sabato 30 novembre 2013

Prima Domenica di Avvento 2013


Inizia il tempo dell'Avvento, inno di grazia per tutta la chiesa che prende coscienza del suo peregrinare nella storia assieme al mondo. Il cristiano ha scritto nel cuore il suo futuro di gloria e non teme di attraversare il tempo animato dalla 'speranza che non delude' (Rm 5,5). Cristo è già venuto nel mondo, ma oggi attende di venire in me, perché impari con Lui a camminare verso l'eternità, finché celebrerò il suo ritorno glorioso.

Pb. Vito Valente

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Il Pontefice affida ogni mese due intenzioni di preghiera - una generale e l’altra missionaria - all’Apostolato della preghiera.
Riportiamo di seguito le due intenzioni per il mese di dicembre 2013, che inizia domani.
L’intenzione generale dice: "Perché i bambini vittime dell'abbandono e di ogni forma di violenza possano trovare l'amore e la protezione di cui hanno bisogno".
Quella missionaria invece afferma: "Perché i cristiani, illuminati dalla luce del Verbo incarnato, preparino l'umanità all'avvento del Salvatore".

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ANTIFONA D’INGRESSO

A te, Signore, elevo l'anima mia,
Dio mio, in te confido: che io non sia confuso.
Non trionfino su di me i miei nemici.
Chiunque spera in te non resti deluso.

COLLETTA

O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene, perché egli ci chiami accanto a se nella gloria a possedere il regno dei cieli. Per il nostro Signore...

PRIMA LETTURA

Is 2, 1-5

Dal libro del profeta Isaìa.
Messaggio che Isaìa, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Alla fine dei giorni,il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti e s'innalzerà sopra i colli,
e ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno:«Venite, saliamo sul monte del Signore,al tempio del Dio di Giacobbe,perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri».
Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli.
Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada
contro un'altra nazione, non impareranno più l'arte della guerra.
Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore.

C: Parola di Dio.
A: Rendiamo grazie a Dio.

SALMO RESPONSORIALE 

Sal. 121

RIT: Andiamo con gioia incontro al Signore.

Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!

È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d'Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.

Chiedete pace per Gerusalemme:
vivano sicuri quelli che ti amano;
sia pace nelle tue mura,
sicurezza nei tuoi palazzi.

Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: «Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.

SECONDA LETTURA

Rm 13, 11-14

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani.
Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.
La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.
Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.

C: Parola di Dio.
A: Rendiamo grazie a Dio.

CANTO AL VANGELO

Alleluia, Alleluia.

Mostraci, Signore, la tua misericordia
e donaci la tua salvezza.

Alleluia.

VANGELO

Mt 24, 37-44
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

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"L'Avvento ci rivela come l'attesa sia l'attitudine più difficile"

Commento al Vangelo della I Domenica di Avvento. Anno A


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"Se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro...". Con queste parole inizia l'Avvento. Il Padrone di casa, Papa Francesco, insieme alla Chiesa, lo sa eccome…. Per questo può annunciare a tutti che il Vangelo è l’unica gioia autentica. Ma tu ed io, siamo così sicuri che la promessa di una vita nuova si compirà?  
“Come ai tempi di Noè prendiamo moglie e marito” solo per saziare la nostra fame, e viviamo “senza accorgerci di nulla”; nessun discernimento sulla storia, increduli e aggrappati alla terra, deridendo i Noè che ci annunciano il Cielo.
Il mondo vive in una routine grigia come un empio "eterno ritorno" che surgela e scongela ogni cosa vissuta, senza che nulla abbia davvero un senso e getti il suo profumo oltre terra e carne. E ne restiamo impigliati mille volte al giorno: al mattino quando i figli ci chiedono qualcosa che ci spiazza; in ufficio quando si tratta di scegliere tra carriera e famiglia; alla riunione di condominio dove, per una questione di principio e per quattro spiccioli ci avventiamo contro il vicino imbelle e avaro.
Anche oggi ci siamo alzati, lavati, vestiti, abbiamo fatto colazione e siamo saliti in macchina o in metropolitana; forse qualche novità, un esame all’università, un appuntamento importante, comunque una giornata come le altre, sino all’istante in cui spegneremo la luce per addormentarci.
Ma se su questo giorno si stendesse, improvvisa, la coltre della “notte” e dovessimo morire? Sarebbe tutto perduto, finito? Moriremmo con la vita troncata a metà, affamati come se ci avessero scacciato da un banchetto dove abbiamo potuto “mangiare” solo qualche antipasto e “bere” appena un paio di aperitivi?
Eppure è quello che sperimenteremo oggi. Ogni giorno, infatti, puntuali arrivano parole impreviste che ci umiliano, altri sono pronti a prendere decisioni inaspettate che stravolgono i nostri piani, le incomprensioni e i giudizi graffiano all’improvviso le relazioni a cui più teniamo; e, pur ribellandoci e lottando, coliamo a picco, perché non ci rendiamo conto che anche oggi, come sarà quello della morte per ciascun uomo e l’ultimo per il mondo, è il “giorno in cui il Figlio dell’uomo verrà”.
Così l’esperienza quotidiana diviene metafora: tutto e tutti ci sembrano in ritardo, e viviamo come vittime di una colossale ingiustizia. Un marito e un figlio che ritardano, infatti, spezzano il cuore, così come quando dall’altro ci aspettiamo rispetto, obbedienza e riconoscenza, magari solo che cambi un po’ e invece niente, notte fonda...
Per questo si deve afferrare tutto al più presto. Ecco allora le nuove generazioni allevate e stordite da social networks che schizzano a ripetizione immagini virtuali e abbozzi di parole come frammenti di fango. Gossip e segreti svelati per innescare e fomentare l'illusione di poter avere tutto e tutti in mano, e subito. Ogni relazione è vissuta alla velocità della fibra ottica: uno sguardo in discoteca e le carni si uniscono, un sms e ci si lascia.
I nostri figli sono incapaci di aspettare, impazienti, preda delle passioni da dover soddisfare. Esattamente come tu ed io: mai che sia contemplata la possibilità di un ritardo. No, infantili e capricciosi affrontiamo la vita come fosse una “memoria flash”, quella che permette ad alcuni computer di accendersi al solo tocco di un pulsante.  
Anche quest’anno l'Avvento, immagine della vita terrena, ci rivela come l'attesa sia l'attitudine più difficile. E ci interroga: stiamo aspettando qualcosa, qualcuno? Oppure scivoliamo inerti sui giorni, facendo della tranquillità narcotizzata il modo di stare al mondo? Chi non attende nulla è già morto, perché ha cercato di appropriarsi del tempo fallendo miseramente.
Per questo la sapienza della Chiesa ci invita di nuovo ad aspettare il Signore che viene come Noè: anche oggi prepara per noi un’Arca in mezzo alle nostre attività e ai nostri affetti. La costruisce a forma di Croce dove, come un Amato innamorato, ci chiama a salire per unirsi a noi.
E’ assurdo quello che ci accade, sì, proprio come una barca arenata sulla terraferma. Nostra figlia impigliata in una relazione inaccettabile è come l’arca incagliata in pianura. Per questo ci accaniamo perché rispetti i tempi della sua conversione che noi abbiamo stabilito. O nostra moglie, che spesso guardiamo come un distributore di piacere: deve essere sempre pronta a donarsi secondo i tempi da noi stabiliti, mentre invece se ne sta chiusa in se stessa proprio come doveva apparire l’arca ai contemporanei di Mosè…
Ma questo Avvento, come un fulmine a ciel sereno, ci scuote annunciandoci che sta arrivando lo Sposo. Come un’infallibile previsione metereologica, la Chiesa ci profetizza il diluvio che purificherà ogni inganno della carne lavando tutti i peccati. Tuonerà oggi, quando meno ce lo aspetteremo, forse mentre crederemo che tutto stia per finire… Sarà salvo il matrimonio, i figli incontreranno l’amore di Dio “nell’ora che non possiamo immaginare”.
Per questo il Vangelo ci invita a “vegliare” come la Sposa del Cantico dei Cantici, e a “stare pronti” come lo fu il Popolo di Israele la notte di Pasqua. Entrambi avevano bisogno di pienezza e pace, come noi… Non dobbiamo far altro che essere quel che siamo, poveri e deboli, come gli apostoli nel cenacolo. Pregare e stare con i fratelli senza allontanarci dalla comunità, ecco a cosa siamo chiamati in questo Avvento.
Gesù verrà, anche quando si nasconde è per farsi trovare. Proprio “come un ladro”, è l’unico che può passare attraverso le porte sprangate dalla paura della morte: eccolo, arriva per “scassinare” la durezza di cuore dell’uomo vecchio e rubare il cuore della sua amata.
Anche oggi “due” uomini saranno nel campo”, uno coltivandolo per se stesso e l’altro lavorandolo in attesa dell’autentico raccolto che solo Cristo potrà donare; “due donne macineranno alla mola”, una cercando di saziarsi, l’altra trepidando per l’avvento del Chicco di grano che la sfami nel perdono. In ogni evento, tra i fornelli e con un cliente, in una malattia e nella solitudine, il Signore viene a “prenderci” nella sua intimità per fare di noi i Noè per chi ci è accanto. Accogliamolo senza difenderci.

