giovedì 27 febbraio 2014

La tiara deposta

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Un anno fa alle ore 20 del 28 febbraio 2013 si concludeva il pontificato di Benedetto XVI

I tre corpi del Papa (Valerio Gigliotti) Non è facile, per il senso comune contemporaneo, considerare una rinuncia come un nuovo inizio; e a questa percezione non si sottrae neppure “la” rinuncia per antonomasia che da un anno a questa parte calca la ribalta giornalistica e saggistica: quella di Benedetto XVI.
La rinuncia, ogni rinuncia, riflette e invera l’esercizio di un potere e, al contempo, di una volontà. La doppia dimensione di eccezionalità (intesa come exceptio) e di straordinarietà (cioè extra ordinem) dell’atto reca in sé una coessenziale valenza volontaristica e potestativo-negativa che costituisce la natura stessa e il fascino intrinseco dell’istituto giuridico della renuntiatio: chi rinuncia esercita, in forma estrema e definitiva, il potere che dismette.

La rinuncia ad un ufficio è infatti istituto giuridico antico, previsto già nel mondo romano; ma sono le dimissioni ad una carica suprema, laica od ecclesiastica, a richiamare l’attenzione dell’Europa medievale e moderna in sede politica e giuspubblicistica. Dall’abdicazione imperiale di Diocleziano e Massimiano (nel 305 dell’era cristiana), a quella di Carlo V (25 ottobre 1555), si può dire che l’istituto della renuntiatio abbia disegnato la grande parabola del potere imperiale medievale, illuminandone l’altra faccia, quella appunto che consente al proprio titolare finanche di autolimitarsi sino ad escludersi dalla carica. Ma le vicende di questo affascinante istituto, sospeso tra diritto e politica, proprio nell’età di mezzo vedono stringere l’intreccio intorno ad un’altra fattispecie, ancora più problematica, di per sé quasi inconcepibile: la rinuncia al papato, carica che vive in questi secoli la sintesi storica per eccellenza tra aspirazioni mistiche (degli Ordini mendicanti e degli Spirituali) e potestas giurisdizionale (difesa dai grandi Papi teocrati, da Innocenzo III a Bonifacio VIII). Ufficio laico e ufficio ecclesiastico, dunque, ancora una volta compaiono affiancati in tensione dinamica tra loro, nella consueta diarchia gelasiana delle duo potestates, sotto il profilo di una forma estrema di esercizio del potere: il suo abbandono volontario. E se certo non frequenti sono stati i casi di abdicazione dei prìncipi annoverati dalla storia, ancor meno furono le rinunce papali, alcune peraltro controverse o leggendarie.
Il tema del Papa che rinuncia, classico nella pubblicistica, nel diritto e nella letteratura medievali (si pensi a Dante, Petrarca, Ramon Llull, Iacopone da Todi), ha da tempo attratto l’interesse della storiografia, non solo giuridica, italiana e straniera. Tuttavia, pur essendo molti i saggi, anche ampi, che trattano la questione sotto i diversi profili disciplinari, mancava ad oggi uno studio unitario che analizzasse in prospettiva storica, giuridica, teologica e letteraria, uno dei più controversi ed affascinanti istituti della storia della Chiesa. Nel tentativo di colmare in parte questa lacuna, il saggio propone al lettore un percorso sistematico che, sia sotto il profilo storico-giuridico, sia sotto quello della storia delle istituzioni e delle idee, permetta di evidenziare l’intreccio e l’interazione di questa molteplicità di fonti intorno alla renuntiatio papae. Il volume contiene una breve analisi storica dei primi presunti casi di dimissioni papali, alcuni dei quali poco più che leggendari, ma che godettero di una grande fortuna nel Medioevo; un’approfondita indagine sul caso più celebre di rinuncia, quello di Papa Celestino V, indagato attraverso le molteplici fonti che lo descrivono; un accenno allo studio della rinuncia papale nel periodo del Grande e Piccolo Scisma d’Occidente, dove l’istituto (tecnicamente denominato cessio) assunse una valenza fortemente connotata politicamente — come dimostra da ultimo il caso dell’antipapa Amedeo VIII di Savoia-Felice V — ed infine un’analisi del recentissimo caso di rinuncia di Benedetto XVI, il 28 febbraio 2013, che ha dato nuovo impulso alla rinuncia papale ridefinendone l’ermeneutica teologica e storico-giuridica. Le ricerche, condotte sulla base di fonti in gran parte inedite reperite presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, si sono proposte come obiettivo l’evidenziare la centralità della renuntiatio papae non solo per il medioevo cristiano ma anche per le conseguenze sul piano storico, giuridico ed ecclesiologico che la disputa culturale ebbe nella storia della Chiesa e che la recente cronaca ha dimostrato essere di estrema attualità.
