martedì 25 marzo 2014

Nostalgie



«Dei precedenti pontefici percepivo che erano diversi da me. In Francesco non colgo il senso del sacro». Sono parole usate da Alessandro Gnocchi, scrittore e giornalista, in una lunga intervista con Stefano Lorenzetto pubblicata su «Il Giornale». Il giornalista, insieme a Mario Palmaro (scomparso dopo una lunga malattia alla vigilia dell’uscita del libro) e aGiuliano Ferrara, ha appena firmato il saggio «Questo Papa piace troppo»(Piemme). Un volume dove vengono raccolti, tra l’altro, gli articoli critici verso Francesco che Gnocchi e Palmaro hanno pubblicato sul «Foglio» nell’ultimo anno.
Mi vorrei soffermare su quelle parole, peraltro non nuove come critica: se non ricordo male, proprio su «Il Foglio» – il quotidiano che si è ritagliato in questi mesi il ruolo di principale oppositore del pontefice argentino – a parlare di «mancanza di distanza» tra il Papa e la gente era stato già Mario Sechi in un lungo e argomentato articolo.
Mancanza del senso del sacro, mancanza di diversità da noi. In altre parole, troppa vicinanza. Francesco è un Papa che annulla le distanze. Ho pensato e ripensato a queste osservazioni critiche. Trovo debolissima l’argomentazione secondo la quale certe piccole innovazioni di stile o certe decisioni porterebbero con sé una sorta di giudizio negativo sui predecessori. La continuità di una tradizione vivente qual è quella della fede cattolica (mai sclerotizzabile, pena la sua riduzione ideologica) riguarda per l’appunto il contenuto della fede, non gli stili di vita o gli atteggiamenti. In nome della perfetta continuità il Papa non avrebbe mai dovuto abbandonare la sedia gestatoria e i flabelli, o meglio, in realtà non avrebbe mai dovuto usarli (non mi sembra di ricordare che se ne parli, a proposito di Pietro nei Vangeli).
Dunque non sono d’accordo con Gnocchi quando afferma – ad esempio – che l’essere rimasto a vivere a Santa Marta di Francesco rappresenta implicitamente un giudizio negativo su tutti i predecessori residenti nell’appartamento pontificio del palazzo apostolico. Non ho nulla contro l’appartamento pontificio, non mi disturbava che i papi lo abitassero, così come non mi disturba che oggi Francesco viva in un luogo che avverte più consono a sé.
Ma la riflessione che volevo proporvi riguarda un po’ più a fondo il tema della mancanza di «distanza». I cristiani professano la fede in un Dio che facendosi uomo ha annullato ogni distanza. Un Dio che si è incarnato, è stato un neonato venuto al mondo in circostanze alquanto precarie, con buona pace di quanti – talvolta per giustificare l’alleanza tra capitalismo e cristianesimo così cara a certi ambienti neocon d’Oltreoceano – contrastano continuamente l’idea di Gesù «povero», temendo di dover mettere in discussione gli unici veri dogmi considerati rivelati e indiscutibili oggi, quelli relativi all’attuale sistema economico finanziario.
Ebbene, se Dio ha annullato ogni distanza, se si è fatto uomo nascendo nella precarietà, se è stato un neonato totalmente dipendente dalle cure di un padre (putativo) e di una madre, se si è fatto abbracciare… se tutto questo ha fatto Dio, perché l’ideale per l’autorità umana nella Chiesa dovrebbe essere quello della «distanza»? È vero, come ricorda Gnocchi, il Papa «è un re». Ma è un re la cui regalità è modellata su quella del Nazareno, non su quella di Cesare Augusto, di Costantino, di Carlo Magno, di Francesco Giuseppe. E quale fosse la regalità di Gesù, lo leggiamo nei Vangeli (che non sono testi post-conciliari inficiati di teologia della liberazione marxisteggiante) cioè in quelle pagine dove si parla di umiltà, di servizio, di vicinanza, di amore. Di un Gesù che si commuove, che ha pietà della vedova di Nain e le dice «donna, non piangere!» prima di risuscitarle l’unico figlio appena morto.
Se Dio fattosi uomo ha detto esplicitamente che colui che vuole essere grande deve farsi piccolo, e ha mostrato questo ai suoi apostoli nell’ultima cena lavando loro i piedi, cioè facendosi servo, perché mai l’ideale per l’autorità del prete, del vescovo e pure del Papa – pastore universale perché vescovo di Roma, la Chiesa che presiede nella carità – dovrebbe essere quello della «distanza»? Perché il Papa non dovrebbe chinarsi, abbracciare, consolare, essere tenero con i più piccoli e i sofferenti (come Gesù nel Vangelo)? Perché non dovrebbe essere accessibile? Perché il modello immutabile dovrebbe essere quello delprincipe e non quello del servo?
«Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve». Questo è il programma dettato con l’esempio prima ancora che con la parola da Gesù di Nazaret. Forse sarebbe utile non confondere le pur legittime preferenze per certe forme e stili che via via lungo la sua storia travagliata il papato ha assunto con la centralità del messaggio evangelico. Che in quanto a «distanza» (o meglio, ad assenza di «distanza») a me pare inequivocabile.
Infine, quanto alla diversità, personalmente percepisco ogni giorno che Francesco è «diverso da me» (per usare l’espressione di Gnocchi): vorrei avere un centesimo della sua fede, della sua misericordia, della sua capacità di annunciare il Vangelo in modo semplice e profondo, della sua pace, della sua gioia e della sua capacità di perdonare e di abbracciare chi soffre.
A. Tornielli