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VEGLIATE!

Padre Raniero Cantalamessa ofmcapp.

 I Domenica di Avvento
Isaia 2, 1-5; Romani 13, 11-14; Matteo 24, 37-44
Inizia oggi il primo anno del ciclo liturgico triennale. Ci accompagna in esso il Vangelo di Matteo. Secondo una tradizione antichissima (oggi però messa in discussione) Matteo avrebbe scritto il suo Vangelo in aramaico, anche se a noi è giunta solo la sua versione greca. È il vangelo più completo e questo spiega il posto di privilegio che ha sempre occupato nell’uso della Chiesa. Alcune caratteristiche di questo Vangelo sono: l’ampiezza con cui sono riportati gli insegnamenti di Gesù (i famosi discorsi, come quello della montagna), l’attenzione al rapporto Legge–Vangelo (il Vangelo è la “nuova Legge”). È considerato il Vangelo più “ecclesiastico” per il racconto del primato a Pietro e per l’uso del termine Ecclesia, Chiesa, che non si incontra negli altri tre Vangeli.
La parola che si staglia su tutte, nel Vangelo di oggi, è:

“Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”

Se l’anno liturgico è ai suoi inizi, l’anno civile volge al suo termine. Un altro cerchio si chiude. Nel fusto dell’albero ogni anno che passa lascia un segno: un cerchio ben visibile nella sezione orizzontale della pianta. Così avviene dell’uomo. La stessa natura in autunno ci invita a riflettere sul tempo che passa. Quello che il poeta G. Ungaretti diceva dei soldati in trincea sul Carso, durante la prima guerra mondiale, vale per tutti gli uomini:
       “Si sta
       come d’autunno
       sugli alberi
       le foglie”.
Cioè, in procinto di cadere da un momento all’altro. La natura stessa, in questa stagione, ci predica silenziosamente se sappiamo ascoltarla. Guardiamo cosa succede sugli alberi. A ogni folata di vento, sono foglie che cadono. Un minuto prima nessuno sa a quale di esse toccherà. Si staccano, volteggiano per un po’ nell’aria, e sono a terra per sempre. Fra qualche giorno non ne resterà più alcuna.
“Vàssene il tempo -diceva il nostro Dante Alighieri- e l’uom non se n’avvede”. Un filosofo antico ha espresso questa fondamentale esperienza con una frase rimasta celebre:panta rei, cioè: tutto scorre. Succede nella vita come sullo schermo televisivo: i programmi, cosiddetti palinsesti, si susseguono rapidamente e ognuno cancella il precedente. Lo schermo resta lo stesso, ma le immagini cambiano.
Così è di noi: il mondo rimane, ma noi ce ne andiamo uno dopo l’altro. Di tutti i nomi, i volti, le notizie che riempiono i giornali e i telegiornali di oggi -di me, di te, di tutti noi- cosa resterà da qui a qualche anno o decennio? Nulla di nulla. L’uomo non è che “un disegno creato dall’onda sulla spiaggia del mare che l’onda successiva cancella”.
Nel tentativo di non passare e di non morire del tutto, ci aggrappiamo ora alla giovinezza, ora all’amore, ora ai figli, ora alla fama. “Non morirò del tutto, esclamava un poeta romano, ho eretto (con le mie poesie) un monumento più duraturo del bronzo”. Sì, ma a che serve ormai a lui questo “monumento”? Serve a noi, ma non a lui. “L’uomo non è che un soffio, i suoi giorni come ombra che passa”, ripete la Bibbia e credo che almeno su questo punto tutti siamo pronti a darle ragione.
Al momento stesso della nascita inizia per ognuno un conteggio alla rovescia che non si arresta un solo istante, né di giorno né di notte. Nei nostri conventi avevamo una volta dei grandi orologi a pendolo su cui era scritto, come per ammonirci: Vulnerant omnes, ultima necat, “Tutte (s’intende, le ore) feriscono, l’ultima uccide”.
Di fronte a questa esperienza che tutto passa, si possono prendere diversi atteggiamenti. Uno, molto antico e ricordato nella stessa Bibbia, è quello di chi dice: “Mangiamo e beviamo, tanto domani moriremo” (Isaia 22,13). Gesù nel Vangelo odierno, parlando dei giorni che precedettero il diluvio, dice: “Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e andavano a marito… e non si accorsero di nulla, finché venne il diluvio e li inghiottì tutti”.
Un atteggiamento, certo migliore, è quello di chi dice con san Paolo: “Mentre abbiamo ancora tempo, cerchiamo di fare del bene” (Galati 6,10). Ci sono persone oneste e di buona volontà che non hanno la fede, ma cercano di attenersi a questo programma di impiegare la vita per fare del bene. Meritano ammirazione e rispetto, perché per essi è ancora più difficile.
Vediamo cosa ha da dirci la fede a proposito di questo dato di fatto che tutto passa.
Il mondo passa, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Giovanni 2, 17).
C’è dunque qualcuno che non passa, Dio, e c’è un modo per non passare del tutto neanche noi: fare la volontà di Dio, cioè credere, aderire a Dio. Una delle immagini più frequenti con cui la Bibbia ci parla di Dio è quella della roccia. “Egli è la Roccia, perfetta è l’opera sua” (Deuteronomio 32,4). Intuii cosa vuole dirci con ciò la Parola di Dio il giorno che, per la prima volta, vidi da vicino il Cervino.
Ecco dunque la proposta della fede: passare a colui che non passa! Passare dal mondo, per non passare con il mondo. Se Dio è la roccia, noi dobbiamo essere dei “rocciatori”. Quante cose potremmo imparare dai rocciatori! Quando sopraggiunge una bufera, essi ancor più si attaccano alla roccia…Tra loro e la roccia si stabilisce una specie di segreta intesa, una connivenza, un’amicizia. I rocciatori hanno molta confidenza con la roccia, ma anche un salutare rispetto e timore riverenziale. Così dovrebbe essere tra noi e Dio.
In questa vita noi siamo come persone su una zattera trasportata dalla corrente di un fiume in piena verso il mare aperto, da cui non c’è ritorno. A un certo punto, la zattera si viene a trovare vicino alla riva. Il naufrago dice: “O ora o mai più!” e spicca il salto sulla terra ferma. Che respiro di sollievo quando sente la roccia sotto i suoi piedi! È la sensazione che ha spesso colui che arriva la fede. Vorrei ricordare alcune parole famose lasciateci da santa Teresa d’Avila: “Niente ti turbi, niente di spaventi. Tutto passa, Dio solo resta”.
Ma non tutto finisce qui, con una riflessione sapienziale, tutto sommato sterile. C’è un imperativo che scaturisce da tutto ciò. Quello appunto formulato nel Vangelo di oggi:
“Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà…
State pronti, perché nell’ora che non immaginate il Figlio dell’uomo verrà!”.
Ci si chiede a volte: perché Dio ci nasconde una cosa così importante com’è l’ora della sua venuta, cioè della nostra morte? La risposta tradizionale è: “Perché fossimo vigilanti, ritenendo ognuno che il fatto può accadere ai suoi giorni” (S. Efrem Siro). Ma il motivo principale è che Dio ci conosce; sa quale terribile angoscia sarebbe stata per noi conoscere in anticipo l’ora esatta e assistere al suo lento e inesorabile approssimarsi. È quello che più spaventa di certe malattie. Più numerosi sono oggigiorno quelli che muoiono per malattie improvvise di cuore, che quelli che muoiono dei cosiddetti “mali brutti”. Eppure, quanta più paura fanno queste ultime malattie! Perché? Appunto perché ci sembra che tolgano quell’incertezza che ci permette di sperare.
 L’avvertimento “tutto passa” è rivolto più ai giovani che agli anziani. C’è, a questo proposito, una parola della Bibbia che non posso trattenermi dal proporre ai giovani. Dice:

La giovinezza e i capelli neri sono un soffio.      
Ricòrdati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire: Non ci provo alcun gusto” (Qoelet12, 1).
A questo punto la vecchiaia è evocata con una serie immagini delicate: i rumori che si affievoliscono a causa della sordità, i colori che attenuano, il passo che si fa incerto, la paura della strada e della salita. E poi l’immagine finale della carrucola e del secchio: dopo tanto salire e scendere del secchio nel pozzo, arriva il giorno che la catena si rompe e il secchio precipita nel fondo e non risale più. Il mandorlo a primavera torna a fiorire, ma l’uomo una volta caduto non si rialza più. Il brano termina con la ben nota frase:

“Vanità delle vanità e tutto è vanità” (Qoelet 11,10- 12, 8).
Un tempo questa parola veniva ripetuta anche troppo spesso, ora non la si sente quasi più. Eppure non è male che anche la nostra generazione ci faccia un pensierino sopra. Non per disamorarci della vita, ma per vivere meglio, con più serenità, meno agitazione, meno stress, come si dice oggi. Prendere coscienza che tutto passa: potrebbe essere anch’esso un rimedio “contro il logorio della vita moderna”.
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"Che sorta di amore per Cristo sarebbe il temere che egli venga?"


Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la prima domenica dell’Avvento 2013. 
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LECTIO DIVINA 
A occhi aperti, nuovi e stupiti
Rito Romano
1ª Domenica di Avvento1 -  Anno A – 1 dicembre 2013
Is 2,1-5; Sal 121; Rm 13,11-14; Mt 24, 37-44
Da ottusi a tesi

1) Vigilanza e discernimento.
Nel Cantico di Frate Sole e Sorella Luna2 (che è proposto fra i vari Inni della Liturgia delle Ore dell’Avvento), San Francesco d’Assisi esprime poeticamente la sua contemplazione del mondo e innalza la sua lode di Dio chiamandoLo : “Altissimo, Buono, Signore, Sapienza e Amore”. Ma nel libro dell’Apocalisse c’è un nome che Dio si dà e che risponde più precisamente a quello che è l'Avvento: Dio è “Colui che è, che era e che viene”.
È molto importante meditare sull'aspetto del Dio "che viene" in quanto Lui si è comunicato all'uomo e continua a comunicarsi a noi con amore costante. Noi aspettiamo l’avvento del Signore, e forse crediamo che questo avvenga solamente nel momento della nostra morte, oppure alla fine del mondo. Invece dobbiamo sapere che Dio non ha tempi successivi: Egli viene sempre, oggi, domani e per sempre nell'eternità. Per questo motivo la nostra anima deve vivere la continua sorpresa dell'incontro col Signore.
La prima cosa che s'impone a noi dunque è una viva attenzione, una costante attesa del Signore, una perseverante tensione a Lui, che è la Verità amorosa della nostra vita.
E' per questo che la liturgia “romana” di oggi ci invita alla vigilanza, proponendoci il brano del Vangelo di San Matteo in cui ci è ricordato che l’incontro con Cristo non può essere programmato da noi: deve essere atteso, lasciando che nella nostra vita ci sia uno spazio anche per la sua presenza.
La vigilanza cristiana, con occhi aperti e capaci di stupore, permette di leggere in profondità i fatti per scoprirvi mediante il discernimento la “venuta” del Signore.
Vigilare non è tanto un rientrare in se stessi, quanto un uscire da sé per andare incontro a Dio che viene e che si dona, oserei dire che si abbandona al noi.
La parola “vigilanza” non indica direttamente qualcosa da fare, ma un modo di vivere e di guardare. Non si sa quando il padrone tornerà e perciò non si può programmare né l'imminenza del ritorno né il ritardo, è quindi da insensati fare come invece ha fatto il maggiordomo infedele della parabola di oggi il quale - contando sul ritardo della venuta del Signore - cominciò a “percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi” (Mt 24,49). In questo racconto l'assenza di vigilanza è indicata con due caratteristiche: una vita dissoluta, en viveur, e il far da padrone sugli altri uomini. Se siamo sazi di cose materiali chiudiamo gli occhi in una sonnolenza, che fa perdere l’appuntamento con Dio. Se dominiamo sugli altri, diventiamo schiavi del potere e anche se gli occhi sono aperti, il cuore è chiuso. Se invece siamo sobri e vegliamo, gli occhi sono aperti, pieni di stupore e nuovi e, quindi capaci di vedere Cristo, nostra gioia che viene ad abitare nel nostro cuore.
La gioia dell’Avvento è la gioia dell’attesa dell’incontro d’amore con l’Amore, che ci ha fasciati del suo calore ancor prima che nascessimo e ci ha portati alla luce, tramite nostra mamma.
Noi non siamo come quelli che sono senza speranza e lasciano sfumare il tempo nella sera di un sabato pieno di nostalgia perché non conosce domenica. Il cristiano sa che la Domenica eterna è alle porte. Il cristiano ne ha il gioioso presagio nella certezza, che scaturisce dalla partecipazione alla vita soprannaturale mediante i sacramenti e nella vita di comunione nella Chiesa.
Siamo nella gioia, perché siamo certi che l’Amato viene all’appuntamento, anzi ci precede. L’attesa di Cristo non è come l’attesa incerta dell’amante umano. Nell’amore terreno c’è l’inquietudine dell’attesa, perché non raramente c’è l’angoscia che l’amato non arrivi, c’è l’inquietudine che l’amato non ami più, che si sia voltato altrove, attirato da qualcun altro.
L’attesa cristiana è l’attesa piena di speranza sicura che l’Amato ci ama sempre e con pienezza di amore.
2) Vedere, camminare, illuminare.
Si attende il Signore perseverando e testimoniando, non fantasticando sulla vicinanza della fine del mondo. In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate.
Bisogna vigilare, dice Gesù. Può accadere di dormire per le cose di Dio; anche le Vergini della parabola dormivano tutte e per questo la nostra vita cristiana è così povera, così misera. Allora, anche se Dio viene, non ce ne accorgiamo. Una delle cose più gravi della vita spirituale è precisamente questa: dormire. L'anima deve mantenersi desta, attenta, vigilante nella preghiera per riconoscere che Cristo viene tra noi. Se apriamo gli occhi, purificati dal peccato che ci rende ottusi, possiamo riconoscere il volto buono e amoroso del Destino, anche se è ancora buio.
La parola chiave di tutto l’Avvento è la “vigilanza” che è, secondo me, l’atteggiamento fondamentale delle persone consacrate. Chi si addormenta nell’attesa, è chiuso in se stesso, non percepisce la realtà fuori di sé, e anche nei suoi sogni non è in grado di percepire la realtà, ma solo ombre riflesse della sua mente. Ma, se al grido “lo Sposo viene”, si sveglia e percepisce la realtà stessa che lo circonda. Si apre ad essa, lascia il bordo della via, dove si era assopito e si mette sulla Via. E in ciò le vergini consacrate ci sono di esempio.
Oggi siamo convinti di essere molto “svegli”, più di coloro che nei secoli ci hanno preceduto perché conosciamo meglio il mondo: il nostro occhio va fino alle distanze più lontane, distanze immense sia spaziali, sia temporali. E nello stesso tempo siamo capaci di entrare anche all’interno della materia, fino alle ultime particelle che la compongono. L’orizzonte si è allargato enormemente, come anche le nostre possibilità di agire in questo mondo. E nonostante ciò dobbiamo dire che questo nostro mondo, in un senso più profondo, dorme. È chiuso in sé, perché vede soltanto quanto può fare e avere, e si ferma alla facciata esteriore della realtà, alle cose materiali che possiamo prendere in mano.
La consacrazione verginale, soprattutto, ma già anche quella battesimale rende capaci di vedere la trasparenza della luce divina nella materia creata, in noi stessi.
Per mezzo dell’Avvento la Chiesa ci fa ascoltare la parola del Signore, che ci dice di risvegliarci, di uscire da questo carcere del materiale, dell’effimero, di aprire gli occhi del nostro cuore e cominciare a vedere la realtà più grande, il senso di Dio nel mondo, la presenza di Dio nel Signore Gesù Cristo, nella sua Parola e nei suoi sacramenti.


