mercoledì 29 gennaio 2014

Teologia biblica e semplificazioni culturali



Nel documento della Commissione teologica internazionale su monoteismo e violenza.



(Pierangelo Sequeri)
Il concetto di “monoteismo”, nella tarda modernità per lo più oggetto di dotte dispute degli storici delle credenze, interessati all’evoluzione umana dell’idea del divino, è ritornato in questione fra gli intellettuali come principio e fondamento di una giustificazione religiosa della violenza. La relativa novità di questa ripresa può essere colta attraverso la sua saldatura con una duplice semplificazione, che si propaga nella cultura sociale con l’ovvietà di un luogo comune, presuntivamente stabilito dalle scienze della cultura. La prima semplificazione sta nella tesi secondo cui l’intrinseca vocazione alla violenza iscritta nell’istituzione della credenza in “un solo Dio” si rifletterebbe in ogni forma storica della coscienza che si impegni a perseguire, come scopo condiviso e dignità comune, la separazione del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. La seconda semplificazione consiste nella riduzione del monoteismo incriminato ai “tre” monoteismi dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam, enfatizzando sommariamente il loro perdurante e pericoloso anti-umanesimo. La semplificazione è troppo spesso formulata senza riguardo né cognizione per ciò che nelle religioni stesse vuole essere inteso: sia nella tradizione e nella dottrina a riguardo della manifestazione e della comprensione dell’unico “Dio”; sia nell’esperienza di dedizione e di umanità che milioni di uomini e donne attingono sinceramente alla religione.
L’impostazione discorsiva del capitolo I suggerisce molti spunti che, a questo riguardo, possono (anzi devono) essere culturalmente articolati, per essere restituiti all’onestà intellettuale di una coscienza condivisa. La storia della violenza fra gli uomini e la storia dell’esperienza religiosa si intrecciano problematicamente — si contaminano e si contrastano — da sempre. Il testo della Commissione teologica internazionale riconosce apertamente questo elemento dialettico. La storia religiosa dell’uomo è anche storia di incoerenza, di infedeltà, di strumentalizzazione nei confronti della religione medesima. Da questo punto di vista, però, la stessa storia della ragione umana — quella moderna non fa certo eccezione — ha i suoi nodi da sciogliere (se pure sono sciolti). La civiltà occidentale è l’unica che abbia riflettuto sulla violenza in termini radicali, nell’intento di venirne a capo con la mediazione del logos, fin dalle sue origini greche. La ragione secolarizzata ha però anche il triste primato di una applicazione sistematica del logos alla violenza, in vista della costruzione di apparati finalizzati alla sua produzione e riproduzione razionale. Se si deve parlare di violenza del pensiero unico, si dovrà pur parlare anche di questo. La religione può essere strumentalizzata — contro la sua natura — per la violenza politica. Ma la violenza politica della secolarizzazione e dell’ateismo, nell’età della ragione, non è apparsa meno devastante.
Le formulazioni ideologiche che inducono a pensare la religione e la violenza come le due facce di un identico principio, denunciano del resto apertamente il tratto irriducibilmente dispotico iscritto nella stessa idea di “verità”, in ragione del suo storico legame con la metafisica del divino e con la fede cristiana in Dio. Il capitolo I del nostro documento, senza entrare nei dettagli, si limita a richiamare l’attenzione sul fatto che una simile idea di verità riflette piuttosto il pregiudizio razionalistico della sua separazione dalla coscienza e dalla libertà dell’uomo. È il razionalismo, infatti, che ha introdotto l’idea di una manifestazione della verità estranea alla responsabilità della sua accoglienza. Il “deismo” stesso, a esempio, che (contro ogni prevedibile attesa) è tradizionalmente respinto dalla teologia cristiana, è un esempio di monoteismo “razionale” che si è separato dalla rivelazione del legame fra la comunicazione personale di Dio e la responsabilità personale della fede. In tal modo esso divenne anche aggressivo, in nome di una ragione legittimata dall’Essere supremo e dalla Natura divina, nei confronti delle stesse tradizioni religiose. Recentemente, il pregiudizio critico nei confronti del monoteismo viene corredato dalla proposta di riconoscere al “politeismo” religioso una migliore congruenza con l’istanza pluralistica e tollerante della moderna convivenza civile. Un tale contrappunto appare poco più che un espediente retorico (che fa il verso al “politeismo dei valori” di cui ha parlato Max Weber). Storicamente, il politeismo religioso non ha affatto mostrato — né mostra ora — di essere necessariamente tollerante ed estraneo alla contaminazione con la violenza. Nella sua ingenua applicazione metaforica all’odierno pluralismo della tolleranza, poi, è trascurato gravemente il fatto che, nell’attuale regime di esaltazione del sé individuale e di gruppo, la pacifica convivenza degli idoli appare totalmente improbabile.
Il documento della Commissione teologica internazionale dichiara apertamente di volersi impegnare in un chiarimento del “monoteismo”, assumendosi esclusivamente la responsabilità diretta della testimonianza e dell’intelligenza della fede cristiana, per quanto essa può (e deve) legittimamente essere iscritta in quella formula. Nel capitolo II, il testo del documento affronta direttamente il processo di formazione — e di lenta purificazione — della fede biblica nell’unico Dio. Questo processo va riconosciuto come una storica progressione della manifestazione di Dio, che conduce il popolo dell’alleanza al riconoscimento della prospettiva autentica della sua rivelazione: il “Dio” della promessa e della salvezza del popolo è il “Dio” della promessa e della salvezza per tutti i popoli. L’esperienza dell’esilio e della liberazione introduce il principio di una profonda conversione all’alleanza di Dio — Creatore e Signore del mondo — come grazia donata per la fede, e non come scontato possesso di un privilegio. La predicazione dei Profeti, infine, apre questa dimensione di fede all’orizzonte della testimonianza escatologica: ossia del giorno dell’ultima rivelazione di Dio, che “deve venire”. Il giorno di Dio è il giorno di esultanza per il popolo dell’alleanza, perché è anche il giorno del riconoscimento dell’estensione della sua promessa di alleanza all’intera creazione. Di questa rivelazione definitiva di Dio, la conciliazione fra i popoli (di qualsiasi tribù, nazione e religione) porta a compimento i segni. Il superamento di ogni conflitto e la gioia di ogni creatura ne rivela il senso.
In questa storia, l’ascolto e la decifrazione della parola di Dio si trovano certamente coinvolti in un lento apprendistato della religione autentica: inevitabilmente plasmata dagli effetti mimetici e insieme conflittuali della sua prossimità con le religioni locali; ma anche incalzata a prendere distanza dalla loro rappresentazione del divino e dalla loro visione della storia. L’approdo dell’antica rivelazione non può essere sottovalutato: esso fornisce la chiave di lettura più pertinente del suo itinerario. In questa cornice, del resto, si colloca intenzionalmente la novità della rivelazione evangelica di Gesù. Il cristianesimo, nonostante l’inquieta vicenda delle sue interpretazioni del giudaismo, non ha mai ammesso, in nessun momento della sua storia, di congedarsi dalle scritture bibliche che attestano la rivelazione dell’antica alleanza. Né ha mai accettato di considerare il “Dio” di quella rivelazione come opposto a quello della rivelazione di Gesù, come se la novità cristiana potesse fondarsi sulla sua negazione. Rimane nondimeno la difficoltà di intendere esattamente il filo della connessione, attraverso il discernimento inaugurato e ispirato da Gesù stesso. Una difficoltà — per altro largamente nota all’intera tradizione — è rappresentata precisamente dalle pagine che attestano il coinvolgimento di “Dio” in eventi in cui la violenza sembra proprio essere tollerata, e anche prescritta, dalla parola stessa di Dio. In questo senso, il nostro testo parla francamente di “pagine difficili”. La riflessione del documento offre alcuni criteri, non reticenti, di riflessione, che potranno aiutare. Esiste indubbiamente qualcosa di misterioso nella evidenza di questo passaggio della rivelazione di Dio nella violenza: o comunque, attraverso il conflitto. Deve tuttavia essere sempre ricordata la necessità di non formulare giudizi astratti e anacronistici. Dopo tutto, noi stessi, per la maturazione della rivelazione evangelica, abbiamo dovuto percorrere un lungo e faticoso apprendistato di assimilazione: molte parole che abbiamo praticato come deduzione della Parola di Dio hanno infine potuto apparire in tutt’altra luce attraverso la lenta conversione del nostro sguardo, che ha colto in esse un’indebita estensione del senso rivelato. In questa purificazione, per altro, ci siamo trovati anticipati e sostenuti da molte esperienze difformi: in cui molti credenti, già all’origine, sono stati all’altezza dell’intuizione di quel senso autentico. Nelle antiche pagine, in molti modi la testimonianza dell’intimo legame fra la giustizia e la misericordia di Dio prende il sopravvento e fornisce la chiave di lettura di ciò che gli eventi devono insegnare su Dio. E noi stessi, del resto, riconosciamo ora nel martirio cristiano non-violento delle origini una chiave di interpretazione migliore della radicale contraddizione che esiste, sin dall’inizio, fra testimonianza in favore della fede e rappresaglia contro l’incredulità.
La rilettura della rivelazione evangelica che segue — nella luce dell’odierno dibattito e nel contesto del congedo cristiano da ogni ambiguità — è dedicata a illustrare la singolare rivelazione cristiana del mistero del Figlio come principio di riconciliazione fra gli umani. Su questa base, potranno poi essere meglio chiarite le profonde implicazioni della dottrina trinitaria di Dio.
L'Osservatore Romano