapito in Siria e rimasto nelle mani dei ribelli per cinque mesi, riassume in  una grande «dichiarazione di guerra» dell’islam all’Occidente gli attentati in SiriaPakistanNigeriaEgitto e Kenya a cui stiamo assistendo in questi  giorni. Domani sera Quirico sarà a Milano per un incontro organizzato dal Cmc e  a tempi.it racconta «quello che ci sfugge, perché ci fa comodo far finta di non  vedere».
Cos’è che non vogliamo vedere?Che esiste un jihadismo  internazionale che ha dichiarato guerra all’Occidente, strutturato militarmente  e con un progetto politico che viene sistematicamente messo in atto in diverse  parti del globo.
Qual è il loro obiettivo?
Ricreare il Grande califfato  islamico del sesto secolo, che è stato il momento di massima espansione militare  e politica dell’islam nel mondo. Allora, andavano dall’Europa all’Asia. È chiaro  quindi che il principale ostacolo nella costruzione di questo progetto politico  siamo noi.
domenico-quirico-tempi-copertina (1)Ma Al Qaeda non stava perdendo terreno?Le cose sono cambiate. Al Qaeda oggi propone una sfida molto radicale:  costruire uno Stato islamico che faccia da nucleo per un successivo sviluppo  militare e politico che inglobi il Medio Oriente, il Maghreb, il Sahel e arrivi  fino alla Spagna.
La Spagna?Sì, è considerata terra musulmana da  riconquistare. E tutto questo viene detto con grande chiarezza e sincerità. Non  sono trame oscure che si muovono nella testa di qualche nostalgico del Medioevo,  è un progetto politico preciso che ha armi, eserciti e soldi. E che si sta  realizzando a partire dalla Siria.
In un articolo ha definito l’Occidente «debole e brutale». Perché?Perché alterniamo una vigliaccheria che ci contraddistingue  da decenni a momenti di apparente energia come l’intervento franco-inglese in  Libia. Prendiamo la Siria: siamo passati dall’immobilismo, quando intervenire  sarebbe stato politicamente intelligente ed eticamente obbligatorio, cioè quando  la rivoluzione era ancora laica e democratica e non islamica, a progetti  totalmente idioti come quello degli Stati Uniti di Obama di bombardare  l’esercito di Assad, dando così ad Al Qaeda l’unica cosa che ancora gli manca:  l’aviazione.
pakistan-cristiani-attentato-chiesaPakistan, Nigeria, Egitto, Kenya: gli  attentati terroristici si moltiplicano dovunque.Questa nuova “internazionale islamica” è in grado di spostarsi su tanti fronti nuovi con  grande rapidità.
Perché all’Occidente sfugge questo progetto politico?Ci  sfugge perché ci fa comodo far finta di non capire. Se noi capissimo la natura  del problema, dovremmo prendere decisioni pratiche e siccome le classi dirigenti  dell’Occidente alternano vigliaccheria a momenti di totale obnubilamento  mentale, ci attacchiamo come ostriche allo scoglio di questa illusione adatta  per i conventi e i salotti televisivi.
Che tipo di illusione?Quella secondo cui l’islam  radicale sarebbe un’appendice secondaria di pochi pazzi che girano il mondo per  esercitare la loro follia mentre invece l’islam è tollerante, illuminista,  pronto ad accogliere le novità che gli porge l’Occidente come internet o  Facebook. E noi non ci accorgiamo che invece l’islam moderato ed educato che ci  piace tanto è una piccola percentuale di élites collegate all’Occidente. Mentre  la maggioranza è un’altra cosa.
Parla per esperienza personale?
I signori che ho  incontrato in Siria erano tutti giovani ragazzi, certamente non folli di Dio che  stavano tutto il giorno a salmodiare nelle moschee, ma che sapevano fare la  guerra e avevano un progetto politico preciso.
Mideast EgyptEppure la cosiddetta Primavera araba aveva  suscitato grandi speranze.La Primavera araba è un periodo che i  giornalisti possono ormai consegnare agli storici. È definitivamente tramontata.  Siamo in una seconda fase che deriva dalla Primavera araba ma che non è più  quella dei giovani di piazza Tahrir o di Avenue Bourghiba. L’islamismo ha  raccolto il loro testimone e intelligentemente ha preso l’eredità di qualche  cosa che non ha contribuito a costruire, perché bisogna ricordare che gli  islamici non hanno partecipato alle rivoluzioni né in Egitto, né in Tunisia né  tantomeno in Libia o in Siria.
Ora invece?Ora invece Al Qaeda è la forza maggiore e  meglio armata sul territorio e ha cancellato il Free Syrian Army, che  raggruppava i rivoluzionari veri. Oggi la Primavera araba si è trasformata nel  progetto del Califfato, anche per colpa dei governi occidentali che prima hanno  sostenuto le dittature e poi sono stati sorpresi dal movimento rivoluzionario e  hanno cercato di fare una conversione ipocrita di 360 gradi.
siria-ribelli-terrorismo-islamAssad è un brutale dittatore, i ribelli  hanno dimostrato di non poter garantire un futuro democratico alla Siria. Che  cosa può fare adesso l’Occidente?Non credo che ora sia possibile e  intelligente dal punto di vista politico intervenire in alcun modo in Siria. Il  regime è inaccettabile, mentre la nuova rivoluzione non è altro se non  jihaidsimo e banditismo, perché ci sono gruppi di criminali che non hanno alcuna  ideologia se non quella di riempirsi le saccoccie con estorsioni. Bisogna vedere  se il regime avrà le forze necessarie per contenere lo jihadismo, che è ancora  possibile.
Ma i ribelli non stanno avanzando?I giornali scrivono  curiose storie sul fatto che la rivoluzione avanza ovunque, ma la verità è che  Assad controlla ancora le grandi città e finché è così resisterà, anche grazie  ai suoi potenti appoggi internazionali.
Lei ha detto che l’islam moderato non esiste: un’affermazione molto  poco politically correct.Noi vogliamo credere all’islam  moderato. Io ho girato tutte le rivoluzioni arabe dal 2011 ad oggi. Quando  facevo il corrispondente da Parigi ho trovato moltissimi islamisti moderati che  possono andare in televisione a fare dibattiti strappando applausi e facendo  commuovere la platea. Poi sono andato sul terreno e ho trovato ben altra realtà.  In fondo, è come il bolscevismo.
Cioè?Ha mai conosciuto un bolscevico moderato? No,  perché non esiste in natura. Uguale per l’islam.
Un islamista moderato non può esistere?Esatto, perché  l’islam è una religione totalizzante e guerriera. Dobbiamo dirlo chiaro: è nata  con le guerre di Maometto e ha nella lotta e nella conversione uno dei principi  fondamentali del suo esistere. Anche quando diventasse una religione moderata e  illuminista non sarebbe più islam, ma un’altra cosa.

A Mosca non basta la dedizione





La Chiesa ortodossa russa punta sulla formazione dei futuri sacerdoti. 

(Giovanni Zavatta) Non basta avere dedizione, curiosità e passione, o il desiderio di apprendere le lingue straniere, e non è sufficiente la segnalazione del proprio vescovo o del rettore del seminario per ricevere un’attenzione particolare: occorre rispondere alle attese precise della Chiesa ortodossa russa, essere utile alla sua missione, avere una prospettiva concreta dopo la fine degli studi, ricompensare gli sforzi e i mezzi finanziari profusi.«La Chiesa ha bisogno di ministri ben formati, di giovani istruiti. Una buona formazione, una visione allargata del mondo, l’erudizione, la padronanza delle lingue straniere, la conoscenza dell’evoluzione della società e della cultura s’impongono come qualità indispensabili fra i giovani che desiderano servirla». Perché il primate Cirillo auspica una crescita del livello generale della nuova generazione di preti, e anche di laici, che servono la Chiesa ortodossa. In un’intervista pubblicata di recente sul sito on line del seminario ortodosso russo in Francia, lo ieromonaco Ioann (Kopeikin), segretario della Commissione per lo scambio di studenti del patriarcato di Mosca, si sofferma su un obiettivo sempre più prioritario per gli ortodossi russi, quello della collaborazione con le università straniere, delle prospettive per i seminaristi che studiano all’estero e dell’accoglienza degli allievi stranieri in Russia.