La conseguenza di questo invito è di andare avanti sulla Via che è Cristo, aprendo gli occhi del cuore e aiutando i nostri amici e nemici, i nostri contemporanei perché possano ricominciare a vedere la vera profondità e la vera grandezza della realtà.
Vedere è anche mettersi in cammino e così logicamente dalla parola vigilanza viene fuori l’altra, propria del cammino d’Avvento: “andare incontro al Signore”, come hanno fatto le Vergini della parabola.

La fede non è l’adesione ad un mucchio di idee, ma un’avventura della vita, un cammino, un mettersi in moto verso il Signore e il cammino esteriore dovrebbe essere nello stesso tempo e soprattutto un cammino interiore, un uscire da noi stessi per andare incontro a Dio, alla vera realtà, all’amore e al prossimo.


Ed ecco una terza azione da compiere nell’Avvento: illuminare. La Parola di Dio, chiamato Luce, ci invita ad accendere le lampade del nostro essere per arrivare al Signore. Cosa significa questo?

 Se guardiamo alla storia della Chiesa, a quella dei santi, vediamo queste numerosissime persone sante sono “lampade” accese che illuminano il mondo, e vediamo che esse non solo illuminano questo tempo, ma saranno decorazioni e luce nella festa eterna dell’amore di Dio.
Le vergini consacrate sono veramente lampade accese che illuminano, ci fanno vedere che c’è luce, che l’uomo non è una creatura fallita, ma può essere simile a Dio, conformandosi nella strada dell’amore perché Dio è Amore. E noi siamo simili a Dio nella misura in cui percorriamo la strada dell’amore.
 Preghiamo il Signore Gesù che ci illumini, che ci permetta di ascoltare e di realizzare la sua Parola. Così saremo sempre più consapevoli di essere suoi figli e figlie e faremo le sue opere, che sono opere di sapienza e carità divina.
*
NOTE
1 Avvento significa "venuta, arrivo" ed è chiaro di chi aspettiamo l'arrivo, la venuta: del Signore Gesù.
Come ho già accennato (riflessioni domenicali del 17 novembre 2013), dal punto di vista della liturgia nel rito romano oggi comincia l’avvento, che nel rito ambrosiano è iniziato due domeniche fa. Ma non va dimenticato che tutta la vita del cristiano va vissuta nella dimensione dell’attesa e della speranza che il periodo liturgico dell’avvento “pedagogicamente” ci fa vivere. Tempo di concepimento di Dio che viene ogni giorno. Il tempo dell'Avvento svela, dunque, la nostra vocazione di pellegrini e di amici del Signore, chiamati a una comunione d'amore con Lui che deve realizzarsi ancora in pienezza.
2 “Il cantico di Frate Sole e Sorella Luna” conosciuto anche come “il Cantico delle Creature” è la prima poesia scritta in italiano. Il suo autore è San Francesco d’Assisi che l’ha composta nel 1226.
La poesia è una lode a Dio, alla vita e alla natura che è contemplata in tutta la sua bellezza.

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LETTURE PATRISTICHE
Discorso 5 sull’Avvento
di San Bernardo di Chiaravalle, abate:
 Il Verbo di Dio verrà in noi
“Conosciamo una triplice venuta del Signore. Una venuta occulta si colloca infatti tra le altre due che sono manifeste. Nella prima il Verbo fu visto sulla terra e si intrattenne con gli uomini, quando, come egli stesso afferma, lo videro e lo odiarono. Nell’ultima venuta “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio” (Lc 3,6) e vedranno colui che trafissero. Occulta è invece la venuta intermedia, in cui solo gli eletti lo vedono entro se stessi e le loro anime ne sono salvate. Nella prima venuta dunque egli venne nella debolezza della carne, in questa intermedia viene nella potenza dello Spirito, nell’ultima verrà nella maestà della gloria. Quindi questa venuta intermedia è, per così dire, una via che unisce la prima all’ultima: nella prima Cristo fu nostra redenzione, nell’ultima si manifesterà come nostra vita, in questa è nostro riposo e nostra consolazione. Ma perché ad alcuno non sembrino per caso cose inventate quelle che stiamo dicendo di questa venuta intermedia, ascoltate lui: se uni mi ama – dice – conserverà la mia parola: e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui (Gv 14,23). Ma che cosa significa: se uno mi ama, conserverà la mia parola? Ho letto infatti altrove: chi teme Dio opererà il bene (Sir. 15,1), ma di chi ama è detto qualcosa di più: che conserverà la parola di Dio. Dove si deve conservare? Senza dubbio nel cuore, come dice il Profeta: “Conservo nel cuore le tue parole per non offenderti con il peccato” (Sal. 118, 11). Poiché sono beati coloro che custodiscono la parola di Dio, tu custodiscila in modo che scenda nel profondo della tua anima e si trasfonda nei tuoi affetti e nei tuoi costumi. Nutriti di questo bene e ne trarrà delizia e forza la tua anima. Non dimenticare di cibarti del tuo pane, perché il tuo cuore non diventi arido e la tua anima sia ben nutrita del cibo sostanzioso. Se conserverai così la parola di Dio, non c’è dubbio che tu pure sarai conservato da essa. Verrà a te il Figlio con il Padre, verrà il grande Profeta che rinnoverà Gerusalemme e farà nuove tutte le cose. Questa sua venuta intermedia farà in modo che “come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (1 Cor 15,49). Come il vecchio Adamo si diffuse per tutto l’uomo occupandolo interamente, così ora lo occupi interamente Cristo, che tutto l’ha creato, tutto l’ha redento e tutto lo glorificherà.”
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Dal «Commento sui salmi» di sant'Agostino, vescovo
(Sal 95, 14. 15; CCL 39, 1351-1353)
 
Non opponiamo resistenza alla prima venuta per non dover poi temere la seconda
«Allora si rallegreranno gli alberi della foresta davanti al Signore che viene, perché viene a giudicare la terra» (Sal 95,12-13). Venne una prima volta, e verrà ancora in futuro. Questa sua parola è risuonata prima nel vangelo: «D'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64). Che significa: «D'ora innanzi»? Forse che il Signore deve venire già fin d'ora e non dopo, quando piangeranno tutti i popoli della terra? Effettivamente c'è una venuta che si verifica già ora, prima di quella, ed è attraverso i suoi annunziatori. Questa venuta ha riempito tutta la terra.
Non poniamoci contro la prima venuta per non dover poi temere la seconda.
Che cosa deve fare dunque il cristiano? Servirsi del mondo, non farsi schiavo del mondo. Che significa ciò? Vuol dire avere, ma come se non avesse. Così dice, infatti, l'Apostolo: «Del resto, o fratelli, il tempo ormai si è fatto breve: d'ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero; e quelli che godono, come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero, perché passa la scena di questo mondo. Io vorrei vedervi senza preoccupazioni» (1Cor 7,29-32).
Chi è senza preoccupazione, aspetta tranquillo l'arrivo del suo Signore. Infatti che sorta di amore per Cristo sarebbe il temere che egli venga? Fratelli, non ci vergogniamo? Lo amiamo e temiamo che egli venga! Ma lo amiamo davvero o amiamo di più i nostri peccati? Ci si impone perentoriamente la scelta. Se vogliamo davvero amare colui che deve venire per punire i peccati, dobbiamo odiare cordialmente tutto il mondo del peccato.
Lo vogliamo o no, egli verrà. Quindi non adesso; il che ovviamente non esclude che verrà. Verrà, e quando non lo aspetti. Se ti troverà pronto, non ti nuocerà il fatto di non averne conosciuto in anticipo il momento esatto.
«E si rallegreranno tutti gli alberi della foresta». È venuto una prima volta, e poi tornerà a giudicare la terra. Troverà pieni di gioia coloro che alla sua prima venuta «hanno creduto che tornerà».
«Giudicherà il mondo con giustizia e con verità tutte le genti» (Sal 95,13). Qual è questa giustizia e verità? Unirà a sé i suoi eletti perché lo affianchino nel tribunale del giudizio, ma separerà gli altri tra loro e li porrà alcuni alla destra, altri alla sinistra. Che cosa vi è di più giusto, di più vero, che non si aspettino misericordia dal giudice coloro che non vollero usare misericordia, prima che venisse il giudice? Coloro invece che hanno voluto usare misericordia, saranno giudicati con misericordia. Si dirà infatti a coloro che stanno alla destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34). E ascrive loro a merito le opere di misericordia: «Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere» (Mt 25,35-40) con quel che segue.
A quelli che stanno alla sinistra, poi, che cosa sarà rinfacciato? Che non vollero fare opere di misericordia. E dove andranno?: «Nel fuoco eterno» (Mt 25,41). Questa terribile sentenza susciterà in loro un pianto amaro. Ma che cosa dice il salmo? «Il giusto sarà sempre ricordato; non temerà annunzio di sventura» (Sal 111,6-7). Che cos'è questo «annunzio di sventura»? «Via da me nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 25,41). Chi godrà per la buona sentenza non temerà quella di condanna. Questa è la giustizia, questa è la verità.
O forse perché tu sei ingiusto, il giudice non sarà giusto? O forse perché tu sei bugiardo, la verità non dirà ciò che è vero? Ma se vuoi incontrare il giudice misericordioso, sii anche tu misericordioso prima che egli giunga. Perdona se qualcuno ti ha offeso, elargisci il superfluo. E da chi proviene quello che doni, se non da lui? Se tu dessi del tuo sarebbe un'elemosina, ma poiché dai del suo, non è che una restituzione! «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (1Cor 4,7).
Queste sono le offerte più gradite a Dio: la misericordia, l'umiltà, la confessione, la pace, la carità. Sono queste le cose che dobbiamo portare con noi e allora attenderemo con sicurezza la venuta del giudice il quale «Giudicherà il mondo con giustizia e con verità tutte le genti» (Sal 95,13).”

Avvento, custodi come San Giuseppe


San Giuseppe falegname

di Maria Gloria Riva
Uno dei ripetuti richiama di Papa Francesco è: «Siate custodi!». Un richiamo che rimbalza sonoro nella liturgia di questa prima Domenica di Avvento: «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».
Ed è proprio l’invito a essere custodi, e il clima da veglia notturna in cui la liturgia ci colloca, a farmi pensare a un’opera straordinaria di Georges de La Tour del 1645: san Giuseppe il carpentiere.
Nell’oscurità di una bottega, che s’indovina povera ed essenziale, la fiamma vibrante di una candela rivela il volto luminoso di Cristo e lo sguardo intenso di San Giuseppe. Un dialogo muto intercorre fra i due, pieno tuttavia di consapevolezza e di affetto.
Pochi artisti sono riusciti a scandagliare così a fondo, con tratti essenziali eppure capaci di grande penetrazione psicologica, i sentimenti del Custode del Redentore. 
Benché la figura di San Giuseppe diventi centrale nell’Avvento solo nel corso della novena che ci prepara al Natale, la tempra di questo grande uomo, la sua capacità di vedere oltre le pieghe della storia, di scandagliare una volontà divina umanamente inconcepibile, lo rende uno dei modelli più affascinanti per vivere l’Avvento.
Sono lieta che la Chiesa abbia voluto aggiungere alla preghiera consacratoria il suo nome. San Giuseppe fu uomo vero e in questo nostro tempo senza padri, dove la crisi della donna, della femminilità e della maternità, rende fragile la figura maschile, egli ci offre un punto di vista diverso per guardare alla paternità.
Siamo anche noi, come il Giuseppe di De La Tour, dentro all’oscurità di un tempo che ci ha ridotti all’essenziale, dove l’oscurità impedisce a tratti di distinguere il vero dal falso, il male dal bene, un tempo in cui ciò che rimane è la luce della fede, la quale – come direbbe l’apostolo Pietro – brilla in un luogo oscuro richiamando l’attenzione a una Parola più certa e più vera di quella dei profeti.
Così la fiamma in mano a Gesù non incendia solo il volto del Salvatore, ma anche gli occhi vivi e umidi di commozione del Carpentiere più famoso della storia. Questo sguardo al Salvatore non lo distoglie dal suo lavoro. Giuseppe continua a piallare, eppure il suo mirare lo rende capace di superare la fatica, la storia che sta vivendo, l’oggetto che sta piallando.
Ed è la luce che corre sulle maniche a sbuffo della camicia bianca del padre putativo che ci obbliga con discrezione ad abbassare lo sguardo e vedere stupiti che cosa San Giuseppe stia piallando. L’oggetto nella sua totalità ci è ignoto, quello che vediamo però ci basta: è una croce. Una croce già si profila nella figura esile di quel bambino, il suo abito rosso porpora, quasi argilloso, consegna già la sua umanità a quella morte che sarà per tutti Redenzione.
Il falegname di Nazareth lo intuisce e, forse, tacitamente chiede di non assistere a quel supplizio: non potrebbe resistere. Sappiamo dalla tradizione che il Signore lo esaudirà.
Che quest’Avvento ci sorprenda così, con gli strumenti del lavoro in mano, capaci di non arrenderci di fronte alla fatica degli eventi e consapevoli di quanto occorre puntare lo sguardo oltre, oltre le dimensioni del presente. L’anno della fede, che abbiamo appena concluso, continui a brillare in noi come la fiamma di De La Tour, possa aiutarci a fissare lo sguardo in quella vera luce che dovrà trovarci desti nel momento della prova e della verità. Anche i desideri segreti del nostro cuore, come quelli di Giuseppe, saranno esauditi.

Papa Francesco agli universitari di Roma: Noi non dobbiamo mai vivacchiare, ma vivere



Celebrazione dei primi Vespri di Avvento con gli universitari di Roma. Papa Francesco: "Vi può essere di aiuto la bella testimonianza del beato Pier Giorgio Frassati, il quale diceva: «Vivere senza una fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la verità, non è vivere ma vivacchiare. Noi non dobbiamo mai vivacchiare, ma vivere»"

- Il segno (...) indica frasi aggiunte dal Santo Padre e pronunciate a braccio. 
Alle ore 17.30 di questo pomeriggio, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco presiede la Celebrazione dei primi Vespri della prima domenica di Avvento con gli Universitari degli atenei romani. Prima dell’arrivo del Santo Padre, a partire dalle ore 16,  il Cardinale Vicario Agostino Vallini accoglie l’icona di Maria Sedes Sapientiae, patrona degli studenti universitari, e guida la preghiera preparatoria con il rinnovo della professione di fede dei giovani cresimandi. Quindi alcuni ragazzi, insieme a diverse corali degli atenei capitolini, animano la recita del Santo Rosario. Di seguito riportiamo il testo dell’omelia che Papa Francesco pronuncia nel corso della celebrazione dei primi Vespri di Avvento:
Si rinnova oggi il tradizionale appuntamento d’Avvento con gli studenti delle Università di questa diocesi, ai quali si uniscono i Rettori e i Professori degli Atenei romani e italiani. Saluto tutti cordialmente: il Cardinale Vicario, i Vescovi, le varie Autorità accademiche e istituzionali, gli Assistenti delle Cappellanie e dei Gruppi universitari. Saluto specialmente voi, cari universitari e universitarie. 
L’auspicio che san Paolo rivolge ai cristiani di Tessalonica, affinché Dio li santifichi fino alla perfezione, dimostra da una parte la sua preoccupazione per la loro santità di vita messa in pericolo, e dall’altra una grande fiducia nell’intervento del Signore. Questa preoccupazione dell’Apostolo è valida anche per noi, cristiani di oggi. La pienezza della vita cristiana che Dio compie negli uomini, infatti, è sempre insidiata dalla tentazione di cedere allo spirito mondano. Per questo Dio ci dona il suo aiuto mediante il quale possiamo preservare i doni dello Spirito Santo, la vita nuova nello Spirito che Egli ci ha dato. Custodendo questa “linfa” salutare della nostra vita, tutto il nostro essere, spirito, anima e corpo, si conserva irreprensibile, integerrimo. Ma perché Dio, dopo che ci ha elargito i suoi tesori spirituali, deve intervenire ancora per mantenerli integri? (...) Perché noi siamo deboli, (...) la nostra natura umana è fragile e i doni di Dio sono conservati in noi come in “vasi di creta”(cfr2Cor 4,7).  (...) 
L’intervento di Dio in favore della nostra perseveranza fino alla fine, fino all’incontro definitivo con Gesù, è espressione della sua fedeltà.   (...) Egli è fedele anzitutto a sé stesso. Pertanto, l’opera che ha iniziato in ciascuno di noi, con la sua chiamata, la condurrà a compimento. Questo ci dà sicurezza e grande fiducia: una fiducia che poggia su Dio e richiede la nostra collaborazione attiva e coraggiosa, davanti alle sfide del momento presente.   (...) La  vostra capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del vostro Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. (...) 
Sono diverse le sfide che voi giovani universitari siete chiamati ad affrontare con fortezza interiore e audacia evangelica. (...) Il contesto socio-culturale nel quale siete inseriti a volte è appesantito dalla mediocrità e dalla noia. Non bisogna rassegnarsi alla monotonia del vivere quotidiano, ma coltivare progetti di ampio respiro, andare oltre l’ordinario: non lasciatevi rubare l’entusiasmo giovanile! Sarebbe uno sbaglio anche lasciarsi imprigionare dal pensiero debole e dal pensiero uniforme, (...)come pure da una globalizzazione intesa come omologazione. Per superare questi rischi, il modello da seguire non è la sfera, in cui è livellata ogni sporgenza e scompare ogni differenza; il modello è invece il poliedro, che include una molteplicità di elementi e rispetta l’unità nella varietà.  (...) 
Il pensiero, infatti, è fecondo quando è espressione di una mente aperta, che discerne, sempre illuminata dalla verità, dal bene e dalla bellezza. Se non vi lascerete condizionare dall’opinione dominante, ma rimarrete fedeli ai principi etici e religiosi cristiani, troverete il coraggio di andare anche contro-corrente. Nel mondo globalizzato, potrete contribuire a salvare peculiarità e caratteristiche proprie, cercando però di non abbassare il livello etico. Infatti, la pluralità di pensiero e di individualità riflette la multiforme sapienza di Dio quando si accosta alla verità con onestà e rigore intellettuale, (...) così che ognuno può essere un dono a beneficio di tutti. 
L’impegno di camminare nella fede e di comportarvi in maniera coerente col Vangelo vi accompagni in questo tempo di Avvento, per vivere in modo autentico la festa del Natale del Signore. Vi può essere di aiuto la bella testimonianza del beato Pier Giorgio Frassati, il quale diceva: (...) «Vivere senza una fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la verità, non è vivere ma vivacchiare. Noi non dobbiamo mai vivacchiare, ma vivere» (Lettera a I. Bonini, 27.II.1925). 
Grazie, e buon cammino verso Betlemme! 
***
Terminata la recita dei Vespri, l’immagine di Maria Sedes Sapientiae viene consegnata dagli universitari brasiliani - che l’hanno custodita per la celebrazione della GMG di Rio de Janeiro durante l’Anno della fede - a una delegazione di universitari francesi. L’icona mariana sarà poi accolta in tutte le cappellanie universitarie di Francia.

