martedì 25 febbraio 2014

Il principio pazienza


franziskusdi Andreas Hofer
Da questo segno li riconoscerete,
dalla rovina e dal buio che portano;
da masse di uomini devoti al Nulla,
diventati schiavi senza un padrone.

(G.K. Chesterton)
Alcuni anni fa una nota soubrette confessò d’aver abortito. Il suo compagno, ricco rampollo di un magnate cinematografico, non aveva accolto con entusiasmo, diciamo così, la notizia della gravidanza. Tanto che il suo primo pensiero era stato: come avrebbero fatto ora, con un neonato in fasce, ad andare in barca? Il piacere balneare finì per avere la meglio sugli obblighi della paternità e così i due, di comune accordo, si decisero per l’aborto.
Si staglia in negativo, in questa amara vicenda, l’immagine di una figura maschile che, esatto rovesciamento dell’Ulisse omerico, nega riconoscimento all’essere che ha contribuito a generare nella carne. Un uomo che lascia naufragare il figlio, simbolicamente prima ancora che materialmente, anziché abbandonare l’imbarcazione per accingersi a soccorrerlo. Se ne sbarazza – con disinteresse, almeno apparentemente – invece di sollevarlo, traendolo in salvo, dal deserto d’acqua dove la vita umana non può mettere radici.
Ho spesso pensato, nei giorni immediatamente successivi alla marcia per la vita di Roma, a cosa potesse aver spinto questo agiato erede, cui certo non mancavano i mezzi materiali, a rifiutare in piena coscienza di diventare padre. La semplice combinazione del cinismo e della frivolezza? O forse qualcosa di più profondo, che lo ha privato, lui per primo, di ciò che è autenticamente umano?
Una riflessione che mi porta lontano e finisce per rafforzare in me una convinzione coltivata da tempo, cioè che il destino di unavaterlose Gesellschaft (società senza padri) sia di diventare necessariamente una kinderlose Gesellschaft (società senza figli).
Pedagogia della sterilizzazione esistenziale e massificazione
Sembra vigere, nel nostro mondo, un imperativo categorico: evitare, fin dalla più tenera età, ogni rischio, ogni ferita anche minima, qualunque sforzo; per non parlare degli accenni al lato più tragico e oscuro dell’esistenza. Si pensa che così gli uomini crescano meglio, più sani. In realtà forse li si priva di una componente essenziale della loro umanità. Facendoli crescere in un ambiente che sa più di ospedale che di scuola si rischia solo di farli solo avvizzire precocemente.
Il tipo umano prodotto da questa pedagogia della sterilizzazione esistenziale, che rifiuta ogni strada in salita preferendo chiedere asilo alla comodità liquida e informe delle acque, è stato ben descritto da Josè Ortega y Gasset in celebri pagine della Ribellione delle masse. Ortega lo chiama «signorino soddisfatto», «bimbo viziato», «l’erede che si comporta esclusivamente come erede». Viziare, dice Ortega, «equivale a non frenare i desideri, a dare a un essere l’impressione che tutto gli è permesso e nulla è obbligato».
La comparsa del «signorino soddisfatto», esemplare più rappresentativo di «uomo-massa», è l’anticamera della pre-civiltà. Questo tipo d’uomo, per nulla incline ad «ascoltare istanze esterne superiori a lui», presto o tardi si tramuta infatti nel “neo-barbaro” odierno, che vive nell’intricatissima civiltà tecnica e giuridica che lo ospita alla maniera di un selvaggio che, nato e cresciuto nella foresta, ne gode i frutti – vale a dire i manufatti tecnici, le norme giuridiche, il patrimonio di morale e saggezza, e così via – come se questi scaturissero per generazione spontanea. Come se fossero frutti degli alberi, a portata della mano che altro non deve fare se non coglierli.
L’uomo-massa, affacciatosi alla vita alla maniera del «figlio di famiglia» al quale «tutto è permesso», è convinto di poter fare in società tutto ciò che gli aggrada, come se si trovasse nella propria cerchia familiare (è noto che l’ambiente familiare, osserva Ortega, è una riproduzione soft e artificiale di quello reale: al suo interno si tollerano molti atti che in società, in pubblico, verrebbero sanzionati se non con durezza quantomeno con assai minore indulgenza). Avanza e si impone, ad ogni livello della società, la tipica pretesa del «bimbo viziato»: ereditare senza impegno le comodità, la sicurezza, i vantaggi della civiltà, considerati come “prodotti” acquisiti una volta per tutte e senza sforzo alcuno.
Ogni conquista della civiltà nasce però non dall’istintualità ma dalla progettualità. E ciò è possibile solo in presenza della capacità di contenere le pulsioni immediate, quando si è in grado di differire la soddisfazione immediata di un bisogno.
Senso del limite, contenimento, autolimitazione, autocontrollo. Sono, questi, i contrassegni della personalità adulta e matura. L’incapacità di dilazionare un soddisfacimento immediato, strillare per ogni capriccio è invece l’atteggiamento tipico del poppante o dell’eterno adolescente, cioè di colui che ancora non ha terminato di adolescere, di crescere, laddove “adulto” deriva dal participio passato di adolescere, ad indicare l’individuo in cui ha trovato compimento il processo di crescita e maturazione.
Virilità o virilismo?
Luigi Zoja, nel suo Il gesto di Ettore, ricorda che la genesi della società umana – reale e non artificiale – coincide col momento in cui l’uomo diviene in grado di comporre in equilibrio il polo del maschio (la parte aggressivo-istintuale che l’uomo condivide col mondo animale) con il polo del padre, la facoltà raziocinante, progettuale e autolimitante, l’unica capace di portare a domesticazione l’istinto predatorio dei bruti.
Ciò si mostra con particolare evidenza, fa notare Zoja, se guardiamo alle figure mitiche che hanno plasmato l’immaginario collettivo occidentale.
Prendiamo Enea, che fugge da Troia in fiamme caricandosi il padre Anchise in spalla e portando con sé il figlio Ascanio, quando l’istinto e l’onore gli imporrebbero invece di combattere fino alla morte.
La fuga di Enea non ha nulla della vigliaccheria. Richiede anzi notevole fortezza. Essa è piuttosto il simbolo della pazienza, della prudenza paterna in grado di differire il soddisfacimento immediato dell’istinto di aggressività. Solo così Enea può proteggere la vita altrui sottraendo la propria famiglia dalla rovina e da una morte sicura.
Enea è ben diverso da Achille, uomo dell’ira, non dell’impegno civile. Eroe guerriero, feroce e prepotente, simbolo del maschio aggressivo che vive per l’ebbrezza dell’istante, per la gloria, per la fama e l’istinto. Questo è Achille, personificazione della condizione antipaterna e precivile dell’orda anonima di maschi in lotta tra di loro per le donne, agiti da un’individualità disordinata e immatura, preda degli istinti belluini.
Di questo brulicare di pulsioni nei poemi omerici sono simbolo i Proci. Nemici della figura paterna personificata da Ulisse – omnia illico, “tutto subito”, è un motto che loro ben si adatta – che evoca invece la ragione paziente, il calcolo progettuale, il trattenimento e la responsabilità.
Achille, eroe arcaico, si atteggia come fosse sempre in battaglia, unico rumore che gli sia noto. Perciò strepita orgogliosamente, grida il proprio nome con fare provocatorio per chiamare l’avversario allo scontro, porta scudi scintillanti ed elmi vistosi per impressionare il nemico. Si innalza alla maniera di certi maschi animali, che si gonfiano prima del duello per mostrarsi alla vista. La sua fama deve essere costantemente riconosciuta perché il suo “ego” è tanto fragile da non poter sopravvivere senza pubblico attestato.
Come Enea, Ulisse è piuttosto un Achille pacificato. Non senza un duro confronto con l’”avversario interiore” – scontro raffigurato dal lungo e periglioso vagare attraverso le insidiose liquidità marine – l’Odisseo è riuscito a equilibrare le spinte aggressive e istintuali col raziocinio. In lui il pensiero non è più pulsione primordiale ma, prima di tutto, autodisciplina. Perciò può essere trattenuto.
I due, Achille ed Ulisse, non potrebbero essere più distanti. Achille è la personificazione del virilismo. Violento e impaziente, il suo agire è impulsivo. Ulisse è la personificazione della virilità. Forte e paziente, sa attendere il momento più propizio per agire.