Ma è proprio l’ultimo, recentissimo evento storico, la rinuncia di Benedetto XVI, a saldare la tradizione con l’attualità in una prospettiva totalmente nuova, che affonda le sue radici nella mistica medievale, da Meister Eckhart al Sandaeus, al modello di rinuncia francescano. L’ormai classica, felice intuizione di Kantorowicz della natura gemina, doppia, della persona del Sommo Pontefice, uomo e vicario di Cristo, si arricchisce ora con la rinuncia di Benedetto XVI di una terza componente, quella della prosecuzione del servizio alla Chiesa anche successivamente l’atto di rinuncia. Non solo più corpo politico e corpo mistico del Papa, ma un corpo ministeriale che assume la propria identità e responsabilità proprio nel momento della rinuncia: sono i tre corpi del Papa. La scelta di Joseph Ratzinger di rimanere «presso il Signore, nel recinto di san Pietro» in qualità di «romano Pontefice emerito» legittima un’impostazione nuova, giuridica ed ecclesiologica, da conferire alla renuntiatio papae. Si apre una vera e propria nuova ministerialità, che nella figura del Papa emerito assume i tratti di un’autentica mistica del servizio. La prospettiva, a ben guardare, è cristologica prima ancora che storica e giuridica: è la rigenerazione istituzionale della kènosis, la novità nella continuità, un nuovo inizio.
La tiara deposta
È in uscita il libro di Valerio Gigliotti La tiara deposta. La rinuncia al papato nella storia del diritto e della Chiesa (Firenze, Olschki, 2014, pagine XL+468). Ne anticipiamo la premessa scritta da Carlo Ossola con una presentazione scritta dall’autore per il nostro giornale.
Rinuncia e annuncio (Carlo Ossolo) Tra le tante letture e interpretazioni seguite alla rinuncia di Benedetto XVI, questa particolarmente mi soggioga, che pose in evidenza il teatro di Reinhold Schneider:
PIETRO DA MORRONE: Preghiamo per il Santo Padre! Il Signore doni la pace alla sua anima e lo protegga dalla vendetta del leone!
AMBROGIO: Ora e sempre!... Ed ora riposa, fratello mio!
PIETRO: Buon riposo, fratello! Si abbracciano. La notte è già oltre la metà del suo corso; l’alba non può essere molto lontana.
AMBROGIO: Fratello, non trovi che fra noi si crei talvolta l’atmosfera di una volta, quando in montagna potevo portarti il pane e pregare insieme a te?
PIETRO: Non esattamente, fratello; tu sei rimasto quello che eri. Io no...
AMBROGIO: Tu credi?
PIETRO: Sì, per il fatto stesso che a questo dito ho portato il vero anello dell’Apostolo. Questo dito non è più quello di Pietro da Morrone, che distribuiva il mangime ai corvi.
AMBROGIO: La cosa tremenda è proprio che il mondo non dimenticherà colui che fu innalzato a un rango così elevato come il tuo.
