martedì 29 aprile 2014

«C’ero anch’io!».



Oltre un milione di fedeli a Roma e due miliardi collegati in mondovisione. Un avvenimento che appartiene a tutti

 Chissà quante volte questa frase riaffiorerà sulle labbra di quel milione — forse più, forse meno — di persone che nei giorni, nei mesi, negli anni a venire certamente si troverà a ripensare alla domenica 27 aprile 2014, vissuta a Roma, in piazza San Pietro e dintorni. La domenica già consegnata alla storia come “il giorno dei quattro Papi”, quella della canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II presieduta da Francesco e concelebrata da Benedetto XVI.

Sono andati esauriti gli aggettivi per qualificare questo avvenimento di fede che, come forse mai nella storia, ha per giorni e giorni occupato spazi inusuali nell’universo della comunicazione, e non necessariamente di quella religiosa. Alcuni certo più ispirati dalla presenza di elementi mediaticamente appetibili, altri più consoni e soprattutto più in sintonia con quanto è accaduto ieri mattina in piazza San Pietro. Tra questi ultimi quello usato per significare il senso vero del papato, unico a prescindere da coloro che concretamente lo incarnano. E ieri, in una piazza straripante di quella fede del popolo di Dio che costituisce l’anima palpitante della Chiesa, si è resa visibile e concreta proprio quella continuità che resta il filo conduttore da oltre duemila anni.
Abile la mano che ne ha disegnato la scenografia. Sulla facciata della basilica — ormai restituita al suo originario splendore — le immagini dei due Pontefici che hanno dato il via a una nuova primavera della Chiesa. Chiamandola l’uno a un profondo esame di coscienza per ritrovare la via che porta l’uomo a Cristo, e l’altro a riscoprire il volto giovane che si cela tra le rughe causate dalla corrosione dovuta al trascorrere di un tempo vissuto secondo le leggi del mondo. E sul sagrato due successori di Pietro viventi, coautori di un’opera ancora straordinaria, portata avanti fino a elevare, come offerta sull’altare della santità, la fede raccolta dai loro predecessori seminatori del vangelo della vita e della pace nel mondo.
I numeri indicano oltre due miliardi di persone collegate con la piazza della festa attraverso ogni mezzo offerto dalla più avanzata tecnologia per le comunicazioni. Tanti quanti avranno certo visto l’abbraccio affettuoso tra Jorge Mario Bergoglio e Joseph Ratzinger, prima e dopo la celebrazione. In pochi però hanno avuto la sorte di ascoltare quel “grazie” rivolto due volte da Papa Francesco a Benedetto XVI, al termine della lunga ma sobria celebrazione. Un “grazie” sussurrato e accolto come tra due compagni che si sono vicendevolmente sostenuti nel realizzare un sogno.
Un sogno, il loro, del resto condiviso con tante persone. E tra quanti si sono uniti con la loro presenza alla celebrazione vanno notate diverse delegazioni ufficiali. Oltre a quelle dell’Italia, guidata dal presidente Giorgio Napolitano, e della Polonia, guidata dal presidente Bronislaw Komorowski, reali e capi di Stato in rappresentanza di 22 Paesi; numerose altre nazioni hanno inviato capi di Governo, vice primi ministri, ministri degli Esteri e altri diplomatici. In un reparto riservato avevano preso posto i rappresentanti di altre religioni, Chiese e confessioni cristiane. Presenti anche presidenti di alcune organizzazioni internazionali e i membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Al loro arrivo sul sagrato le diverse personalità sono state accolte dal prefetto della Casa Pontificia, arcivescovo Georg Gänswein. Hanno preso posto accanto agli arcivescovi Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, con l’assessore Peter Bryan Wells, il sottosegretario per i Rapporti con gli Stati, Antoine Camilleri, e il capo del Protocollo, José Avelino Bettencourt.
La celebrazione si è svolta secondo i canoni tradizionali, in modo sobrio e in un’atmosfera di intensa partecipazione. Spettacolare il colpo d’occhio offerto dal lento incedere del lungo corteo processionale degli ottocentocinquanta concelebranti: centocinquanta cardinali, tra i quali il decano Angelo Sodano, il segretario di Stato Pietro Parolin, e l’arcivescovo di Cracovia, Stanislaw Dziwisz, a lungo segretario particolare di Papa Wojtyla; settecento arcivescovi e vescovi, tra i quali monsignor Francesco Beschi, vescovo di Bergamo.
