lunedì 27 gennaio 2014

Quando la Chiesa riammetteva i divorziati risposati alla Comunione




La tesi del teologo Cereti: nel primo millennio gli adulteri erano riammessi nella comunità dopo un periodo di penitenza e potevano accedere alla comunione pur restando nel nuovo matrimonio

FABRIZIO MASTROFINI


La Chiesa ha il potere di assolvere tutti i peccati, anche l’aver infranto il patto coniugale. Non è teoria, è la prassi pastorale del Primo Millennio. La tesi, con le argomentazioni del caso, è di don Giovanni Cereti, teologo, già docente in diversi atenei pontifici. Il lavoro di don Cereti, impegnato da 40 anni e più su questo fronte, è stato sempre marginale e nascosto. Fino all’arrivo di Papa Francesco ed in vista del Sinodo 2014 sulla famiglia.

Nei giorni scorsi don Cereti ha svolto un intervento al convegno dell’Associazione Teologica Italiana (Ati) dove ha riassunto le sue tesi. Nelle ultime settimane è uscita la nuova edizione di un volume addirittura del 1977, intitolato «Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva», che espone in maniera ampia i fondamenti della sua analisi.

La Chiesa primitiva, nota Cereti, deve fare i conti con la realtà del peccato, sempre in agguato, nonostante la convinzione che con la vita nuova data da Cristo non si dovesse peccare più. E tra i peccati il più grave, oltre all’omicidio, era l’adulterio, anche sulla base del passaggio evangelico riportato in Matteo 5,32; 19, 2-9; in Marco  10, 1-12; Luca 16, 18. «Un tale peccato di adulterio – ha spiegato Cereti all’Ati – poteva essere assolto per cui coloro che dopo un anno o più di esclusione dall’Eucaristia e di sottomissione alla penitenza venivano riconciliati, erano riammessi nella comunità e potevano accedere alla comunione pur restando nel nuovo matrimonio». La base è il Canone 8 del Concilio di Nicea, che si riferisce agli eretici novaziani che vogliono rientrare nella Chiesa. Il Canone 8 spiega che per venire riammessi devono accettare apertamente una serie di dottrine, tra cui la riammissione alla comunione per chi si è sposato la seconda volta.

Don Cereti, dopo aver sottolineato l’autenticità del Canone 8, riportato in tutti i codici con i Decreti di Nicea, ha spiegato ai suoi colleghi teologi che «proprio di fronte all’errore dei novaziani che non volevano riconoscere alla Chiesa il potere di assolvere tutti i peccati, compresi ‘quelli che conducono alla morte’, la Chiesa cattolica ha preso più chiaramente coscienza del fatto che Cristo le ha affidato il potere di esercitare la misericordia nei confronti di qualsiasi peccatore, pentito e deciso ad iniziare una nuova vita secondo i dettami del Signore».  La Chiesa primitiva, riassume Cereti, poteva assolvere qualsiasi peccato perché interprete della misericordia divina; inoltre in quei tempi una volta posta fine alla prima unione si poneva «il problema di vivere bene e fedelmente nella seconda unione». Interpretazioni diverse sulle seconde nozze, in senso rigorista, come le conosciamo oggi, sono entrate nella Chiesa solo nel secondo Millennio.

Nel libro, giunto oramai alla terza edizione, don Cereti analizza in maniera più dettagliata e diffusa la problematica, con un’approfondita discussione delle soluzioni del presente di fornte alla casistica delle separazioni e delle unioni civili e della prassi della Sacra Rota. Così il confronto con la prassi della Chiesa primitiva si fa stringente.

Per concludere che la soluzione «penitenziale» della Chiesa primitiva, come risalta dalle fonti consultate, «corrisponde alla concezione attuale del matrimonio come ‘comunione di amore e di vita’ più della già ricordata ‘prassi approvata per il foro interno’ che consiste nell’invito a vivere ‘nella nuova unione come fratello e sorella’ al fine di poter ricevere l’eucaristia, quasi che l’essenza di un’unione coniugale consistesse solo nell’esercizio degli atti coniugali. Essa infine consentirebbe una maggiore valorizzazione del sacramento della riconciliazione (…). La remissione di questi peccati più gravi, attraverso tale sacramento, eventualmente anche in qualche forma pubblica, una volta che è accertato il pentimento per il passato e la sincera buona volontà di una vita nuova per l’avvenire, potrebbe costituire l’occasione per un riavvicinamento alla fede di molti che oggi si sentono esclusi dalla comunione ecclesiale e nello stesso tempo per una forte rivalutazione dello stesso sacramento della riconciliazione nella coscienza dei cristiani».

Tesi, ci spiega a voce don Cereti, che hanno suscitato un rinnovato interesse, sia per l’ampiezza della documentazione, sia per la nuova consapevolezza di dare una soluzione ad un problema oggi molto vivo e sentito, ed in vista del Sinodo dei vescovi del prossimo ottobre.