La gioia di essere fratelli.




 Papa Francesco offre la messa celebrata a Santa Marta per Bartolomeo. Messaggio al Patriarca ecumenico per la festa di Sant’Andrea

Nel quadro del tradizionale scambio di delegazioni per le rispettive feste dei santi patroni — il 29 giugno a Roma per la celebrazione dei santi Pietro e Paolo e il 30 novembre a Istanbul per la celebrazione di sant’Andrea — il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, guida anche quest’anno la delegazione della Santa Sede per la festa del Patriarcato ecumenico. Il cardinale Koch è accompagnato dal vescovo Brian Farrell e da monsignor Andrea Palmieri, rispettivamente segretario e sotto-segretario del dicastero. A Istanbul si è unito alla delegazione il nunzio apostolico in Turchia, l’arcivescovo Antonio Lucibello. 
La delegazione della Santa Sede ha preso parte alla solenne divina liturgia presieduta da Bartolomeo I nella chiesa patriarcale del Fanar, e ha avuto un incontro con il Patriarca e conversazioni con la Commissione sinodale incaricata delle relazioni con la Chiesa cattolica. Il cardinale Koch ha consegnato al Patriarca ecumenico un messaggio autografo di Papa Francesco — il quale ha celebrato la messa a Santa Marta sabato mattina, 30 novembre, offrendola per Bartolomeo I — di cui ha dato pubblica lettura alla conclusione della divina liturgia, accompagnato da un dono. La delegazione ha inoltre fatto visita alla sede della scuola di teologia del Patriarcato ecumenico a Halchi, chiusa dalle autorità turche nel 1971 e di cui si attende il permesso per la riapertura. 
Del messaggio pontificio diamo di seguito una nostra traduzione dall’inglese.
A Sua Santità BARTOLOMEO I 
Arcivescovo di Costantinopoli Patriarca Ecumenico
«Pace ai fratelli, e carità e fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo» (Ef 6, 23).
Dopo aver accolto con gioia la delegazione che lei, Santità, ha inviato a Roma per la solennità dei Santi Pietro e Paolo, è con la stessa gioia che trasmetto, attraverso questo messaggio affidato al Cardinale Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, la mia vicinanza spirituale nella festa di Sant’Andrea, fratello di Pietro e santo patrono del Patriarcato Ecumenico. Con il profondo affetto riservato ai fratelli amati, porgo i miei migliori auguri oranti a lei Santità, ai membri del Santo Sinodo, al clero, ai monaci e a tutti i fedeli e — insieme ai miei fratelli e alle mie sorelle cattolici — mi unisco alla vostra preghiera in questa occasione di festa. 
Santità, amato fratello in Cristo, questa è la prima volta che mi rivolgo a lei in occasione della festa dell’Apostolo Andrea, il primo chiamato. Colgo l’opportunità per assicurarla della mia intenzione di perseguire relazioni fraterne tra la Chiesa di Roma e il Patriarcato Ecumenico. È per me fonte di grande rassicurazione riflettere sulla profondità e sull’autenticità dei legami esistenti tra noi, frutto di un cammino pieno di grazia lungo il quale il Signore ha guidato le nostre Chiese sin dallo storico incontro a Gerusalemme tra Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora, del quale tra breve celebreremo il cinquantesimo anniversario. Dio, fonte di ogni pace e amore, in questi anni ci ha insegnato a considerarci gli uni gli altri come membri della stessa famiglia. Di fatto, abbiamo un solo Signore e un solo Salvatore. Gli apparteniamo attraverso il dono della buona novella della salvezza trasmessa dagli apostoli, attraverso l’unico battesimo nel nome della Santa Trinità e attraverso il sacro ministero. Uniti in Cristo, dunque, sperimentiamo già la gioia di fratelli autentici in Cristo, pur essendo pienamente consapevoli di non avere raggiunto l’obiettivo della comunione piena. Nell’anticipazione del giorno in cui finalmente parteciperemo insieme al banchetto eucaristico, i cristiani hanno il dovere di prepararsi a ricevere questo dono di Dio attraverso la preghiera, la conversione interiore, il rinnovamento di vita e il dialogo fraterno.
La nostra gioia nel celebrare la festa dell’Apostolo Andrea non deve farci distogliere lo sguardo dalla situazione drammatica delle molte persone che stanno soffrendo a causa della violenza e della guerra, della fame, della povertà e di gravi catastrofi naturali. Sono consapevole della vostra profonda preoccupazione per la situazione dei cristiani in Medio Oriente e per il loro diritto di rimanere nella loro patria. Il dialogo, il perdono e la riconciliazione sono gli unici strumenti possibili per ottenere la risoluzione del conflitto. Siamo costanti nella nostra preghiera al Dio onnipotente e misericordioso per la pace in questa regione, e continuiamo a lavorare per la riconciliazione e il giusto riconoscimento dei diritti delle persone! 
Santità, la memoria del martirio dell’apostolo Sant’Andrea ci fa ricordare anche i molti cristiani di tutte le Chiese e comunità ecclesiali che, in molte parti del mondo, sperimentano la discriminazione e a volte pagano con il proprio sangue il prezzo della loro professione di fede. Attualmente stiamo celebrando il 1700° anniversario dell’Editto di Costantino, che ha posto fine alla persecuzione religiosa nell’Impero Romano, sia in Oriente sia in Occidente, e ha aperto nuovi canali per la diffusione del Vangelo. Oggi, come allora, i cristiani d’Oriente e d’Occidente devono dare una testimonianza comune, di modo che, rafforzati dallo Spirito del Cristo risorto, possano diffondere il messaggio di salvezza nel mondo intero. Esiste inoltre un bisogno urgente di cooperazione efficace e impegnata tra i cristiani al fine di salvaguardare ovunque il diritto di esprimere pubblicamente la propria fede e di essere trattati con equità quando promuovono il contributo che il cristianesimo continua a offrire alla società e alla cultura contemporanea. 
È con sentimenti di profonda stima e di cordiale amicizia in Cristo che invoco abbondanti benedizioni su di lei, Santità, e su tutti i fedeli del Patriarcato Ecumenico, chiedendo l’intercessione della Vergine Madre di Dio e dei santi apostoli e martiri Pietro e Andrea. Con questi stessi sentimenti rinnovi i miei migliori auguri e scambio con lei un abbraccio fraterno di pace. 
Dal Vaticano, 25 novembre 2013
Francesco
L'Osservatore Romano

Se è appena l’aurora




Il  tweet di Papa Francesco: "La Chiesa chiama tutti a lasciarsi avvolgere dalla tenerezza e dal perdono del Padre." (30 novembre 2013)

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La Chiesa, il concilio e il mondo contemporaneo.

(Enzo Bianchi) Il concilio ha segnato la fine di una posizione difensiva, che concepiva la Chiesa come cittadella arroccata e il mondo come suo insidioso nemico: grazie al Vaticano II la Chiesa è ritornata a dialogare con il mondo e i cristiani a essere tali nella società, nella compagnia degli uomini, nel mondo moderno senza evasioni né esenzioni. Se è vero che in termini quantitativi i credenti oggi sono meno numerosi di ieri, al punto da essere divenuti minoranza anche nei Paesi di antica cristianità come l’Italia, essi sono però dotati di una consapevolezza della loro identità cristiana ben più profonda di un tempo. In tale condizione, il compito dei cristiani è quello di dialogare con tutte le donne e gli uomini contemporanei, di mettersi al loro servizio, prolungando così il servizio compiuto da Dio con la sua umanizzazione in Gesù. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Giovanni, 3, 16), si è fatto uomo per servire noi uomini, e la Chiesa prosegue questa diakonía, facendosi serva degli uomini e annunciatrice del Vangelo tra le genti.
I cristiani sono dunque chiamati a vivere nella compagnia degli uomini, la loro pólis è quella degli altri uomini, diversi per cultura, fede, appartenenza etnica, lingua, e anche codice morale. Ebbene, gli uomini si domandano anche oggi, e forse oggi più di ieri: «Cosa posso sperare?», e noi cristiani dovremmo esercitarci ad ascoltarli, ben sapendo che Cristo risorto può essere per loro speranza efficace che la morte non è l’ultima realtà, e che «lo Spirito Santo offre a tutti la possibilità di essere associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gaudium et spes, n. 22). Ora, tale comportamento può apparire in contraddizione con lo status viatoris del cristiano, costitutivamente straniero e pellegrino sulla terra, condizione così riassunta dall’apostolo Paolo: «La nostra patria è nei cieli» (Filippesi, 3, 20). Sì, la Chiesa è pellegrina sulla terra, la sua cittadinanza è solo il cielo dove i cristiani «non sono più stranieri né pellegrini, ma concittadini dei santi e coinquilini di Dio» (cfr. Efesini, 2, 19); queste affermazioni neotestamentarie non vogliono però invitare i discepoli di Gesù Cristo all’evasione dalla storia, al disimpegno nei confronti dei loro compagni di umanità, bensì a restare fedeli alla terra mentre continuano a cercare le cose dell’alto.
Proprio in questa loro capacità di restare fedeli alla terra, pur lottando contro gli idoli mondani e mantenendo vivo l’orizzonte escatologico, i cristiani possono dare un contributo essenziale alla pólis. Essa infatti abbisogna di cristiani autentici e maturi che, capaci di dedicarsi al bene comune e al servizio degli uomini, sappiano renderla più abitabile e si rendano artefici di una migliore qualità della convivenza umana: una convivenza maggiormente segnata dalle esigenze della giustizia, della condivisione, del perdono e della pace, e, come tale, in grado di contrapporre cammini comuni alla barbarie incombente.
In ogni caso, la Chiesa non può comportarsi come una fortezza assediata, anche se all’orizzonte apparisse un atteggiamento aggressivo da parte del mondo non cristiano: fin dai suoi inizi, infatti, la Chiesa sa che l’ostilità nei confronti del messaggio del Vangelo non può essere né rimossa né evitata (cfr. Marco, 13, 13; Giovanni, 15, 20).
Quando i cristiani manifestano sfiducia nella forza evangelica propria dell’inermità della fede; quando progettano una “religione civile” cercando di instaurare presidi e tentando alleanze strategiche con chiunque offra un sostegno alla forza di pressione cristiana nei confronti della società, allora confondono la Chiesa con il regno di Dio, progettano una cristianità che appartiene al passato, che non può essere risuscitata e che, soprattutto, contraddice la buona notizia di Gesù. Non si dimentichi quanto affermato dalla Gaudium et spes: «La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza (...). È suo diritto predicare la fede (...) e dare il suo giudizio morale, (...) e questo farà utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti» (n. 76).
Come amava ripetere Giovanni XXIII, «non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio»: grazie al Vaticano II possiamo affermare che oggi comprendiamo il Vangelo meglio di ieri, e proprio per questo motivo è più grande il nostro debito verso l’umanità. Quali autentici discepoli di Cristo siamo dunque chiamati a vivere quella che mi piace definire “differenza cristiana”, ossia un’esistenza diversa rispetto a quella di chi non si definisce cristiano. E questo non per un’ostinata volontà di distinzione, ma perché la vita dei cristiani, essendo modellata su quella di Gesù Cristo è di fatto diversa dalla vita mondana: nessun disprezzo per gli uomini nostri fratelli, ma la lucida coscienza di essere chiamati a «stare nel mondo senza essere del mondo» (cfr. Giovanni, 17, 11-16). In altre parole, o nella compagnia degli uomini sapremo essere come lievito nella pasta, come sale capace di dare sapore, oppure saremo quel sale di cui Gesù ha detto che, avendo perso il sapore, «serve solo a essere calpestato dagli uomini» (Matteo, 5, 13).
E questo — lo ripeto — va fatto con grande simpatia verso tutti gli uomini, poiché la fedeltà allo spirito del concilio ci insegna che solo a condizione di essere vissuto e narrato sotto il segno della misericordia il cristianesimo saprà essere eloquente; solo una Chiesa che saprà usare misericordia, che sempre preferirà la “medicina della misericordia” alla verga del castigo, che rifuggirà dal nascondersi dietro lo splendore di una verità che abbaglia e ferisce, solo questa Chiesa sarà capace di raccontare i tratti di Gesù suo Signore e di essere così ascoltata dagli uomini. In questo esercizio quotidiano il Vaticano II sta davanti a noi come bussola capace di orientare il cammino della vita cristiana, come «novella Pentecoste» le cui feconde intuizioni attendono ancora di essere pienamente realizzate: sì, quella tracciata dal concilio è davvero la via da percorrere, per giungere a «dilatare gli spazi della carità (...) con chiarezza di pensiero e con grandezza di cuore» (Giovanni XXIII, 21 aprile 1959).
L'Osservatore Romano

Maria Voce: «Le donne nella Chiesa devono avere pari dignità»



