martedì 18 febbraio 2014

Il progetto di Francesco. Dove vuole portare la Chiesa



I poveri e il progetto di Papa Francesco. Non esiste una realtà asettica

Dove va la Chiesa. Anticipiamo uno stralcio del libro Il progetto di Francesco. Dove vuole portare la Chiesa (Bologna, Emi, 2014, pagine 144, euro 10,90). In libreria dal 20 febbraio, è una conversazione fra il teologo argentino Víctor Manuel Fernández e il giornalista Paolo Rodari.
(Víctor Manuel Fernándes)
All’interno della Chiesa vi sono sempre state grandi discussioni riguardo ai poveri e alla cosiddetta “liberazione”, ma nel secolo passato si vennero delineando due posizioni sostanzialmente estreme: la prima voleva ridurre tutto a un’analisi marxista e voleva subordinare completamente la riflessione a determinate analisi sociologiche. L’altra, al contrario, sospettava di qualsiasi discorso sociale e tacciava di ideologia marxista qualsiasi persona che difendesse i poveri.

Le due posizioni degenerarono in America Latina, spingendo i giovani nelle braccia della guerriglia oppure ad appoggiare Governi autoritari e assassini. Il cardinale Bergoglio rifiutò sempre entrambi gli estremi. Per tutta la sua vita si schierò dalla parte dei poveri e agì con forza contro il disprezzo della dignità dei “reietti” della società. Per lui, infatti, i poveri sono il cuore della Chiesa.
Già da giovane visitava i quartieri poveri della città e si fermava a parlare con i più semplici. Lo ha sempre fatto, e certamente non ha smesso quando lo hanno nominato cardinale. Sappiamo tutti che dedicò sempre molto tempo ai sacerdoti che lavoravano nei quartieri più miserabili di Buenos Aires e che li accompagnava durante le loro visite.
Allo stesso tempo, però, ha sempre rifiutato di ridurre la visione della realtà ad alcune analisi puramente sociologiche. Alla Conferenza generale dei vescovi latinoamericani, riunitisi nel 2007 al santuario di Aparecida, in Brasile, sin dall’inizio della preparazione del documento finale, chiese che si evitasse una visione della realtà falsamente asettica. Per un pastore, infatti, lo sguardo è sempre pastorale. Ha ripetuto la stessa cosa nel discorso pronunciato ai vescovi latinoamericani, durante il suo viaggio in Brasile, e lo ha riaffermato nella Evangelii gaudium: «Neppure ci servirebbe uno sguardo puramente sociologico, che abbia la pretesa di abbracciare tutta la realtà con la sua metodologia in una maniera solo ipoteticamente neutra ed asettica. Ciò che intendo offrire va piuttosto nella linea di un discernimento evangelico.È lo sguardo del discepolo missionario» (ibidem, 50).
Il dibattito più importante degli ultimi cinquanta anni si è concentrato su quale dovesse essere il punto di partenza della riflessione della Chiesa. Gli interventi magisteriali hanno sempre rimarcato che la fede della Chiesa, e non la condizione dei poveri, è il punto di partenza fondamentale della stessa riflessione della Chiesa. Lo dice anche Francesco: «Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società» (186).
Il cardinale Bergoglio non ha mai messo in discussione questa affermazione, anche se gli è sempre sembrata insufficiente. Se un cristiano è circondato dai poveri, è da quella realtà che sarà sempre interrogato ed è da lì che nascerà la sua riflessione.
Quindi la dottrina non deve essere la prospettiva unica ed esclusiva dalla quale deve partire la nostra riflessione iniziale, perché ci sono delle altre visioni complementari che possono accompagnare e arricchire lo sguardo della fede. La situazione dei poveri è il «contesto immediato ineludibile» della teologia nei luoghi dove esiste la povertà. Non è la stessa cosa riflettere nella comodità che farlo essendo costantemente interpellati dalla sofferenza di tanti poveri che spesso sono cristiani credenti.
In questo contesto si comprende la necessità di una teologia che sgorghi da una condizione di forte inequità e di marginalità, che sia preoccupata della liberazione integrale di tanti figli e figlie della Chiesa, che vivono immersi nella miseria.
Emerge così chiaramente fino a che punto la fede cattolica possa arrivare a promuovere lo sviluppo integrale dei popoli. Il documento Libertatis nuntius, l’istruzione firmata dal cardinale Joseph Ratzinger il 6 agosto 1984 e dedicata ad alcuni aspetti della teologia della liberazione, ricordava che «i difensori della “ortodossia” sono talvolta rimproverati di passività, di indulgenza o di complicità colpevoli nei confronti delle intollerabili situazioni di ingiustizia e dei regimi politici che mantengono tali situazioni» (XI, 18). Parole citate anche dal Papa nel suo ultimo documento.
Tuttavia, c’è qualcosa che per Francesco è fondamentale: in America Latina i poveri sono credenti, e molti di loro sono cattolici. Quindi, partire dai poveri significa anche partire dalla loro fede, dalla loro religiosità, dalla loro cultura impregnata di fede. Il nostro sguardo verso i poveri non può essere meramente di carattere sociopolitico, non basta scoprire le loro necessità per insegnare loro a lottare, come se fossimo degli illustri redentori di una materia ignorante e decerebrata.
Se dobbiamo veramente partire dai poveri, dobbiamo riconoscerli come soggetti creativi, rispettare il loro stile, il loro linguaggio, il loro modo di guardare alla vita, la loro cultura, le loro priorità, e anche la loro religiosità. È logico che bisogna lottare per loro, difendere i loro diritti, e aiutarli ad andare avanti, però non da fuori o dall’alto, bensì dall’interno. Il cardinale Bergoglio vedeva che questi aspetti non erano tenuti in considerazione da alcuni teologi della liberazione, e perciò le loro proposte non arrivarono mai a entusiasmarlo.
Per lo stesso motivo, nella Evangelii gaudium, dedica tanto spazio allo sviluppo di una teologia e di una spiritualità dell’opzione per i poveri, affermando che «è necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro», raccogliendo «la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (198). Continua: «Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede».