È questo sapersi con-tenere a renderlo capace di donare con generosità la propria vita per far crescere quella altrui, cosa inconcepibile per il narcisismo individualistico e immaturo simboleggiato dai Proci e da Achille. L’ascesa della figura del padre generoso capace di sacrificarsi per i bambini fu una conquista decisiva in un mondo come quello classico dove il genitore aveva più che altro diritti verso i figli, non doveri (in generale l’infanzia godeva allora di scarsissima considerazione, basti pensare che il greconèpios sta sia per “bambino” che per “sciocco”).
Psicologicamente parlando, il “signorino soddisfatto” è l’uomo che resterà sempre maschio, mai diventerà padre. Rimarrà uno dei Proci, l’orda anonima di maschi in balia dei propri istinti incontrollati. Non diventerà Ulisse, l’uomo che abbandona la casa per combattere e poi combatte per ritornarvi.
Rivoluzione senza emancipazione
La figura del padre indica la verticalità del rapporto tra le generazioni, ma anche l’idea di una verticalità morale. Implicitamente le figure paterne di Enea e Ulisse comunicano a ogni uomo di ogni tempo l’esistenza di un mondo valoriale superiore al proprio “io” individuale. Difatti è ad Enea, alla disciplina interiore, che Virgilio assegna la potestà fondativa. A un padre è affidato il compito più alto: dover essere colui che getta le basi dell’impresa che porterà alla fondazione della grande civiltà romana.
Così si vollero vedere i romani, e prima di loro i greci, nei loro spiriti più alti. Miti, i loro, ancor oggi attuali perché senza tempo, immortale, è il messaggio trasmesso. Oggi la cultura dominante ci spinge invece verso il ritorno ai Proci, ai centauri, alle figure del maschile orgiastico, istintuale e aggressivo. Ci viene proposta come modello privato, in quanto individui, la regressione alla condizione precivile dell’orda anonima e indistinta, senza radici. Così abbiamo il contrasto verso le virtù del padre, la lotta senza quartiere a ogni ideale di sacrificio, disciplina, ascesi, abnegazione, rinuncia.
Si capisce quindi che la diffusione generalizzata dell’erotismo, preludio di una rivoluzione senza emancipazione, non può essere che la via maestra verso l’uomo-massa prefigurato da Ortega. Certo non appare strano che al permissivismo di massa si affianchi un modello pubblico all’insegna della progressiva statificazione della vita sociale, con uno stato sempre più invasivo e i suoi “corsi di educazione sessuale” per “scimmioni evoluti”.
La società senza padre in questo modo si coniuga con la proposta tecnocratico-ludica del «caosmos» (caos nel privato e cosmosnel pubblico). Lasciando che il “privato” sguazzi in ogni genere di “libertà trasgressive” (aborto libero, droga libera, gioco libero e così via) si fomenta il caos nella società di modo che, una volta “liquefatta”, non rimanga che una massa informe di individui isolati incapace di opporre resistenza al cosmos “pubblico” retto da agglomerazioni anonime e collettività ipertrofiche.
Schiavitù senza padroni
Il «caosmos» vive della contemporanea presenza di due stati contraddittori: lo stato di selvatichezza e lo stato di barbarie. Lo stato selvatico, ha scritto Ernest Hello, è caratterizzato dal predominio della fantasia dell’individuo sulla società, è la licenza dell’individuo contro la comunità. Nello stato barbarico, al contrario, a predominare è la fantasia della società sull’individuo, è la schiavitù della comunità ai danni dell’individuo.
La selvatichezza, che dispensa l’individuo da ogni obbligo verso la società, si caratterizza in particolar modo per la licenza(negazione del diritto sociale). Più forte qui è l’individuo che opprime l’individuo più debole. La barbarie, che dispensa la società da ogni obbligo verso l’individuo, si caratterizza invece per la schiavitù (negazione del diritto individuale). Più forte qui è la comunità che schiaccia la persona.
Questa schizofrenica lega tra selvatichezza e barbarie pare essersi saldata nella società di oggi, caratterizzata dall’estensione massima dell’idea di mercato e dall’annichilimento della persona umana. Augusto Del Noce vi ha visto la realizzazione della «società economica pura», nella quale ogni realtà, anche le idee e i princìpi morali, è soggetta al consumo. In essa si afferma un totale egocentrismo; totale perché tutto, a cominciare dai rapporti con gli altri, acquista valore solo nella misura in cui può diventare strumento per l’affermazione e il potenziamento dell’io.