Benedetto XVI era giunto poco prima sul sagrato. Appena i maxischermi — collocati nei punti strategici di piazza San Pietro e in altri luoghi della città — ne hanno rilanciato l’immagine, vestito dei paramenti sacri per la celebrazione, si è levato un fragoroso e prolungato applauso. Si è seduto al primo dei posti riservati ai cardinali concelebranti, sulla destra, ai piedi dell’altare. In tanti si sono avvicinati per salutarlo. Anche il presidente Napolitano, appena arrivato, si è recato a rendergli omaggio, insieme alla signora Clio. Lo stesso hanno fatto poi i concelebranti quando, a uno a uno, hanno raggiunto i loro posti. E così ha fatto infine Papa Francesco, dopo aver baciato e benedetto l’altare.
Il Papa, in qualche modo, ha voluto idealmente rendere presente alla grande “festa della fede” — come ha lui stesso definito la giornata — anche Paolo VI. Ha usato infatti il pastorale che Lello Scorzelli scolpì per Papa Montini. La medesima croce astile aveva accompagnato il pontificato itinerante di Giovanni Paolo II — almeno sino a quando non ne fu fatta una copia più leggera e dunque più adatta alle sue mutate condizioni fisiche — e fu usata dallo stesso Papa Francesco il 19 marzo 2013 in occasione della messa d’inizio pontificato.
Particolarmente intenso il momento della canonizzazione. Il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, è salito alla cattedra e, con accanto i postulatori padre Gianni Califano e monsignor Slawomir Oder, ha chiesto a Papa Francesco, nelle forme rituali, di proclamare la santità di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. La pronuncia della formula di canonizzazione da parte del Pontefice è stata accolta come il segnale liberatorio per lo sfogo del grande entusiasmo che ha portato a Roma diverse centinaia di migliaia di fedeli da tutto il mondo, anche a costo di dover affrontare lunghe ore di viaggio e notti insonni.
Entusiasmo che si è poi ricomposto e trasformato in preghiera corale per accompagnare la processione con le reliquie dei due santi: un lembo di pelle di Papa Roncalli e alcune gocce di sangue di Papa Wojtyla. Il reliquiario del primo era portato dai pronipoti Letizia, Beltramino, Maria e Flaviano, da don Ezio Bolis e Eugenio Bolognini; quello del secondo dalla miracolata Floribeth Mora Diaz, accompagnata dal marito Edwin, da Julia Lupinska, Andrea Maria Moubarak, Giuseppe Tetto, Veronica de Andreis e da Julia Desilets. Papa Francesco ha baciato le reliquie, successivamente poste dinanzi all’altare. Il canto del Gloria e la proclamazione del Vangelo in latino e in greco hanno segnato la ripresa della celebrazione della messa.
Al momento della comunione settecento tra sacerdoti e diaconi hanno distribuito la comunione tra i fedeli. Circa trecento i membri dei cori i cui canti hanno sottolineato le diverse fasi della celebrazione insieme alla Cappella Sistina. Ai giovani del seminario di Bergamo l’incarico del servizio all’altare.
Prima del Salve Regina conclusivo, Papa Francesco ha sostato brevemente in preghiera dinanzi alla statua della Vergine, collocata alla destra della cattedra. Poi ha ringraziato quanti si erano adoperati per la riuscita di questa celebrazione, ha recitato il Regina caeli e ha impartito la benedizione.
Quindi il momento del congedo dalle personalità intervenute. Il presidente Napolitano è stato il primo ad avvicinarsi ai piedi dell’altare. Con Papa Francesco ha scambiato qualche battuta. Poi via via si sono avvicinati tutti gli altri.
E alla fine l’incontro più ravvicinato con la folla. Non si è mosso nessuno al termine della celebrazione. Anche se deve essere sembrato interminabile il momento del baciamano protocollare. Poi hanno visto comparire sulla sommità del sagrato la jeep bianca e hanno capito che stava per arrivare il loro momento. Ed è iniziata la parte più popolare della festa. Quella fatta di grida quasi da stadio per inneggiare a Papa Francesco, di sventolio di bandiere e drappi variopinti, di canzoni tradizionali, come quella eseguita dal cantante italo argentino Odino Faccia «Cerca la pace», una canzone nota soprattutto in America latina. Ai piedi del sagrato sulla jeep è salito il sindaco di Roma Ignazio Marino per salutare il Papa.
Francesco poi ha idealmente abbracciato tutti quanti facevano ressa lungo il tragitto percorso dalla macchina, per la prima volta allungato sino a ponte Sant’Angelo. Innumerevoli le maglie, le bandiere, addirittura i berretti consegnati nelle mani del Papa al suo passaggio. Erano circa le 13 quando, nel cuore di una folla letteralmente in delirio, Papa Francesco, alla fine di via della Conciliazione, è sceso dalla jeep ed è salito sulla macchina coperta a bordo della quale ha rapidamente raggiunto la porta del Perugino per rientrare in Vaticano.
Sono passate poi alcune ore prima che la gente lasciasse le postazioni conquistate nelle prime ore della notte. Ed è iniziato il lungo sfilare dei fedeli dinanzi alle tombe dei nuovi santi, nella basilica di San Pietro.
L'Osservatore Romano

*

La Pasqua e i suoi uomini

Se l'utopia caccia il male della storia. L'editoriale dell'arcivescovo di Chieti-Vasto su "Il Sole 24 Ore" per la canonizzazione dei due Papi

di Bruno Forte

“Se le oasi dell’utopia si inaridiscono, cresce il deserto della banalità e dello sconcerto”: queste parole di Jürgen Habermas appaiono più che mai vere a chi consideri le vicende del Novecento, il secolo delle due guerre mondiali, della Shoah e dei vari genocidi, e quelle degli inizi del Terzo Millennio, apertosi con la tragedia delle Torri Gemelle e il conflitto che ne è seguito. Se la linfa della speranza e dell’amore non si è spenta fra gli uomini, è anche perché ci sono state “oasi dell’utopia” che hanno accompagnato i nostri giorni: fra queste emergono le figure dei due Papi, che saranno proclamati santi domenica 27 aprile, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II.
Nel deserto diffuso della banalità e della sfiducia, essi sono stati sorgenti di acqua viva, oasi da cui attingere la speranza più forte del disincanto e la forza di un amore più grande della violenza e del male. Che cosa ha fatto delle loro vite un dono per tutta la famiglia umana? Non esiterei a rispondere a questa domanda indicando come ragione della fecondità del loro essere e del loro agire il tratto che li ha accomunati: l’annuncio della misericordia. Un annuncio riferito dal primo soprattutto al rinnovamento della Chiesa e della sua presenza nel mondo, e dal secondo agli scenari del “villaggio globale”, che è divenuto sempre più il pianeta in cui viviamo.
Che Giovanni XXIII sia stato il papa della misericordia lo dice già il modo in cui la gente lo designa comunemente: il “Papa buono”. La sua bontà non aveva nulla del buonismo, non era né ingenua né semplicista, nasceva anzi da un’intelligenza vivissima, da un’ampia conoscenza della storia e degli uomini e da una profonda esperienza - quotidianamente ravvivata - dell’amore e della tenerezza di Dio. Tutte cose, queste, che non apparivano subito a un’osservazione esteriore, tanto che l’elezione di Roncalli al pontificato poté apparire a molti come una deviazione per prender tempo, un rimandare a un prossimo e meglio preparato futuro le scelte per il domani della Chiesa.
Ne è testimonianza fra le tante la divertente osservazione di una donna del popolo, che Hannah Arendt, la grande pensatrice ebrea del secolo scorso, cita all’inizio delle bellissime pagine da lei dedicate al Papa del Concilio: “Signora, questo papa era un vero cristiano. Com’è stato possibile? E com’è potuto accadere che un vero cristiano sedesse sul trono di San Pietro? … Nessuno si era accorto di chi realmente egli fosse?”. La risposta della Arendt è che certo i più non se n’erano accorti. Ella aggiunge, tuttavia, un’osservazione significativa: “A ben vedere, la Chiesa ha predicato l’‘imitatio Christi’ per quasi duemila anni e nessuno può dire quanti sacerdoti e monaci possano essere esistiti che, vivendo nell’oscurità attraverso i secoli, abbiano affermato come il giovane Roncalli: ‘Ecco dunque il mio modello: Gesù Cristo’, perfettamente consapevole sin dall’età di diciott’anni che ‘essere simile al buon Gesù’ significava ‘essere trattati da pazzi’ ” (Il Papa cristiano. Umanità e fede in Giovanni XXIII, Bologna 2013, 18s).
La forza e la grandezza di Papa Giovanni è stata semplicemente quella di un ritorno al Vangelo, di un riprenderne il messaggio essenziale dell’amore di Dio per ogni creatura e di farne il programma del rinnovamento della Chiesa. Nel discorso d’inaugurazione del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII aveva affermato: “Al giorno d’oggi, la Sposa di Cristo preferisce far uso della medicina della misericordia piuttosto che della severità: essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina piuttosto che con la condanna”. L’indicazione era chiara e avrebbe ispirato l’intero Vaticano II: la misericordia, e cioè l’accoglienza, la benevolenza e il perdono, avrebbe dovuto essere l’anima ispiratrice e lo stile di tutte le scelte della Chiesa, la linea guida del suo rinnovamento teso a presentare al mondo l’immagine del Dio di Gesù Cristo, il Dio che è amore. È il messaggio che molti riconoscono nella novità di Papa Francesco, nel suo essere il pastore dall’odore delle pecore, vicino a tutti, accogliente per tutti.
Anche Giovanni Paolo II ha fatto dell’annuncio della misericordia il manifesto del suo pontificato sin dall’enciclica su Dio Padre, non a caso intitolata “Dives in misericordia” (1980): l’accento peculiare che dà a questo tema il Papa polacco è anche il frutto delle esperienze della sua vita, segnata dalle sofferenze della seconda guerra mondiale e di due totalitarismi, particolarmente disumani e violenti. Mentre sembrava trionfare la barbarie del male assoluto, il Signore ha voluto annunciare al mondo la Sua misericordia: è così che Wojtyla rilegge le esperienze mistiche della Suora polacca Faustina Kowalska, da lui stesso canonizzata, la cui vicenda s’incastona precisamente fra le grandi tragedie del XX secolo.
E questo annuncio del Dio misericordioso diventa per Giovanni Paolo II da una parte la contestazione di tutte le presunzioni ideologiche, per loro natura totalitarie e violente, dall’altra l’offerta di una via di liberazione e di possibile realizzazione per l’umanità tutta, ferita dai drammi del “secolo breve”. Sul Dio che è amore il Papa polacco centra il suo messaggio al mondo, incidendo profondamente nei cambiamenti epocali di fine millennio, e aprendo il nuovo secolo nel segno della speranza, nonostante tutto. Fino alle ultime ore della sua agonia, dalla cattedra altissima della propria sofferenza, il Vescovo di Roma venuto dai popoli slavi proclama al mondo la bontà e la bellezza del Dio misericordioso, riserva di vita e di speranza per chiunque voglia aprirgli le porte del cuore.
Dai due Papi, uniti nella gloria degli altari, viene allora a tutti noi uno stesso messaggio, pur con accenti diversi: è la buona novella della misericordia, anima dell’azione pastorale della Chiesa, secondo Giovanni XXIII, e cuore della sua proposta al mondo per un’umanità che voglia essere più vicina alla realizzazione del disegno universale dell’amore di Dio, secondo il Papa polacco. Un messaggio che diventa a pieno titolo la proposta e l’augurio di questa Pasqua, che cade a pochi giorni dalla proclamazione della santità dei due Pontefici, che dell’annuncio della misericordia hanno fatto la linea portante del loro servizio alla Chiesa e al mondo, vere “oasi dell’utopia”, che potranno aiutarci a salvaguardare il nostro tempo dai deserti della banalità e dello sconcerto.
È nel segno della misericordia, ricevuta e offerta agli altri, che vorrei formulare, allora, il mio augurio pasquale: lo faccio con le parole di un profeta del nostro tempo, don Tonino Bello, il vescovo dei poveri, di cui proprio il 20 aprile ricorre l’anniversario della morte. Dal letto della sofferenza, che lo avrebbe portato ancora giovane a chiudere la sua vicenda terrena, don Tonino scriveva parole che solo la certezza dell’amore vittorioso di tutto può motivare: “Vi benedico da un altare scomodo, ma carico di gioia. Vi benedico da un altare coperto da penombre, ma carico di luce. Vi benedico da un altare circondato da silenzi, ma risonante di voci. Sono le grazie, le luci, le voci dei mondi, dei cieli e delle terre nuove che, con la Risurrezione, irrompono nel nostro mondo vecchio e lo chiamano a tornare giovane”.

*

"I santi sono come le stelle nel cielo"

Mons. Enrico dal Covolo nella puntata del 27 aprile 2014 di "Ascolta si fa sera"

Di seguito la meditazione di monsignor Enrico dal Covolo, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, per la puntata di domenica 27 aprile del programma di informazione religiosa "Ascolta si fa sera" di Rai Radio 1. 
***
Oggi è stata una giornata storica per la Chiesa, e per la città di Roma in modo particolare. Due Papi – a noi tutti carissimi – sono stati santificati: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Per usare un linguaggio più preciso, però, bisognerebbe dire che essi sono stati canonizzati. 
Ma che cosa vuol dire questa parola? 
Ci sta dentro un segreto, che risiede nell’etimologia del termine. Canone, stando all’etimologia della parola, significa “regola”, “unità di misura con cui confrontarsi”. Allora la canonizzazione di un cristiano significa proprio questo: che lui (o lei), vissuto in maniera esemplare sulla misura di Gesù Cristo, è un punto di riferimento autorizzato e riconosciuto dalla Chiesa per il cammino della nostra vita. 
I santi sono come le stelle nel cielo, e illuminano la nostra strada. Sono modelli esemplari (dei “canoni” per la nostra vita). Ma sono anche degli intercessori potenti, perché sono i più vicini a Dio. 
In Italia abbiamo una pietà popolare molto fervida, che si appella all’intercessione dei santi.  San Francesco d’Assisi, sant’Antonio da Padova, santa Rita da Cascia, Padre Pio da Pietrelcina, e tanti altri (soprattutto i santi patroni nelle varie località) sono continuamente ricordati… 
A questa lunga schiera di santi si aggiungono oggi due Papi.  
“Perché santi insieme?”, mi ha chiesto qualcuno. Perché questi due papi hanno marcato in maniera indelebile – con il sigillo supremo della santità – la Chiesa del Concilio e del Postconcilio. “E quali tratti accomunano questi due santi?”, ha insistito il mio interlocutore. Ne sottolineo almeno uno, e cioè il coraggio intrepido di tutti e due. Il grido famoso di Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”, pronunciato con energia durante il solenne inizio del ministero petrino, ha segnato robustamente l’intero pontificato del papa polacco. Il medesimo coraggio aveva caratterizzato i cinque anni di governo del papa Roncalli, dall’indizione del Concilio fino alla promulgazione della Pacem in  terris. 
Ai due nuovi santi possiamo chiedere allora un’iniezione di coraggio, per affrontare ogni giorno le battaglie della nostra vita… 

*

Il Cardinale Martins: "Roncalli e Wojtyla amati dalla gente, bello farli santi assieme"   
La Repubblica
 
(Orazio La Rocca) "Sono molto legato a questi due papi santi, anche perché sono stato io a firmare i decreti per aprire i loro processi di beatificazione. Santificarli insieme è stato un capolavoro di papa Francesco". Il cardinale Josè Saraiva Martins è stato titolare del dicastero per le santificazioni dal 1998 al 2008. (...)