L'Osservatore Romano

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Riporto dal blog di Paolo Rodari
È in libreria “Il progetto di Francesco. Dove vuole portare la Chiesa”. Una conversazione di Víctor Manuel Fernández con Paolo Rodari, Collana «Vita di missione – Nuova serie», Editrice Missionaria Italiana, pp. 144, euro 10,90.
Fernández è rettore della Pontificia Università Cattolica Argentina; è stato uno dei primi vescovi nominati da papa Francesco, elevato nel maggio 2013 alla dignità di arcivescovo. Teologo di pregio, uno dei saggisti più letti in America latina in fatto di teologia e spiritualità, ha un rapporto di assoluta fiducia con il papa che vede in lui un valido consulente e collaboratore. Non a caso fu lui, nel 2007, alla V Conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida, ad aiutare l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio a stendere quel documento finale che sancì l’idea di Chiesa del futuro papa.
Poche persone come Fernández, dunque, possono aiutare a capire chi sia Francesco e verso dove egli vuole che la Chiesa vada. Anzitutto, secondo il teologo argentino, Francesco chiede alla Chiesa un movimento: l’uscita. «Uscire da sé stessi», spiega Fernández, «una categoria-chiave per comprendere a fondo il pensiero e la proposta del papa, perché il Vangelo ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé. È il contrario dell’autorefenzialità che egli tanto deplora». E ancora, su questa idea che è centrale nel magistero dell’attuale pontefice: «Tale uscita richiede di osare, fare il primo passo, non restare seduti sperando che la gente venga ai nostri incontri o ai nostri corsi, avere il coraggio di parlare di Gesù e della propria esperienza di fede a tutti e in ogni luogo. Il papa ci ricorda sempre che la comunità evangelizzatrice non si chiude, ma anzi accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se necessario, e si fa carico della vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo».
È il programma rivoluzionario del Papa venuto da un Paese «quasi ai confini del mondo» che il teologo argentino declama in queste intense pagine: prima dei princìpi, viene l’annuncio del Vangelo, da intendere nel contesto di un rinnovamento della missione della Chiesa. Non ci si può limitare ad annunciare i princìpi morali da seguire. Occorre parlare anzitutto della gioia del Vangelo e del fatto che il Suo annuncio è un annuncio di misericordia. Secondo Fernández l’intento del Papa è di scuotere la Chiesa, di farla uscire dal recinto dei suoi privilegi, oltre le logiche del carrierismo e delle divisioni per arrivare a tutti, specialmente agli ultimi, agli emarginati, a chi non ha nulla. È una Chiesa povera e per i poveri che vuole il Papa, la stessa Chiesa che voleva quando era cardinale a Buenos Aires.
Ecco di seguito la prefazione al libro, firmata da Paolo Rodari:
13 marzo 2013. Verso dove Francesco vuole portare la Chiesa? È la domanda che mi sono fatto nei primi giorni di pontificato di Jorge Mario Bergoglio. E dovendo, da cronista, raccontare il pontificato in corso, è la domanda che ho posto fin dalla chiusura del conclave a tutte le persone che per lavoro ho incontrato o sentito. «Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo… ma siamo qui», ha detto papa Francesco, affacciandosi la sera dell’elezione alla loggia centrale della basilica vaticana. Mi sono chiesto: cosa significa avere un papa che viene dalla fine del mondo? Cosa porterà alla Chiesa? E, soprattutto, dove la porterà?