La Commissione per lo scambio di studenti, della quale è presidente il metropolita di Volokolamsk, Hilarion, è stata creata nel 2012 su iniziativa del patriarca Cirillo. Ne fanno parte il presidente del Comitato pedagogico, rappresentanti del Dipartimento per le relazioni esterne, della scuola di dottorato «Santi Cirillo e Metodio» e delle accademie di teologia di Mosca e di San Pietroburgo. Il principale compito della commissione è di coordinare lo scambio degli studenti (attualmente una settantina quelli russi) che fanno già parte dell’attività ecclesiale all’estero, sviluppata in particolare negli ultimi vent’anni. Se prima dell’istituzione dell’organismo tale scambio era possibile grazie ai rapporti internazionali tenuti dal Dipartimento per le relazioni esterne, alla cooperazione scientifica prestata dall’università «San Tikhon» di Mosca e alle conoscenze personali di singoli vescovi, adesso l’approccio è divenuto più organico, strategico, desideroso di risultati concreti.
La Chiesa, su impulso del patriarca Cirillo, ha il dovere di essere sempre più presente nella società e quindi nella cultura, nell’insegnamento, nella scienza, nei dibattiti pubblici, nei media. Ma per promuovere lo sviluppo delle istituzioni ecclesiali a tutti i livelli, servono specialisti formati allo scopo. Da qui — spiega Ioann — la collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, con l’Università cattolica di Friburgo, in Svizzera, con istituti di Amsterdam e Budapest, con l’università di Oxford, in Inghilterra, con le scuole teologiche irlandesi (decisivo in questo caso il sostegno dell’arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin), con gli atenei parigini grazie al seminario ortodosso russo di Épinay-sous-Sénart, con la facoltà di teologia e scienze religiose dell’Università cattolica di Lovanio, in Belgio, con facoltà di teologia ortodossa in Grecia, Polonia, Serbia, Romania, con il seminario «San Vladimiro» di New York e la sua importante casa editrice. Particolarmente fruttuoso il lavoro con l’università di Friburgo, della quale è rettore padre Guido Vergauwen, primo ateneo a siglare una convenzione con la scuola di dottorato del patriarcato di Mosca che consente ai suoi iscritti di studiare nei due istituti contemporaneamente, seguendo un programma comune; alla fine dei corsi, essi sostengono una tesi in una delle facoltà ottenendo due diplomi, uno di valore europeo, l’altro ecclesiastico. Un esempio concreto di ecumenismo. Va inoltre ricordato che, in Italia, la Chiesa cattolica mette ogni anno a disposizione borse di studio in favore dei dottorandi del patriarcato di Mosca che completano la loro formazione teologica nelle università e negli istituti romani. E che la cooperazione in materia di formazione teologica e di scambio di studenti è uno dei principali argomenti dei frequenti incontri fra il metropolita Hilarion e il presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, cardinale Kurt Koch.
Sono tre le linee direttrici indicate nell’intervista dallo ieromonaco segretario: il grande bisogno di dirigenti nelle scuole teologiche e nelle istituzioni scientifiche, amministrative e sociali della Chiesa; la presenza nelle università straniere di docenti esperti, specializzati nei campi che più interessano al patriarcato (patristica, teologia liturgica, fondamentale e sociale, ecclesiologia, diaconia); il fatto di poter contare su una riserva di candidati capaci e motivati.
Secondo la Commissione per lo scambio di studenti conta, oltre alla buona formazione, la futura capacità di essere dei bravi amministratori, specialisti nelle relazioni con la società, missionari. È personalmente il metropolita Hilarion a seguire il percorso di studi di ciascun allievo e sarà cura della Commissione, al termine, indirizzarlo verso il ministero più adeguato alle sue capacità e aspettative.
Lo scambio è reciproco. Attualmente sono più di cinquanta i giovani stranieri che studiano nella scuola «Santi Cirillo e Metodio» e nelle accademie di teologia di Mosca e di San Pietroburgo. Vengono da Finlandia, Polonia, Slovacchia, Bulgaria, Serbia, Macedonia, Grecia, Cipro, Germania, Stati Uniti, Giappone, Filippine, Cina. All’inizio i programmi prevedono corsi di lingua russa ma anche visite ai musei e ai monumenti storici delle principali città, perché «la formazione all’estero offre allo stesso tempo la conoscenza di tradizioni e culture differenti e legami di amicizia con professori e colleghi».
Il luogo del ministero del prete — ha detto il patriarca di Mosca nel corso di una recente visita alla diocesi di Khanty-Mansiysk — non è solo la chiesa: «Un tempo, quando tutti erano credenti, il prete si raccoglieva in parrocchia, il campanaro suonava e i fedeli venivano a pregare. Ma oggi viviamo in un’epoca» dove non è più così. «Lavorate senza sosta», ha aggiunto rivolgendosi ai sacerdoti e invitandoli ad agire in stretta collaborazione con la società, i personaggi della cultura, i docenti, con tutti coloro che hanno un’influenza sulla formazione dell’uomo contemporaneo. «Siete giovani, pieni di energia, istruiti. Non vi lasciate andare, mai. Non c’è posto per l’ozio né per l’appagamento».
L'Osservatore Romano

Dialogo, conversione e povertà a servizio della pace.

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Tre Papi ad Assisi

(Ugo Sartorio) Tra i gesti memorabili del pontificato di Giovanni Paolo II figura di certo la giornata di preghiera ad Assisi del 27 ottobre 1986. Qui il concilio è stato interpretato creativamente grazie a uno stile di vicinanza senza precedenti tra diverse religioni. In questo modo il Papa polacco ha fatto fare un balzo in avanti impensato al dialogo tra le fedi. La nuova consapevolezza è una e una sola: Dio non ha che una passione e un’unica parola: la pace. Non deve essere invocato per legittimare guerre o violenze.Da allora, Assisi non solo si è ripetuta — come nel 1993, con la preghiera per la pace nei Balcani, e nel 2002, con la convocazione dei capi delle religioni dopo l’attentato alle Torri gemelle — ma si è dilatata. Il capolavoro di un giorno è diventato benedizione per tutti perché la forza debole della preghiera è potente di fronte a Dio e chiama in causa ogni popolo.
Se dalla metà degli anni Ottanta sino agli inizi degli anni Novanta si attenua la contrapposizione tra Est e Ovest che aveva caratterizzato gli anni della Guerra fredda, e se nell’ultimo decennio del secolo si contano numerose e sanguinose guerre con oltre cinque milioni di morti e sei di feriti in conflitti regionali anche molto cruenti, il primo decennio del nuovo millennio è segnato dal terrorismo e dalla ricerca di nuove forme di convivenza. Tutti eventi che sono stati accompagnati dalla speciale preghiera nata da Assisi.
Con un fenomeno che negli anni si è fatto via via sempre più vistoso: mentre si può dire che nel 1986 la tesi della secolarizzazione radicale intesa come recessione delle religioni andava per la maggiore, il venticinquennio successivo porterà le religioni alla ribalta della storia mondiale, nel bene e nel male, spingendo molti a parlare di de-secolarizzazione e di età post-secolare. Il ruolo di primo piano delle religioni è da intendere, naturalmente, non come privilegio da cavalcare, ma piuttosto come maggiore responsabilità verso le sorti comuni, sempre più comuni, del pianeta, per scongiurare lo «scontro di civiltà» paventato da alcuni.
Il rapporto di Benedetto XVI con Assisi e con il suo figlio più illustre, san Francesco, è personale, intimo, quasi viscerale. Se per Giovanni Paolo II Assisi è soprattutto luogo di incontro tra alterità religiose e quindi di dialogo, Papa Benedetto è affascinato dal tema della conversione di Francesco, dalla radicalità evangelica di questa figura singolare nella storia della Chiesa. La lettura dei 111 discorsi e interventi dove si fa riferimento al santo di Assisi nei primi sei anni di pontificato (cfr. Benedetto XVI e san Francesco, a cura di Gianfranco Grieco, Città del Vaticano, Libreria Editirice Vaticana - Unione Conferenze Provinciali d’Italia, 2011) restituisce questa impressione in modo esplicito.
Inoltre, non è da seguire la strada di chi intende contrapporre il magistero di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI, dal momento che disponiamo di testimonianze inequivocabili che attestano l’apprezzamento del Papa tedesco nei confronti dell’iniziativa del suo predecessore, come in occasione del ventennale: «L’iniziativa promossa vent’anni or sono da Giovanni Paolo II assume il carattere di una puntuale profezia. Il suo invito ai leader delle religioni mondiali per una corale testimonianza di pace servì a chiarire senza possibilità di equivoco che la religione non può che essere foriera di pace». E ancora: «A nessuno è lecito assumere il motivo della differenza religiosa come presupposto o pretesto di un atteggiamento bellicoso verso altri esseri umani». Certamente a Benedetto XVI sta a cuore il dialogo tra le religioni come «dialogo della verità», per vivere il quale non si possono fare sconti sull’identità, perché è convinto che parlare della verità della fede sia dovere e non presunzione.
Questa convinzione non gli ha però impedito, nella giornata del 27 ottobre 2011, di rilanciare con decisione la preghiera di Assisi. Con una novità che ha favorevolmente colpito, vale a dire il coinvolgimento, accanto ai rappresentanti delle confessioni cristiane e delle religioni, di non credenti in ricerca, in conseguenza dell’intuizione che — due anni prima — aveva fatto nascere nella Chiesa l’iniziativa del Cortile dei gentili affidata alla cura del dicastero romano per la cultura. Si può dire che da Benedetto XVI in poi le parole di Assisi risuonano, oltre che per gli uomini di ogni religione, anche per chi non crede o fatica a credere, perché la pace è bene di tutti e da tutti va difeso e promosso.
Oltre ai discorsi pronunciati durante il suo pontificato, gioca a favore della tesi dell’interesse preponderante di Benedetto XVI per il tema della conversione, paradigmatico in Francesco d’Assisi, il fatto che il 17 giugno 2007 egli abbia voluto iniziare la sua visita ad Assisi dal santuario del Sacro Tugurio a Rivotorto — oltre un secolo e mezzo dopo Gregorio XVI, che vi aveva sostato il 24 settembre 1841 — chiedendo esplicitamente di essere accompagnato all’antica chiesetta di Santa Maria Maddalena, il luogo dove, con tutta probabilità, agli inizi del Duecento sorgeva il lebbrosario nel quale Francesco maturò di cambiare vita servendo gli esseri più derelitti ed emarginati del suo tempo. Il riferimento al luogo dove erano segregati i lebbrosi e in cui scaturì la prima e decisiva conversione di Francesco sarà come un’eco che accompagnerà quel giorno tutti i discorsi del Papa.
Il legame tra Papa Bergoglio e il santo di Assisi è fissato, irrevocabilmente, nel nome scelto dal primo Pontefice sudamericano per lo svolgimento del ministero petrino. Una scelta sorprendente, che ha fatto discutere suscitando enormi aspettative. Papa Francesco, però, non guarda il santo attraverso le lenti di un romanticismo alla moda, ma vede il lui il grande riformatore della Chiesa attraverso la scelta radicale della povertà e ancor più concretamente dei poveri. Dialogando, da cardinale, con il rabbino Abraham Skorka, egli afferma: «Nella storia della Chiesa cattolica, i veri rinnovatori sono i santi. Sono loro i veri riformatori, quelli che cambiano, che trasformano, che sviluppano e risuscitano il cammino spirituale. Francesco d’Assisi ha apportato al cristianesimo una nuova concezione della povertà in opposizione al lusso, all’orgoglio e alla vanità dei poteri civili ed ecclesiastici dell’epoca. Ha sviluppato una mistica della povertà e della privazione, e ha cambiato la storia».
Se una delle espressioni più citate dal nuovo Pontefice è «periferie», con accezione larga, non è difficile comprendere la sintonia con il santo che scelse come emblema del suo ordine la minorità, raggiungendo tutti nella loro propria condizione per annunciare, prima con l’esempio e poi con la parola, il Vangelo che salva. Per incontrare gli ultimi, Francesco si fece uno di loro, sottomettendosi a tutte le creature, animate e inanimate, la qual cosa gli permise di realizzare una fraternità senza frontiere. «A me piace usare l’espressione “andare verso le periferie”, le periferie esistenziali. Tutti, tutti quelli, dalla povertà fisica e reale alla povertà intellettuale, che è reale, pure. Tutte le periferie, tutti gli incroci: andare là. E là, seminare il seme del Vangelo, con la parola e con la testimonianza» ha detto il Pontefice il 17 giugno inaugurando il convegno della diocesi di cui è vescovo. Inclusione per tutti, a partire dai lontani e dagli esclusi, dai migranti e richiedenti asili, com’è accaduto a Lampedusa e al Centro Astalli di Roma.
Su Francesco d’Assisi la convergenza con Benedetto XVI è facilmente individuabile nell’enciclica Lumen fidei, nella quale Papa Francesco «assume il prezioso lavoro» (n. 7) del predecessore con suoi contributi. «La luce della fede non ci fa dimenticare le sofferenze del mondo. Per quanti uomini e donne di fede i sofferenti sono stati mediatori di luce! Così per san Francesco d’Assisi il lebbroso» (n. 57). Il tema della conversione, che sta molto a cuore a Benedetto XVI, si coniuga con quello dell’incontro con gli ultimi, caro a Papa Francesco.
Come Giovanni Paolo II, anche il suo attuale successore ha la chiara visione di una pace mondiale alla quale le religioni nel rispetto e nell’esercizio della propria identità — «Fede e violenza sono incompatibili» ha detto all’Angelus del 18 agosto — possono e devono contribuire, e lo ha dimostrato indicendo una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Siria, ma l’attenzione ai poveri e quindi alla giustizia globale è un dato che ritorna e fa la differenza. E nella lettera del 4 settembre scritta a Putin che presiedeva il G20, Papa Francesco parla della pace nel contesto di una nuova economia «in grado di consentire una vita degna a tutti gli esseri umani».
Molto possono anche le religioni in questa prospettiva. Il 25 luglio, intervistato dall’emittente brasiliana Rede Globo a Rio de Janeiro, Papa Francesco ha detto: «Credo che le religioni, le diverse confessioni — mi piace di più parlare di diverse confessioni — non possono andare a dormire tranquille finché ci sarà anche un solo bambino che muore di fame, un solo bambino senza educazione, un solo giovane o anziano senza un’assistenza medica. Ma il lavoro delle religioni, delle confessioni, non è beneficenza. È vero. Per lo meno nella nostra fede cattolica, nella nostra fede cristiana, saremo giudicati per queste opere di misericordia». L’attenzione ai poveri è dare credito allo sguardo amorevole di Dio che ha deciso, da sempre, di amare tutti a partire dagli ultimi, per non dimenticare nessuno.
Nel viaggio ad Assisi di Papa Francesco non potrà non risuonare ancora una volta quel «Francesco, va’ e ripara la mia casa» che ha scaldato il cuore di milioni di giovani sul lungomare di Copacabana il 27 luglio, insieme al richiamo alla radicale scelta di povertà che ha reso Francesco fratello universale, all’ultimo posto e per questo vicino a tutti. Ma vi è anche un tratto sociale e culturale che probabilmente emergerà, in linea con quanto mette in evidenza Giorgio Agamben, acuto interprete del santo di Assisi: «L’“altissima povertà” di Francesco, col suo uso delle cose, è la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell’Occidente sono giunte alla loro consumazione storica». Non siamo forse oggi, otto secoli dopo, allo stesso punto da cui Francesco d’Assisi è partito? Non abbiamo bisogno di una ripartenza, di ripensare un paradigma economico che ci ha portato al collasso? Non si invoca da ogni parte un nuovo ordine sociale che non si regga sulla cultura dello scarto?
Molto interessante, in proposito, è quanto scrive Joseph Ratzinger, nella sua tesi post-dottorale sulla teologia della storia in san Bonaventura, discussa nel febbraio 1957: «Nella Chiesa del tempo ultimo si imporrà il modo di vivere di san Francesco che, in qualità di simplex e idiota, sapeva di Dio più cose di tutti i dotti del suo tempo, poiché egli lo amava di più». Il tempo ultimo non è il tempo che verrà, un futuro indefinito che un giorno, chissà quando, ci sarà dato da vivere. Il tempo ultimo è il presente attraversato dall’oggi di Dio, da una possibilità sempre nuova di schierarsi dalla parte del Vangelo e delle sue beatitudini.
Il segreto di Francesco, semplificato al massimo, consiste proprio nel suo attaccamento al presente che gli permette di cogliere senza esitazione le risorse di grazia che sono nascoste in ogni vicenda umana e in ogni frammento del creato. Questa è la peculiarità con cui lo sguardo francescano si posa su ogni uomo e su ogni cosa, con fraternità e simpatia, creando legami con tutti, lanciando ponti ai lontani e aprendo varchi in ogni muro.