La rinunzia, infatti, difficilmente riporta a quella agognata Gemeinleben che spesso chi ha rinunziato all’elezione, alla distinzione, a ogni forma di elevazione sopra il vivere quotidiano, vorrebbe riconquistare: quella Gemeinleben mit der Kreatur che, da Eckhart a Silesius, mette in comunione il divino e l’umano. Il potere — testimonia la parabola di Un re in ascolto di Italo Calvino — isola: non più “uomo comune”, non mai abbastanza divino, l’eletto — che mediti sul proprio ruolo — è spurio dalle due parti: doppiamente insufficiente, impossibilitato a condividere, e persino a distinguere, a riconoscere: «Tra i suoni della città riconosci ogni tanto un accordo, una sequenza di note, un motivo: squilli di fanfara, salmodiare di processioni, cori di scolaresche, marce funebri, canti intonati da un corteo di dimostranti, inni in tuo onore cantati dalle truppe che disperdono il corteo cercando di coprire le voci degli oppositori, ballabili che l’altoparlante d’un locale diffonde a tutto volume per convincere che la città continua la sua vita felice, nenie di donne che piangono un morto ucciso negli scontri. Questa è la musica che senti, ma si può chiamare musica? (...) Da quando sei salito al trono non è la musica che ascolti, ma solo la conferma di come la musica viene usata (...). Ora ti domandi cosa voleva dire per te ascoltare una musica per il solo piacere d’entrare nel disegno delle note».
La rinuncia è spesso velata da questa nostalgia dell’autentico e insieme dell’indistinto: la distinzione non pareggia mai la condivisa “indistinzione” dell’anonimato, della regola ordinaria seguita ogni giorno, nella perfezione del gesto ripetuto nel silenzio, nella quiete del Comment vivre ensemble, che fa espungere l’avvenimento, l’occorrenza che perturba un ordine pensato come perpetuo, l’accento che già si stacca impercettibilmente dal velato neutre che è di tutti e di nessuno in particolare, armonia del corale: «Fantasmer le Vivre-Ensemble comme quotidienneté: refuser, rejeter, vomir l’événement. L’événement est l’enne mi du Vivre-Ensemble: a) prescriptions de Pacôme: aucune intrusion des nouvelles dans la communauté. (...) Les systémes durables-intermi nables: sans “initiatives”». (Roland Barthes, Comment vivre ensemble, 1977; § Événement, Paris, Seuil- Imec, 2002, p. 123). «Le Neutre se rait l’habitation généralisé e de l’endeçà, de la reserve, de l’avance de l’esprit sur le corps (...). [Une] “éternité calme et muette”» (Idem, Le Neutre, 1978; Paris, Seuil-Imec, 2002, p. 120, § Retenue e p. 49, § Le silence).
La storia della rinuncia così, e specie se condotta con lo sguardo di chi varca la norma, non per violarla, ma per adempierla, non parla quasi mai della rinuncia: ma di ciò che sarebbe il ruolo — pontificio o regale — nella sua purezza, senza cioè il gravame umano dell’esercizio del potere; la rinuncia non dice alcunché, nella maggior parte dei casi, della diradata clairière che vien preferita dal rinunciante al denso presente, ma addita, nudamente, i limiti, le ostruzioni, le inadempienze dell’esercizio della potestas. La rinuncia alla regalità o al pontificato è la miglior storia della regalità, come è stata pensata possibile: è la storia, accertata, e dunque la rivincita, per una volta, del “ciò che poteva essere”, del “ciò che dovrebbe essere”, sullo scorrere opaco del ciò che è. Non diversamente Bergson, nell’Évolution créatrice, aveva osservato che la negazione è, in realtà, una «affirmation du second degré»: negando affermo una cosa, un concetto, una persona, come esistente, possibile, ma non presente.
Negando, affermo per il futuro. Così, nella sua origine, il verbo latino usato da Benedetto XVI, renuntiare, e più ancora il suo sostantivo renuntiatio non hanno la connotazione di un atto che privi; al contrario hanno, come primo significato, il riaprirsi daccapo di un “nuovo annuncio”, la “proclamazione” di qual cosa che già fu detto: rinunciare/ riannunciare nella renuntiatio hanno la stessa origine, perché attingono a un unico originario euaggèlion.
Da duemila anni un cammino sempre nuovo
Pubblichiamo quasi per intero l’editoriale apparso penultimo numero della rivista «Vida Nueva».
È trascorso esattamente un anno da un evento che non solo ha scosso nel profondo la Chiesa cattolica, ma ha anche occupato pagine e pagine sulla stampa, lunghe ore alla radio e alla televisione e suscitato un’attività senza precedenti nell’universo digitale e nelle reti sociali: Papa Benedetto XVI presentava la sua rinuncia «per l’età avanzata» (aveva allora 85 anni) e perché le sue forze non erano «più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino»; come confessava ai sorpresi cardinali riuniti con lui in un concistoro ordinario per la canonizzazione di vari beati.
Era l’11 febbraio 2013, data che sarebbe passata alla storia ecclesiale (erano sei secoli che non si verificava una situazione simile, anche se per circostanze molto diverse) e che, grazie alla breve notizia diffusa dall’agenzia Ansa, sarebbe stata segnata in rosso come uno degli eventi giornalistici dell’anno. L’annuncio di Joseph Ratzinger si è diffuso in un lampo nelle redazioni giornalistiche e fino all’ultimo angolo del mondo, cattolico e non cattolico.
Superato lo scossone iniziale, sono affiorate le valutazioni e le analisi, dei nuovi seguaci e dei vecchi detrattori, ma tutti hanno concordato nel segnalare che si trattava di un gesto “storico” e “generoso”. Al di là degli aggettivi utilizzati, nessuno ormai dubita che la sua decisione sia stata il frutto di lunghe ore di riflessione e di preghiera, che, unite alla lucidità del grande teologo qual è, lo hanno portato a capire che era giunto il momento di cedere il timone della barca di Pietro a qualcuno che desse impulso, con nuove forze, al rinnovamento interno della Chiesa che lui aveva intrapreso nei suoi quasi otto anni di pontificato.
Gli è mancato il vigore fisico, ma non quello spirituale. Oggi, il Papa emerito continua a pregare dal suo ritiro affinché Francesco, il suo successore, riesca a risolvere molte delle questioni alle quali ha dedicato gran parte del suo tempo e della sua salute: una Chiesa più collegiale, in dialogo con il mondo, che non tolleri più al suo interno abusi sui minori. In tal senso, è stato lui a gettare le basi di quella che in molti chiamano “la rivoluzione di Francesco”.
Il suo segretario personale, Georg Gänswein, ha affermato di recente di essere convinto che «la storia darà un giudizio diverso da quello che spesso si leggeva negli ultimi anni durante il suo pontificato perché le fonti sono chiare e danno acqua chiara». Oggi, a un anno dalla sua rinuncia, ciò sta già accadendo. Basta leggere o ascoltare i commenti fatti in occasione di questo anniversario, per rendersi conto che tale giudizio è unanime: il Papa tedesco ha aperto per la Chiesa un cammino che non ammette passi indietro, e che non è altro che quello segnato più di duemila anni fa da Gesù di Nazaret. È il cammino del distacco dalle cose, che questo pastore, sprovvisto di qualsiasi interesse mondano, oggi invita ognuno di noi a seguire.
Percorrerlo implicherà rinunce, ma ci restituirà anche la speranza di un tempo nuovo nel pellegrinare ecclesiale. Quel gesto “storico” e “commovente” di un anno fa è oggi più che mai un invito ad accompagnare Francesco nell’arduo compito che ha dinanzi a sé.
L'Osservatore Romano