La copula tra consumismo e permissivismo, nella visione di Del Noce, genera la «reciproca strumentalizzazione», una «universalizzazione del­la servitù senza un padrone palese». Si tratta della negazione più completa dell’«eterno nell’uomo», cui conseguono il rigetto della comunanza tra gli uomini attraverso fini sopraindividuali, il rifiuto dell’idea di sacrificio rispetto a una realtà superiore e, di conseguenza, l’affermazione del desiderio come unità di misura universale.
Laddove si eclissa la figura del padre inizia ad avverarsi dunque la profezia chestertoniana di un mondo popolato «da masse di uomini devoti al Nulla, diventati schiavi senza un padrone».

II.

Chi non ama la vita, non ha pazienza con essa.
(Romano Guardini)
La fatica per vivere
Si arreca un danno incommensurabile alle nuove generazioni evitando di scomodarle con la verità, nota fin dai tempi antichi, che la vita è anche certamen: lotta, contesa, perciò inscindibile dalle nozioni di sforzo e impegno. La fatica è necessaria, rammenta ancora una volta Ortega y Gasset. Occorre sforzarsi per vivere: «La fatica di un organo sembra a prima vista un male che questo soffre. Pensiamo forse che in una condizione ideale di salute non esisterebbe la fatica. Ciononostante, la fisiologia ha notato che senza un minimo di fatica l’organo si atrofizza. C’è bisogno che la funzione sia eccitata, che lavori e si stanchi perché possa nutrirsi. È necessario che l’organo riceva di frequente piccole ferite che lo mantengono all’erta. Queste piccole ferite sono state chiamate «stimoli funzionali»; senza di esse, l’organismo non funziona, non vive». (J. Ortega y Gasset, Spagna invertebrata, in Scritti politici, Utet, 1979, p. 525).
Stralciare dall’esistenza il minimum inevitabile di fatica rischia di far inabissare un’altra antica certezza del senso comune: la consapevolezza che la società è sintesi di “ordine costruito” (taxis) e “ordine spontaneo” (cosmos). Delicato equilibrio tra istanze della cultura e della natura, la societas è anche – forse principalmente – “costruzione” sociale, non “sottrazione”. Esige un lento e paziente lavoro di edificazione e conservazione.
Come tale, ogni “costruzione sociale” richiede cura e responsabilità. E va soggetta, onde scongiurarne il collasso, a regolare e periodica manutenzione.
Responsabilità e “rischio d’impresa”
Responsabilità e impegno. Vi sono parole più aliene alle orecchie del neo-barbaro contemporaneo?
Il senso etimologico come sempre è chiarificatore. Una possibile etimologia della parola “responsabilità” fa riferimento all’idea di impegno e promessa contenuta nel verbo latino spondeo, da cui re-spondeo. Spondeo compariva nella formula degli sponsalia – la promessa matrimoniale che nella Roma antica precedeva le nozze – con cui il padre si impegnava con lo sposo (sponsus) dandogli in sposa la figlia (sponsa). Lo sponsus, a sua volta, rispondeva (respondeo) all’impegno paterno con una promessa solenne (sponsum).
Non si dà quindi responsabilità senza amore. Essere responsabili è sapersi vincolati alle cose della vita da legami analoghi a quelli che stringono lo sposo alla sposa. Tanto che “impegnato” si dice di chi, disposto a “mettere in pegno se stesso”, sa farsi testimonio e offrirsi come “cauzione” per la persona amata.
Amare, quindi, comporta il rischiare. Del resto, come sa bene ciascun costruttore, ogni “impresa” ha un rischio. Chi vorrà amare dovrà sottoscrivere la rinuncia a comode assicurazioni sulla vita affettiva, dovrà esporsi al rovinoso rischio della ferita. All’amante è preclusa l’invulnerabilità. In questo mondo, ha scritto C. S. Lewis, «non esiste investimento sicuro: amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili». Il “signorino soddisfatto” è irresponsabile verso la civiltà perché, di fatto, ignora le implicazioni di un amore fattivo e reale, il solo in grado di generare prima e di conservare poi.
Idolatria della tecnica e consumo irresponsabile: la lega anti-persona
Le società umane si sviluppano intorno a un intreccio di cultura, civiltà e tecnica. La cultura di un’epoca è rappresentata dal suo patrimonio morale e spirituale. La civiltà è, viceversa, il progresso materiale di una società: la traduzione visibile, tangibile, del proprio capitale di valori immateriali. In questo senso, come avanzamento nei valori solo materiali, non si distingue molto dallatecnica, intesa quest’ultima come insieme di regole per organizzare in maniera più efficiente il progredire della potenza “produttiva” della civiltà.
Il neo-barbaro è indifferente alle sorti della società che lo ospita perché nessuno gli ha insegnato ad amare la cultura, la forma spirituale, il principio ispiratore che l’ha generata. Scartata la cultura, la sua attenzione si volge allora alla civiltà sotto forma di tecnica. E il motivo di questo interesse non è difficile da comprendere. Essere responsabili significa, come si è detto, essere disposti a pagare in prima persona, ad assumere su di sé, per amore, le conseguenze dei propri atti. La deresponsabilizzazione porta, all’opposto, alla pretesa di agire senza “ricadute”, estrema dissociazione tra pensiero e realtà. Per questo la tecnica assume le vesti di deus ex machina. Fruendone si pensa, illudendosi, di poter eliminare le conseguenze – forse indesiderate, ma non per questo meno reali – dei propri atti.
Si capisce agevolmente perché questo tipo umano sia tra i più accaniti sostenitori del “diritto d’aborto”. Da abitante di un artificioso mondo di fantasia che non conosce doveri, obblighi e responsabilità, rivendica con arroganza il consumo immediato delle proprie pulsioni.
Inutile dire che, qualora dovesse malauguratamente fallire la tecnica contraccettiva, per le “conseguenze” è pronta e a portata di mano un’altra soluzione “tecnica”. Non ci sono inappellabili realtà né date irrevocabili nel mondo di sogno dell’eterno adolescente. La palude dell’irrealtà, nella quale ogni termine è sempre il penultimo, non conosce scadenze rigide che possano inderogabilmente mettere di fronte alle proprie responsabilità. In linea teorica ogni linea o scadenza va considerata come infinitamente modulabile. Ogni chiamata può essere spostata in avanti, purché ciò sia tecnicamente possibile, verso un indefinito futuro privo di “sol dell’avvenire”.
Ecco allora entrare in gioco l’opzione dell’aborto – altra tecnica medica graziosamente concessa in guisa di salvacondotto dal premuroso stato-mamma ai capricci dell’”erede” – che contribuisce a dilazionare ulteriormente i termini del “pagamento di pegno”.
L’irrealismo mostra così il suo volto antiumano. Il “principio-persona”, infatti, è strettamente ancorato al principio di realtà. Si diviene persona non in virtù di un processo, ma in forza di un evento o di un atto immediato (1). La persona non è astrazione né prodotto di fantasia. La persona c’è o non c’è. È semmai la personalità ad essere acquisita in modo processuale, attraverso l’agire umano e l’esperienza. Aver legato il principio-persona al principio di piacere, perno di ogni “dittatura del desiderio”, ha consegnato anche la vita umana ai processi consumistici e ai capricci sempre mutevoli dell’apparenza.
L’abisso della spersonalizzazione
Succube dell’opinione à la page, incapace di pensiero autonomo, marchio di una personalità adulta, questo eterno immaturo che è l’uomo-massa si rivela incapace di resistere alla forza dei grandi poteri collettivi. Da qui consegue, insiste Ortega, «che mai come nel nostro tempo queste vite senza peso e senza radici – déracinées dal loro destino – si lasciano travolgere dalla più lieve corrente. La nostra è l’epoca delle “correnti”, del “lasciarsi trascinare”».
L’uomo-massa è così attaccato alle mammelle dello Stato-Provvidenza perché «costui vede lo Stato, lo ammira, sa che c’è, perché gli assicura la vita; ma non ha coscienza che è una creazione umana, sostenuta da determinate virtù, da determinati presupposti che ieri vissero nel cuore degli uomini e che domani potrebbero svanire. D’altra parte l’uomo-massa vede nello Stato un potere anonimo, e sente anche se stesso come anonimo – volgo -, e crede che lo Stato gli appartenga. Immaginiamo che nella vita pubblica di un paese qualsiasi nasca una difficoltà, un conflitto o un problema: l’uomo-massa pretenderà che immediatamente se lo assuma lo Stato, che s’incarichi di risolverlo coi suoi giganteschi e invincibili mezzi. Questo è il maggior pericolo che oggi minaccia la civiltà: la statificazione della vita, l’interventismo dello Stato, il suo assorbimento di ogni spontaneità sociale, ossia l’assorbimento della spontaneità storica che, in definitiva, sostiene, nutre, vivifica il destino degli uomini».
