lunedì 31 marzo 2014

Nessuno tocchi Abele

I BUONI LIBRO DI LUCA RASTELLO

​Il Grande Inquisitore, d’accordo. Ci mancherebbe altro che, di questi tempi, non si colga l’occasione per citare I fratelli Karamazov, specie in apertura di un romanzo per il quale la quarta di copertina annuncia «un finale alla Dostoevskij». Ma il fatto strano è che il libro di Luca Rastello si intitola I Buoni (Chiarelettere, pagine 204, euro 14), annovera un sacerdote tra i personaggi principali, ma non sembra tenere in alcuna considerazione quanto Gesù afferma a proposito della bontà. Vangelo di Luca, capitolo 18: a chi gli si rivolge chiamandolo «maestro buono», il Signore risponde bruscamente che «nessuno è buono, se non Dio». La fragilità dell’essere umano, le contraddizioni che la attraversano, l’incapacità di perseguire il bene senza compromettersi in qualche modo con il male sono le componenti della felix culpa  nella quale, sulla scorta di sant’Agostino, la Chiesa riconosce da sempre la premessa irrinunciabile della redenzione. Non avremmo bisogno di essere salvati, se non fossimo tutti, in diversa misura, peccatori.

Che fa, la butta in teologia? Uno scrive un libro severo, di denuncia, come questo di Rastello, e in tutta risposta andiamo a ricordare il peccato originale? In realtà è l’autore stesso a scegliere il terreno di gioco, specie nella parte finale, quando I Buoni sembra abbandonare il cliché del “romanzo a chiave” per spostarsi definitivamente sul piano dell’elaborazione letteraria e – per l’appunto – della disputa teologica. Accusando, nella fattispecie, il carismatico don Silvano di aver sostituito la fede in Dio con l’adorazione riservata all’idolo della legalità. Per capire di che cosa stiamo parlando basterebbe aggiungere qualche elemento della biografia di Rastello: torinese, classe 1961, attivo negli anni Novanta nei Balcani sia come reporter sia come volontario, è stato fra l’altro direttore della rivista «Narcomafie» e ha ricoperto incarichi di responsabilità all’interno del Gruppo Abele.

Per quanto si voglia tenere distinte realtà dei fatti e invenzione romanzesca, il suo don Silvano è con ogni evidenza don Luigi Ciotti, e lo è in ogni minuto dettaglio: il maglione sdrucito al posto della tonaca, l’impegno antimafia, la scorta, le amicizie di rango (dal presidente della Repubblica a Gad Lerner, senza tenere conto di quanti appaiono nel libro con generalità di fantasia), perfino certi vezzi linguistici, come il ricorso continuo all’espressione “metterci la testa”. E la rete di attività che dal Gruppo Abele arriva fino a Libera, una galassia di iniziative che è forse la vera protagonista del romanzo e alla quale Rastello affibbia l’insegna, subito sprezzante, di “In punta di piedi”. Per brevità, i “Piedi”. Dell’identificazione tra don Silvano e don Ciotti fa parte anche la rievocazione di un episodio risalente al 2011, ma divenuto di pubblico dominio solo da poco, e cioè l’esposto di un giovane collaboratore siciliano che affermava di essere stato malmenato dal sacerdote. La lettera di scuse che appare nei Buoni coincide, quasi alla lettera, con quella effettivamente inviata da don Ciotti.

Romanzo a chiave, si diceva, anche se in effetti questo è più che altro un romanzo chiavi in mano: racconta un mondo e, insieme, fornisce le istruzioni per interpretarlo. Lo fa assumendo il punto di vista di Aza, diminutivo di Azalea (ma don Silvano la ribattezzerà Lea), una ragazza che viene dalle fogne di Bucarest e che in Italia vorrebbe riscattarsi da un passato di terribile degradazione. Accolta tra i “Piedi”, scala abbastanza rapidamente la gerarchia interna di quella che, pagina dopo pagina, assume sempre di più le caratteristiche di una raccapricciante holding del bene, con tanto di fondi occulti e comportamenti antisindacali. La requisitoria di Rastello si basa principalmente sul trattamento riservato ai dipendenti: sottopagati, o addirittura non pagati, oggetto di continue pressioni, di ricatti morali che sfociano nel mobbing, sono privi – in definitiva – delle più elementari tutele che pure, dal palco delle varie manifestazioni alle quali freneticamente partecipa, don Silvano non si stanca di invocare. Una situazione senza via d’uscita, tant’è vero che a un certo punto Aza sparisce bruscamente di scena per lasciare spazioo all’uomo che già l’aveva salvata in Romania. È Adrian, detto «il bandito», diventato nel frattempo lettore ossessivo della Sacra Scrittura, oltre che giustiziere spietato sul modello, più che degli assassini dostoevskijani, del non dimenticato Jules di Pulp Fiction: «Leggi la Bibbia? Ascolta questo passo che conosco a memoria...».

L’atto d’accusa è durissimo, inappellabile. Ma quello che più colpisce è che nei Buoni non affiori mai il benché minimo apprezzamento per il bene che, al di là della retorica, i “Piedi” possono aver fatto. Tutto, dal recupero dei tossicodipendenti all’impegno contro le organizzazioni criminali, si riduce a un circo cinico e a sua volta criminale. Non è più questione di peccato originale, qui, ma di inferno sulla terra. Un inferno, sostiene Rastello, camuffato da paradiso. Non siamo più nell’ambito della provocazione, tanto meno in quello del dibattito. Questa è una sentenza, che a leggere bene il famoso finale non esclude neppure il plotone di esecuzione. Come se non fosse ancora sufficiente, I Buoni arriva in libreria a pochi giorni di distanza dalla manifestazione romana con le famiglie delle vittime di mafia di cui don Ciotti è stato protagonista a fianco di papa Francesco. Una coincidenza, sia pure. Ma quale sia l’utilità, in fondo, di una condanna così inflessibile è un mistero che l’ambizione stilistica di Rastello lascia purtroppo inesplicato.
Alessandro Zaccuri (Avvenire)