Giorni dopo l’elezione, ho chiamato un amico vescovo. Avevo intenzione di svolgere un’inchiesta fra i gesuiti e gli ho chiesto il suo parere sulle domande da porre e, in particolare, sul nuovo papa. Mi ha risposto: «Hai letto Il cielo e la terra, il libro che Bergoglio ha scritto con il rabbino Abraham Skorka? Per me sono stati illuminanti i capitoli in cui i due affrontano i temi cosiddetti eticamente sensibili, il matrimonio fra uomo e donna, l’aborto, l’eutanasia ecc. Leggendoli, mi sembra di aver capito che per Bergoglio prima dei princìpi e della loro difesa viene il kerygma, ovvero l’annuncio della buona notizia che è il Vangelo. Mi sembra che questo sia il tratto principale del nuovo papa: i princìpi esistono e non si negano, ma prima occorre annunciare che il Vangelo è amore, misericordia, abbraccio. Insistere troppo sui princìpi non serve e può essere controproducente».
19 settembre 2013. È mattina. Mi trovo a Firenze e squilla il telefono. Mi avvisano che sta per uscire una lunga intervista concessa dal papa a padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica. Mi faccio mandare il testo. Gli spunti sono innumerevoli, ma resto colpito più che altro da un passaggio. Il papa dice: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione». E ancora: «Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali».
Sono parole per me illuminanti. Perché confermano che la prima intuizione suggeritami dall’amico vescovo sembra giusta: Francesco mostra di volere una Chiesa che abbraccia e che non esclude. E ritiene che insistere troppo, quasi ossessivamente, sui princìpi, sia una tattica non consonante con il messaggio evangelico. Beninteso, anche i suoi predecessori volevano una Chiesa siffatta. Ma in Francesco questa sottolineatura pare più accentuata.
21 ottobre 2013. Su Repubblica pubblico una pagina d’intervista a Víctor Manuel Fernández, rettore della Pontificia Università Cattolica Argentina, una delle prime nomine episcopali di Francesco, elevato nel maggio 2013 alla dignità di arcivescovo. Teologo di pregio, ha un rapporto di fiducia con il papa che vede in lui un valido consulente. Non a caso fu lui, nel 2007, alla V Conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida (San Paolo), ad aiutare Bergoglio a stendere quel documento finale che sancì l’idea di Chiesa del futuro papa. Pochi come Fernández, dunque, possono aiutare a capire chi sia Francesco e verso dove egli vuole che la Chiesa vada. Così, a inizio ottobre, lo chiamo a Buenos Aires. Mi risponde una voce cordiale. Gli spiego il mio interesse per il papa, il desiderio di conoscere la sua figura in profondità, le caratteristiche della «sua» Chiesa. Acconsente a che gli invii alcune domande, senza però garantirmi che mi risponderà. Invece, dopo qualche giorno, mi risponde. Non elude nessuna domanda e a quella per me più importante, ovvero se a suo avviso si può dire che Francesco sia il papa che privilegia la misericordia ai princìpi, risponde così: «L’annuncio del cuore del Vangelo prima d’ogni altra cosa è una caratteristica importante di Francesco, ma è da intendere nel contesto di un rinnovamento della missione della Chiesa. Il papa pensa che una Chiesa che vuole uscire da sé stessa e raggiungere tutti debba necessariamente adattare il suo modo di predicare. Soprattutto, egli applica un criterio proposto dal Concilio Vaticano II ma spesso dimenticato e trascurato: la “gerarchia delle verità”. Francesco ci invita a riconoscere che spesso i precetti della dottrina morale della Chiesa vengono proposti fuori dal contesto che dà loro significato. Il problema maggiore si ha quando il messaggio che la Chiesa annuncia si identifica soltanto con questi