Il neo-barbaro non solo è facile preda degli slogan di quelle “macchine per produrre un pensiero collettivo” che sono le ideologie ma, con altrettanta facilità, è incorporato nei meccanismi delle “macchine sociali”: organismi collettivi, macrorganismi artificiali d’ogni risma e specie (stato, organismi sovranazionali, anonime concentrazioni di potere, potentati economico-finanziari, e via dicendo) in seno ai quali funge alla stregua di semplice ingranaggio del “dispositivo sociale”.
Il “principio pazienza”, ovvero come sopportare per supportare la vita
Arginare la marea montante della “schiavitù senza padroni” è possibile solo a patto di lasciarsi alle spalle l’homo eroticus per ridare spazio all’homo patiens.
La pazienza, ha scritto quel grande educatore di generazioni che è stato Romano Guardini, è una virtù poco allettante, noiosa e faticosa. Eppure essa è essenziale, liberante, essendo quella «che rende possibile un agire effettuale». La pazienza nulla ha della mollezza come la moderazione niente deve alla mediocrità. Reclama anzi forza, molta forza. Senza la forza, la pazienza si riduce a pura passività, a servile subordinazione, a routine “reificata”.
Ma perché si dia autentica pazienza occorre, prima di tutto, amore per la vita.  L’homo patiens, in senso etimologico “colui che sopporta”, è un vero supporter “pro-life”. Poiché il ritmo di crescita della vita umana è l’esito di un lento e graduale processo gli uomini, come gli organismi viventi, crescono e maturano adagio, con lentezza. Le cose della vita perciò, dice Guardini, necessitano di fiducia per poter maturare.
L’homo patiens è un custode della vita che diviene. È colui che per amare e proteggere la vita crescente deve dotarsi della forza necessaria a reggere il páthos. Aver pazienza è prendersi cura del divenire alla maniera del contadino sollecito per il germoglio. È voler reggere la tensione tanto misteriosa quanto delicata tra l’atto e la potenza, tra ciò che l’uomo attualmente è e ciò chepotrebbe essere, tra ciò che riesce a fare e quel che vorrebbe fare.
Deve, l’homo patiens, farsi imitatore del padrone del campo descritto nella parabola evangelica (Mt 13, 24 ss.) e sapere all’occorrenza respingere la tentazione di sradicare prima del tempo la gramigna che ha proliferato ovunque. Perché il Dio biblico non è solo creatore ma è anche reggente che tiene il mondo e lo porta senza disfarsene, pur non avendone necessità. «La pazienza – scrive a giusto titolo Guardini – è la condizione della crescita del grano» giacché «la materia della realtà non cede né all’entusiasmo, né all’eroismo, ma solo allo sforzo perseverante, conti­nuo e sempre rinnovato della pazienza».
La via patientiae è stata di recente additata, con la consueta potenza evocativa, anche da papa Francesco. Solo il principio pazienza può far «maturare la nostra vita», ha detto il pontefice, a sua volta attento a ricordare come pazienza e prudenza non vadano scambiate per rassegnazione o, peggio, confuse con l’ignavia.
Il capriccio e la fretta di avere tutto subito sono le tentazioni di un’anima che vuol scimmiottare l’onnipotenza divina. Ai farisei che chiedevano prodigi e segni immediati Cristo risponde infatti da “adulto”, con la “pazienza di Dio”. Fedele all’esempio del proprio Maestro, la Chiesa ha sempre diffidato degli eccessi dell’estremismo parolaio, ha costantemente condannato il falso martirio predicato – e praticato – da conventicole di esaltati e provocatori.
Non va dato credito ai banditori dell’impazienza, del capriccio e dell’onnipotenza. Coloro che vogliono fare della persona umana niente altro che un homo zoologicus, un fascio d’istinti agito da pulsioni frenetiche, sono solo le avanguardie di una nuova tirannia.
(1) Su questo aspetto è sempre preziosa la lezione di Vittorio Possenti, Il nuovo principio persona, Armando, Roma 2013.