Intervista a Maria Voce a cura di Gian Guido Vecchi
in “Corriere della Sera” del 30 novembre 2013
A chiederle se le dispiace di non poter essere un sacerdote, lei che è una delle donne più influenti
della Chiesa, si fa una risata sommessa: «Guardi, conosco pastore evangeliche legate al movimento,
amiche e donne eccezionali che fanno molto bene nelle loro chiese, però io non ho mai pensato che
la possibilità di diventare sacerdote aumentasse la dignità della donna. Sarebbe solo un servizio in
più. Perché il punto è un altro: come donne, quello cui dobbiamo tendere, mi sembra, è vedere
riconosciuta la pari dignità, la pari opportunità nella Chiesa cattolica. Servizio e non servitù, come
dice lo stesso Papa Francesco...». Maria Voce guida dal 2008 i Focolari, due milioni e mezzo di
aderenti in 182 Paesi, l’unico movimento guidato per statuto da una donna. È succeduta alla
fondatrice, Chiara Lubich, che la chiamava «Emmaus» ed è sepolta poco distante, nella piccola
cappella del centro mondiale di Rocca di Papa, con la vetrata che guarda tra i pini la sua casa e, di
fronte alla lapide, un mosaico a rappresentare Maria come Madre della Chiesa. Il 7 dicembre
saranno passati 70 anni dalla «consacrazione a Dio» di Chiara. Una donna laica che anticipò diversi
temi del Concilio. «La Chiesa come apertura, comunione, amore reciproco...».
Qual è oggi il ruolo delle donne nella Chiesa, e quanto sono ascoltate?
«Il ruolo è quello di ogni essere umano, uomo o donna, che appartiene alla Chiesa come corpo
mistico di Cristo. Come venga considerato da altri, invece, è una cosa un po’ diversa. Mi pare che le
donne non abbiano ancora molta voce in capitolo. Tante volte si riconoscono loro i valori di umiltà,
docilità, flessibilità, però un po’ ci si approfitta di questo. Il Santo Padre, del resto, ha detto che gli
fa pena vedere la donna in servitù, non la donna a servizio: il servizio è una parola chiave del suo
pontificato, ma in quanto servizio d’amore. Non nel senso di servizio perché sei considerata
inferiore e quindi sottomessa. In questo credo ci sia ancora da fare».
Il Papa ha detto che bisogna pensare una «teologia della donna». Che significa, per lei?
«Io non sono una teologa. Ma il Papa ha dato il titolo: “Maria è più grande degli apostoli”. È bello
che lo dica, è molto forte. Però da questo deve venire fuori la complementarietà. La partecipazione
anche al magistero, in un certo senso...».
In che senso?
«Chiara pensava Maria come il cielo azzurro che contiene il sole, la luna e le stelle. In questa
visione, se il sole è Dio e le stelle i santi, Maria è il cielo che li contiene, che contiene anche Dio:
per volontà proprio di Dio che si è incarnato nel suo seno. La donna nella Chiesa è questo, deve
avere questa funzione, che può esistere solo nella complementarietà con il carisma petrino. Non può
esserci soltanto Pietro a guidare la Chiesa, ma ci deve essere Pietro con gli apostoli e sostenuto e
circondato dall’abbraccio di questa donna-madre che è Maria».
Per Francesco bisogna riflettere sul posto della donna «anche dove si esercita l’autorità».
Come si potrebbe fare?
«Le donne potrebbero guidare dei dicasteri di Curia, per dire, non vedo difficoltà. Io non capisco
perché, ad esempio, a capo di un dicastero sulla famiglia ci debba essere necessariamente un
cardinale. Potrebbe benissimo esserci una coppia di laici che vivono cristianamente il loro
matrimonio e, con tutto il rispetto, sono di sicuro più al corrente di un cardinale dei problemi della
famiglia. Lo stesso potrebbe valere per altri dicasteri. Mi pare normale».
Che altro?
«Penso alle Congregazioni generali prima del conclave. Potrebbero parteciparvi le madri superiori
delle grandi congregazioni, magari rappresentanti elettivi delle diocesi. Se l’assise fosse più ampia,
aiuterebbe anche il futuro Papa. Del resto, perché deve consultarsi solo con gli altri cardinali? È una
limitazione».
Può valere anche per il gruppo cardinalizio di Consiglio voluto da Francesco?
«Certo. Non vedo un gruppo di sole donne che si aggiunge. Sarebbe più utile un organismo misto,
con le donne e altri laici che assieme ai cardinali possano dare le informazioni necessarie e delle
prospettive. Questo mi entusiasmerebbe». 
E le donne cardinale? Si parlò di Madre Teresa, come l’avrebbe vista? 
«Vorrei capire come si sarebbe vista lei! Una donna cardinale potrebbe essere un segno per 
l’umanità, ma non per me né per le donne in generale, credo. Non mi interessa. Sarebbe una persona
eccezionale che è stata fatta cardinale. Va bene, ma poi? Grandi figure, sante e dottori della Chiesa, 
sono state valorizzate. Ma è la donna in quanto tale che non trova il suo posto. Ciò che va 
riconosciuto è il genio femminile nel quotidiano». 
La famosa complementarietà... 
«Certo. Parlavo di carisma petrino e carisma mariano. Ma in generale direi fra uomo e donna, la 
complementarietà iscritta nel disegno divino. L’uomo a immagine di Dio, “maschio e femmina li 
creò”, non si realizza altrimenti. Vale pure per i consacrati: anche se uno rinuncia al rapporto 
sessuale non può rinunciare al rapporto, alla relazione con l’altro». 

*

Il Papa, le donne e la tentazione clericale

I paragrafi dell'«Evangelii gaudium» che ribadiscono il no al sacerdozio femminile ma chiedono che l'ordine sacro sia vissuto come un servizio, non un potere

ANDREA TORNIELLI

 
Alcuni paragrafi dell'esortazione apostolica «Evangelii gaudium» sono illuminanti per comprendere che cosa intenda il Papa  quando parla di valorizzazione della donna nella Chiesa e al contempo mostrano quanto lontana sia dalla visione di Bergoglio la stravagante e clericalissima idea di creare delle donne cardinale. Francesco non si limita a ribadire il no al sacerdozio femminile, rinnovato da Giovanni Paolo II con la lettera apostolica «Ordinatio sacerdotalis» nel maggio 1994, uno dei documenti più brevi e densi del suo pontificato, ma aggiunge delle riflessioni in merito al servizio e al potere.

 
Innanzitutto, Francesco scrive che «la Chiesa riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società, con una sensibilità, un’intuizione e certe capacità peculiari che sono solitamente più proprie delle donne che degli uomini. Ad esempio, la speciale attenzione femminile verso gli altri, che si esprime in modo particolare, anche se non esclusivo, nella maternità».

 
«Vedo con piacere - aggiunge il Papa - come molte donne condividono responsabilità pastorali insieme con i sacerdoti, danno il loro contributo per l’accompagnamento di persone, di famiglie o di gruppi ed offrono nuovi apporti alla riflessione teologica. Ma c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Perché il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali».

 
«Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne - afferma Francesco - a partire dalla ferma convinzione che uomini e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere. Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo sposo che si consegna nell’eucaristia, è una questione che non si pone in discussione, ma può diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il potere».

 
Il problema nasce dunque anche da questa eccessiva identificazione: il sacerdozio, il ministero ordinato, è un potere. «Non bisogna dimenticare - chiarisce il Papa - che quando parliamo di potestà sacerdotale ci troviamo nell’ambito della funzione, non della dignità e della santità. Il sacerdozio ministeriale è uno dei mezzi che Gesù utilizza al servizio del suo popolo, ma la grande dignità viene dal battesimo, che è accessibile a tutti. La configurazione del sacerdote con Cristo capo - vale a dire, come fonte principale della grazia - non implica un’esaltazione che lo collochi in cima a tutto il resto». È il battesimo che ci fa figli di Dio, è da quel sacramento che viene la grande dignità per tutti gli appartenenti al popolo di Dio. È vero che il sacerdote agisce «in persona Christi», configurato a Cristo, per essere mediatore della grazia. Ma questo non significa che il prete debba essere in cima a tutto e a tutti.

 
Nella Chiesa, infatti, ricorda Bergoglio, «le funzioni non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri. Di fatto, una donna, Maria, è più importante dei vescovi. Anche quando la funzione del sacerdozio ministeriale si considera “gerarchica”, occorre tenere ben presente che è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo. Sua chiave e suo fulcro non è il potere inteso come dominio, ma la potestà di amministrare il sacramento dell’eucaristia; da qui deriva la sua autorità, che è sempre un servizio al popolo». Un servizio, non un potere. Ricordarlo è il migliore antidoto contro la sempre risorgente patologia del clericalismo, di quella separazione, di quell'autocompiacimento che rischia talvolta di far percepire il clero come una casta. L'immagine del pastore così come emerge dal magistero di questi primi mesi del pontificato è lontana anni luce da qualsiasi tentazione clericale. Il pastore «con l'odore delle pecore» non guida soltanto il gregge, ma ci in mezzo e cammina anche dietro al gregge per far sì che nessuno resti indietro.

 
La potestà derivante dall'ordine sacro non si deve percepire come potere ma come servizio. E anche se le donne non possono avere accesso al servizio dell'ordine sacro, questo non significa che non possano e non debbano essere molto meglio valorizzate nella vita della Chiesa, anche là dove si prendono le decisioni. «Qui si presenta una grande sfida per i pastori e per i teologi - conclude Francesco nell'esortazione apostolica - che potrebbero aiutare a meglio riconoscere ciò che questo implica rispetto al possibile ruolo della donna lì dove si prendono decisioni importanti, nei diversi ambiti della Chiesa».