aspetti che tuttavia non manifestano per intero il cuore del messaggio di Gesù Cristo…». E ancora: «Ci deve essere una proporzione adeguata soprattutto nella frequenza con la quale alcuni argomenti o accenti vengono inseriti nella predicazione. Per esempio, se un parroco lungo l’anno liturgico parla dieci volte di morale sessuale e soltanto due o tre volte dell’amore fraterno o della giustizia, vi è una sproporzione. Ugualmente se parla spesso contro il matrimonio fra omosessuali e poco della bellezza del matrimonio. Oppure se parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del papa che della parola di Dio».
L’intervista esce su Repubblica il 21 ottobre. L’occasione ci fa conoscere meglio e mi porta a fargli una seconda richiesta: perché non pubblichiamo insieme un libro-conversazione tutto dedicato a Francesco, o meglio al suo «programma»? Con mia grande gioia padre Fernández acconsente una seconda volta. Insieme decidiamo di usare l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (EG) come base sulla quale lavorare, avendo ben presente che è stato lo stesso papa a dire che il documento ha un «senso programmatico». E il risultato, dopo il tempo trascorso assieme a Buenos Aires e un’intensa corrispondenza epistolare, sono le pagine di questo libro, un testo che spero risulti utile per chi vuole comprendere fino in fondo la sfida che il papa venuto «dalla fine del mondo» vuole porre alla Chiesa e, insieme, anche a chi è lontano da una vita di fede.
Evangelii gaudium è un programma di pontificato ampio e accurato. L’esortazione apostolica, infatti, firmata dal papa il 24 novembre 2013, festa di Cristo Re dell’universo, formalmente sarebbe dovuta essere «post-sinodale», ovvero semplicemente un approfondimento delle proposizioni che il Sinodo dei vescovi, svoltosi in Vaticano nel 2012 e dedicato alla nuova evangelizzazione, aveva prodotto. In realtà il documento volutamente non riporta la dizione «post-sinodale», proprio perché è, e vuol essere, molto di più, un testo appunto programmatico. E così, partendo da Evangelii gaudium, è stato per noi semplice ampliare l’orizzonte su un papa così sorprendente.
Evangelii gaudium, ovvero la gioia del Vangelo. Sembra essere questa, anzitutto, la direzione. Portare la Chiesa a prendere consapevolezza che il cristianesimo è gioia perché annuncia che Dio è con noi. Una delle azioni maggiormente richieste dal papa è la necessità di «uscire fuori». Uscire dalle proprie convinzioni, comodità, privilegi, idee, per portare il Vangelo di Cristo a tutti senza pregiudizi né preclusioni. Uscire, cambiare, dunque, ripensando daccapo l’intera vita di fede. Il papa non manca di indicare nello specifico alcune riforme e alcuni cambiamenti, esortando «tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure». Non è più il tempo della ritrosia. Francesco vuole che tutti, a cominciare dai semplici fedeli, abbandonino «il comodo criterio del “si è fatto sempre così”». Dice: «Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità».

Questo libro, dunque, nasce anche dallo stupore per questo testo papale, una vera e propria enciclica, secondo quanto hanno scritto diversi osservatori. Stupore per un papa che decide di mettere per iscritto un programma esigente anche verso sé stesso e la propria persona: «Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato». Il cantiere che papa Francesco ha aperto con Evangelii gaudium è ampio e può far venire le vertigini. «Tuttavia – scrive Francesco – non c’è maggiore libertà che quella di lasciarci portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera».