mercoledì 26 marzo 2014

Waste-to-energy

Bambini abortiti, "combustibile" per gli ospedali

La scoperta del programma inglese Channel 4 "Dispatches": oltre 15mila feti bruciati negli inceneritori e usati per i riscaldamenti di 27 ospedali del Regno Unito


Cose che non accadono nei più lugubri romanzi gotici inglesi. La realtà, è vero, spesso supera la fantasia. In questo caso ne avremmo fatto volentieri a meno, perché la scoperta riguarda le vittime eccellenti del nostro tempo, i bambini. Più di 15mila bambini abortiti sono stati bruciati negli inceneritori e usati da 27 ospedali del Regno Unito negli ultimi due anni per il riscaldamento delle strutture.
È la terribile scoperta annunciata dal famoso programma di Channel 4 “Dispatches”, che ha costretto il ministro della Salute britannico Dan Poulter a definire la pratica “totalmente inaccettabile” e a bloccarla immediatamente.
Gli ospedali hanno ammesso di usare senza il consenso delle famiglie i resti dei feti nei rispettivi impianti “waste-to-energy” per produrre calore. In totale i bambini abortiti (o nati morti) usati per produrre energia sono 15.500. Uno degli ospedali più importanti del Regno Unito, Addenbrooke di Cambridge, ha bruciato 797 bambini sotto le 13 settimane. Alle madri avevano detto che i resti sarebbero stati cremati, riporta il Telegraph. L’Ipswich Hospital, nel suo impianto per trasformare gli scarti dell’ospedale in energia non gestito dalla struttura, ha incenerito 1.101 feti tra il 2011 e il 2013.
Il ministro Poulter ha dichiarato che “la grande maggioranza degli ospedali agisce già in modo appropriato, ma tutti devono farlo. Il direttore medico del Servizio sanitario nazionale ha già scritto a tutti gli ospedali di interrompere immediatamente la pratica”. L’ispettore capo, Sir Mike Richards, ha aggiunto: “Sono costernato che gli ospedali non consultino le donne o le famiglie. Questo infrange i nostri standard sul rispetto e il coinvolgimento delle persone”.
Al di là della burocratica considerazione che si sarebbe dovuto chiedere l’autorizzazione ai genitori dei bambini abortiti, inquieta ciò che questo sottende. Si tratta di una cultura che al di là di note che sconfinano nell’orrido, evidenzia la violazione dei diritti fondamentali della persona sin dal suo concepimento. Il sovvertimento della realtà è totale: l’uomo non viene più riconosciuto nella sua dignità di persona portatrice di diritti, ma diviene una cosa di cui disporre secondo criteri di utilità.
Occorre recuperare una coscienza che si è smarrita, circa il valore infinito della persona, che non può essere asservita a logiche utilitaristiche. Solo così i bambini potranno nascere con la dignità che si deve a ogni persona.
Fonte: Ai.Bi.

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Aborto casalingo, ora c'è anche nel Lazio
di Tommaso Scandroglio

E quattro. Dopo Emilia Romagna, Umbria e Puglia ora anche il Lazio si appresta a somministrare la RU486 in regime di day hospital. Lo ha deciso il governatore Nicola Zingaretti affermando che si tratta di “un atto di profondo rispetto per le donne”. Come è già avvenuto nelle altre tre regioni, la somministrazione del preparato abortivo deve rispettare delle condizioni: preospedalizzazione (a meno che non si voglia dare la pillola in mezzo ad una strada), controllo degli esami e visite ad hoc (per verificare almeno che la donna sia incinta) ed entro 21 giorni è prevista una visita ambulatoriale finale. Il male ha le sue regole.
Molti commentatori – e comprensibilmente – si sono stracciati le vesti perché il ricovero ordinario è illegittimo, dato che la legge 194 prevede che tutto l’iter abortivo avvenga all’interno della struttura ospedaliera. Lo ha ripetuto in tre interventi distinti anche il Consiglio Superiore della Sanità. Ed invece ora la donna potrà, dopo aver ingerito la pillola mortifera con un bicchiere d’acqua, far subito ritorno a casa e non rimanere degente – perlomeno – tre giorni in ospedale.
C’è da dire che non ci volevano le delibere delle regioni per arrivare a questo, perché anche laddove le amministrazioni non si sono attivate per rendere l’aborto chimico ancor più facile è sufficiente che la donna firmi le dimissioni volontarie e non esiste medico al mondo che possa trattenerla contro la sua volontà. Mezzuccio che da molto tempo è consigliato a Torino dal medico abortista Silvio Viale per le sue “pazienti”.
Ma davvero il day hospital contrasta con la legge 194? Possiamo dire che sicuramente è in antitesi con la lettera della legge, ma non con la sua ratio. Lo spirito della 194, il suo intimo DNA sta nel permettere alla donna di abortire sempre e comunque prima del 90° giorno e dopo questo termine con lievissime restrizioni. Il nocciolo duro di questa norma è il principio di autodeterminazione della donna che decide se tenere il figlio oppure no. Ora la Ru486 è figlia prediletta di questa prospettiva di assoluta autonomia della donna e il ricovero ordinario va in questa direzione, cioè risponde all’esigenza della stessa legge di spalancare il più possibile le porte all’aborto procurato. In questo senso contraddizione non c’è, ma solo conseguenza necessaria di quel principio libertario che vede la donna proprietaria del figlio che porta in grembo. In ospedale o a casa cosa cambia?
La vicenda laziale in buona sostanza sta solo a testimoniare che ingoiato il cammello poi è facilissimo ingoiare anche il moscerino. Accettata l’idea che è legittimo sopprimere il figlio, è inutile battagliare sulle modalità, più o meno corrette alla luce del diritto, per farlo. È partita già persa in partenza. L’unica strada è porre l’accetta alla base del tronco, cioè contestare in radice la 194 e non perdere tempo e risorse nel tentativo di sfrondare i suoi rami più alti.
Inoltre – pur comprendendo la buonissima fede di alcuni commentatori di questa vicenda in bilico tra il clinico e il giuridico – porre sul tavolo della contestazione solo l’argomento che attiene alla salute della donna, messa a rischio dall’uso di questa pillola, sarà certamente una verità scientifica oggettiva suffragata da molti studi, però per paradosso tale affermazione percorre la medesima strada che i pro-choice hanno tracciato per diffondere l’aborto nel nostro paese. L’accento che è stato posto per promuovere questa pratica fu ed è la tutela della salute della donna: che l’aborto si faccia in regime di totale sicurezza per la donna. Questo è stato il canovaccio usato dai teatranti dell’aborto pulito e privo di pericolo e rimodularsi su questa frequenza d’onda è esporsi al pericolo, in buona sostanza, di intonare lo stesso canto delle sirene abortive. In sintesi si usano gli stessi argomenti degli abortisti per combattere l’aborto.
Oltre a ciò la strategia pro-choice ha tutta la convenienza di spostare l’attenzione dalla vita del bambino alla salute della donna. Toccare dunque solo il tasto della salute della donna messa in pericolo dalla Ru486 fa dimenticare la vera vittima di questa nuova pratica abortiva: il figlio.

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"Mamma, grazie per non avermi buttata via"

Il messaggio su Facebook di una ragazza ventisettenne sta commuovendo gli Stati Uniti. Fu abbandonata nel bagno di un fast food, oggi vorrebbe conoscere la sua madre biologica


La sua vita sarebbe potuta finire ventisette anni fa, sul pavimento di uno squallido bagno di un fast food di Allentown, in Pennsylvania. È lì che Katheryn Deprill fu trovata dagli inservienti del locale, gracile come ogni neonato partorito da un paio d’ore e avvolta da una camicia bianca, ultimo gesto d’affetto di una madre disperata che decide di abbandonare il proprio figlio subito dopo averlo messo al mondo.
E invece Katheryn è un’espressione di vita felice e ridondante. È una ragazza di ventisette anni sposata e madre di tre figli, che lavora come tecnico in un laboratorio medico. Nel settembre del 1986 la sua storia riempì i titoli dei giornali americani, che le attribuirono il nome “Burger King Baby”. Intenerì una coppia di coniugi, gli Hollis, i quali decisero di adottarla sebbene avessero già dei figli. Nel frattempo le indagini della polizia proseguirono per lungo tempo, ma le tracce della mamma naturale della piccola Katheryn non furono mai ritrovate.
Oggi, a ventisette anni di distanza, la protagonista di questa vicenda ha deciso di uscire allo scoperto. Lo ha fatto pubblicando una sua foto sul proprio profilo Facebook, con un cartello in mano che recita: “Sto cercando mia madre, mi ha messo al mondo il 15 settembre 1986, mi ha abbandonata in un gabinetto del Burger King di Allentown”. La pubblicazione è stata condivisa già oltre ventimila volte dagli utenti del celebre social network, che hanno così dato ampia diffusione all’appello “per favore, aiutatemi a trovarla condividendo il mio post, forse lo vedrà”.
Il volto disteso e sorridente della giovane testimonia l’assenza di ogni minimo accenno di rancore. L’appello di Katheryn è arrivato anche sui media d’oltreoceano. Fox News l’ha intervistata un paio di settimane fa. “A meno che non siate stati adottati - ha detto al microfono dell’emittente -, non potete capire come ci si senta a non sapere chi sono i vostri genitori biologici”.
Katheryn la sua storia l’ha saputa soltanto a dodici anni. In un primo momento non riusciva ad accettare questa realtà, covando un forte senso di risentimento. “Quando ero bambina non capivo quali cose terribili potessi aver fatto per essere lasciata lì”.
Con il passare del tempo però, Katheryn inizia a cambiare atteggiamento, maturando comprensione verso la sua madre naturale. “Non riesco a pensare cosa abbia passato - afferma -, forse viveva una relazione clandestina, ci sono così tante possibili eventualità che non si possono sapere senza mettersi nei suoi panni”. In un certo senso, le rivolge anche gratitudine, poiché anziché ucciderla prima o dopo il parto, quella donna ha deciso di farla nascere e lasciarla nel posto in cui è stata poi trovata. È per questo, dice la giovane, che “voglio sapere com’è mia madre, vedere se magari ho fratelli o sorelle che mi somigliano, dirle che sto bene”. C’è un pensiero che si porta sempre dietro. “Ogni volta che mi trovo in un negozio o in mezzo alla gente - racconta -, penso a mia madre, a mio fratello o a mia sorella che potrebbero essere qui, a pochi metri di distanza”.
Ma il suo è soprattutto un messaggio di speranza. Katheryn ci tiene a sottolineare di essere stata accolta da “genitori amorevoli che non hanno mai fatto distinzione tra figli biologici e adottivi”. La sua storia, spiega, è rivolta a tutti quei genitori che non sono in grado di tenere i propri figli. “C’è sempre una possibilità piuttosto che buttare via il proprio bambino, l’adozione è una cosa meravigliosa”, spiega con parole ferme, che non cedono a una pur comprensibile emozione. Quella di chi, come Katheryn, trasmette dai suoi occhi chiari e limpidi una gioia immensa nei confronti della vita.
F. Cenci