Cereti G., Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Roma, Aracne 2013. pp. 437, euro 26.

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Perchè sposarsi in Chiesa? Note a margine di una disputa cardinalizia

di Lorenzo Bertocchi
Perché venite a sposarvi in Chiesa? Questa la domanda che un parroco saggio dovrebbe porre alla coppia che va a prender contatti per combinar la data. Oggi sarebbe più corretto chiedere perché si sceglie di sposarsi, visto che non è così scontato, ma fermiamoci alla domanda iniziale. 
Recentemente il Card. Maradiaga, capo degli 8 porporati consiglieri del Papa, si è rivolto al Prefetto della Dottrina della Fede, l’Arcivescovo e prossimo Cardinale Muller, dicendo: “È un tedesco, nella sua mentalità c’è solo il vero e il falso. Però io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile, quando ascolti altre voci”. La flessibilità richiesta a Muller è sul tema della crisi del matrimonio e in particolare sulla questione della comunione ai divorziati risposati che, ultimamente, sembra essere diventata l’ombelico del mondo ecclesiale. A questo proposito il cardinale sud americano rimprovera al tedesco di avere poca sensibilità pastorale: «La Chiesa è tenuta ai comandamenti di Dio» e a ciò che Gesù «dice sul matrimonio: ciò che Dio ha unito, l’uomo non deve separarlo. Però ci sono diversi approcci per chiarire questo. Dopo il fallimento di un matrimonio ci possiamo per esempio chiedere: gli sposi erano veramente uniti in Dio? Lì c’è ancora molto spazio per un esame più approfondito”.
Maradiaga sembra farsi paladino di una posizione “misericordiosa”, rispetto ad un’altra più “dottrinale”. In altre parole, secondo lui, prima di mettere paletti è necessario anteporre una certa “flessibilità” per trovare nuove soluzioni. Quali? Maradiaga non lo dice, si limita a ricordare che forse occorre riflettere sul fatto che tanti si sposano in chiesa senza avere consapevolezza del sacramento. La domanda iniziale – perchè venite a sposarvi in Chiesa? – diventa quindi fondamentale.
Ma, visto il fallimento di tanti matrimoni, si fa ancora questa domanda? Anche questa, infatti, sembrerebbe misericordia, di quella che potremmo ascrivere alla categoria “prevenire è meglio che curare”.
Da anni ormai si propinano ai promessi sposi i cosiddetti “corsi prematrimoniali”, un continuo cantiere dall’efficacia piuttosto scarsa. Sono state schierate truppe di psicologi, visione di film e documentari stile Quark, eppure questo corso, salvo eccezioni, viene vissuto spesso come un peso, oltre che dagli aspiranti sposini, anche dagli stessi parroci. Non c’è bisogno di grandi analisi sociologiche per avvertire che tante coppie vanno a sposarsi in chiesa semplicemente perché “la mamma (o la nonna) ci tiene tanto”, perché “fa scena”, o perché “credo in Dio, ma mica quello della Chiesa.”
In fondo S.E. Muller sull’Osservatore romano aveva semplicemente sottolineato che non si può confondere la misericordia verso casi di sofferenza, con la realtà di un sacramento. La misericordia di Dio – ha scritto – non è una dispensa dai comandamenti di Dio e dalle istruzioni della Chiesa; anzi, essa concede la forza della grazia per la loro piena realizzazione, per il rialzarsi dopo la caduta e per una vita di perfezione a immagine del Padre celeste.”
Quindi tra le nuove soluzioni pastorali richiamate da Maradiaga, prima di chissà quali “flessibilità”, sarebbe opportuno darsi da fare per chiarire ai promessi sposi cos’è un sacramento e per rianimare un malato in gravissime condizioni: il fidanzamento.
Il “corso pre-matrimoniale”, il più delle volte una specie di cartellino da timbrare, per essere una cosa seria dovrebbe poter suscitare domande forti: chi è Dio?, cosa centra la Chiesa con il mio matrimonio?, cosa è la castità?, cosa significa amarsi “finché morte non ci separi”? Se non è così, meglio andare dal sindaco o al bar. Questioni psicologiche di dinamica di coppia vengono dopo queste domande, invece, la Chiesa, troppe volte, più che un ospedale da campo qui sembra essere un centro di counseling.
Di fronte all’innegabile crisi del matrimonio sarebbe bello sentir parlare anche di soluzioni pastorali che si preoccupino innanzitutto di far capire davanti a chi ci si sposa. Vanno beni i convegni, i Master in famiglia e dintorni, le conferenze, i libri, ma poi sul campo bisogna buttare il cuore oltre l’ostacolo, senza paura di impopolarità. E imparare a dire qualche no a chi viene in canonica per fissar la data. Anche questa potrebbe essere “flessibilità pastorale”.