L'Osservatore Romano

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Capire gli incontri di Assisi
di Massimo Introvigne
Il 30 settembre Papa Francesco ha incontrato i partecipanti all'incontro internazionale per la pace promosso dalla Comunità di Sant'Egidio, e ha loro rivolto un discorso che prepara la sua prossima visita ad Assisi e riprende l'interpretazione degli incontri interreligiosi della città francescana a suo tempo proposta da Benedetto XVI contro vari rischi di equivoco.
Questi incontri nascono, ha ricordato Francesco, dalla volontà del beato - e prossimo santo - Giovanni Paolo II (1920-2005). «Si era nel 1986, in un mondo ancora segnato dalla divisione in blocchi contrapposti, e fu in quel contesto che il Papa invitò i leader religiosi a pregare per la pace: non più gli uni contro gli altri, ma gli uni accanto agli altri». «Non doveva e non poteva restare - ha commentato Papa Francesco - un evento isolato», perché le urgenze non sono venute meno e ancora oggi soffiano venti di guerra. E noi «non possiamo mai rassegnarci di fronte al dolore di interi popoli, ostaggio della guerra, della miseria, dello sfruttamento. Non possiamo assistere indifferenti e impotenti al dramma di bambini, famiglie, anziani, colpiti dalla violenza».
Non si tratta però solo delle minacce di guerra in Siria, ma anche del terrorismo che negli ultimi giorni ha colpito soprattutto i cristiani. Riprendendo il cuore del discorso di Benedetto XVI nell'incontro di Assisi del 2011, Francesco ha affermato che «non possiamo lasciare che il terrorismo imprigioni il cuore di pochi violenti per seminare dolore e morte a tanti. In modo speciale diciamo con forza, tutti, continuamente, che non può esservi alcuna giustificazione religiosa alla violenza. Non può esservi alcuna giustificazione religiosa alla violenza, in qualsiasi modo essa si manifesti. Come sottolineava Papa Benedetto XVI due anni fa, nel 25° dell’incontro di Assisi, bisogna cancellare ogni forma di violenza motivata religiosamente».
Ma, ha ricordato Papa Francesco, l'insegnamento di Benedetto XVI ad Assisi non si fermava qui. Non c'è solo la violenza del fondamentalismo religioso, c'è anche quella antireligiosa. Dobbiamo dunque anche «vigilare affinché il mondo non cada preda di quella violenza che è contenuta in ogni progetto di civiltà che si basa sul “no” a Dio».
Le religioni che cosa possono fare? «Molto», risponde il Papa. «La pace è responsabilità di tutti. Pregare per la pace, lavorare per la pace». Francesco chiede il dialogo, ma invita a non confonderlo con l'ottimismo ingenuo. «Niente a che fare con l'ottimismo, è un'altra cosa».
Spesso il dialogo fallisce perché ci si accontenta di «intermediari»: mentre servono «mediatori». «I leader religiosi - invoca il Pontefice - siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Gli intermediari cercano di fare sconti a tutte le parti, al fine di ottenere un guadagno per sé. Il mediatore, invece, è colui che non trattiene nulla per sé, ma si spende generosamente, fino a consumarsi, sapendo che l’unico guadagno è quello della pace. Ciascuno di noi è chiamato ad essere un artigiano della pace, unendo e non dividendo, estinguendo l'odio e non conservandolo, aprendo le vie del dialogo e non innalzando nuovi muri!».
Assisi, ha concluso Francesco, non è solo un luogo di mediazione. È un luogo di preghiera, e senza la preghiera Assisi non si capisce o si capisce male. «Dialogo e preghiera crescono o deperiscono insieme. La relazione dell’uomo con Dio è la scuola e l'alimento del dialogo con gli uomini. Papa Paolo VI [1897-1978] parlava della “origine trascendente del dialogo” e diceva: “La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l'uomo. La preghiera esprime mediante il dialogo questo rapporto" (Enc. Ecclesiam suam, 72)». Continuiamo dunque a lavorare per la pace. Ma sapendo che la pace riposa sulla preghiera, e che dove è imposto il «no a Dio» non può esserci vera pace.