mercoledì 30 aprile 2014

Miti e simboli che fanno l’uomo




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Il contributo di Julien Ries all’antropologia del sacro. 

All’Academia Belgica di Roma si è svolto un convegno in memoria del cardinale Julien Ries. Uno dei relatori ha sintetizzato per il nostro giornale il suo intervento.
(Natale Spineto) Julien Ries ha sempre definito la disciplina che praticava “storia delle religioni” e nello stesso tempo “antropologia religiosa”: le due espressioni non significano però la stessa cosa e, per capire meglio le peculiarità del suo approccio alle religioni, è utile vedere come, nei suoi lavori, sia passato dall’una all’altra.

Specialista del manicheismo, cui ha dedicato la tesi di dottorato e numerosissimi saggi negli anni successivi, Ries è considerato uno degli esponenti di spicco della storia generale delle religioni attuale, cui ha contribuito con molti e imponenti lavori nei quali ha ricostruito le fasi e le metodologie delle ricerche religiose dal XIX secolo a oggi, ha trattato i grandi temi della disciplina come il mito, il simbolo, il rito, ha presentato e divulgato i risultati degli studi in materia. Titolare, dal 1968 al 1990, della cattedra di Storia delle religioni all’università cattolica di Lovanio, ha presieduto per anni la Società belga-lussemburghese di Storia delle religioni e figurava fra i sedici membri onorari e vitalizi dell’Associazione internazionale di storia delle religioni. La sua formazione e i suoi studi filologici e storici lo portavano a un’attenzione particolare al metodo storico-critico, che considerava il presupposto ineludibile su cui ogni ricerca deve fondarsi.
Ma il compito dello storico delle religioni non si ferma per lui alla ricostruzione, operata tramite filologia, archeologia, storia, di fatti e documenti: occorre cercare di penetrare il senso dei fenomeni religiosi, tenendo conto della loro irriducibilità, attraverso la comparazione. Nel suo esercizio della comparazione Ries, pur mostrandosi particolarmente sensibile all’impostazione storica di Raffaele Pettazzoni — filtrata attraverso Ugo Bianchi — e a quella strutturale di Georges Dumézil, si ricollega principalmente alla traduzione fenomenologica, e in particolare al suo esponente più noto, Mircea Eliade. Sulle orme dello studioso rumeno, insiste sulla centralità del sacro, sull’uomo come essere strutturalmente religioso, su simboli, miti e riti come componenti universali dell’esperienza del sacro. L’approccio fenomenologico gli consente un dialogo con le prospettive teologiche: e Ries non ha mancato di avanzare idee per l’impostazione e la soluzione dei problemi del dialogo tra le religioni.
I dibattiti sul metodo della storia delle religioni, non disgiunti dalle critiche alla fenomenologia classica — da sempre oggetto di discussioni ma messa, in anni recenti, in questione al punto che qualcuno ha ritenuto di poterne constatare la morte — hanno tuttavia indotto lo studioso a ulteriori riflessioni sull’argomento, che lo hanno portato a quello che possiamo definire non tanto una svolta quanto piuttosto uno spostamento d’accento, pur nella continuità di idee e d’intenti. A partire dal Trattato di antropologia del sacro, grande impresa collettiva da lui diretta che vede la luce a partire dal 1989, si nota infatti un’insistenza via via più marcata sul concetto di antropologia religiosa, finché si fa strada l’idea che quest’ultima sia qualche cosa di nuovo e di diverso rispetto alla storia delle religioni.
Riflettendo, in occasione della pubblicazione dei volumi di tipo storiografico e metodologico delle Opere complete, sulla sua lunghissima carriera, Ries riconosce così nei propri lavori del passato un percorso che lo ha condotto, passo dopo passo, a edificare quella che definisce un’«antropologia religiosa fondamentale», la cui peculiarità consiste nell’avere aperto un campo epistemologico nuovo, con regole e confini diversi rispetto a quelli della storia delle religioni. Centrale risulta, nel concetto riesiano di antropologia religiosa, il riferimento a una dimensione altra, trascendente e fondante. In realtà con questa impostazione Ries non si distacca dal suo maestro Eliade, secondo il quale soltanto l’alterità del sacro dava senso ai fenomeni religiosi e alla vita stessa dell’uomo: «se Dio non esiste, aveva dichiarato lo studioso rumeno in un’intervista, tutto è cenere».
Ma il discorso di Eliade, compiuto all’interno del dibattito storico-religioso, prestava il fianco alle critiche di chi vi riconosceva un approccio di natura teologica, e addirittura confessionale. Ries intende invece sottrarre le considerazioni sul trascendente come dimensione ineliminabile del religioso alle “regole del gioco” della storia delle religioni e inserirle in un altro campo epistemologico, che ritiene di avere dischiuso. In questo modo, ripropone la possibilità di un dialogo più stretto e fruttuoso fra storia delle religioni e teologia, in quanto non tocca i presupposti dell’una e dell’altra disciplina, invitandole a incontrarsi su un altro terreno. Si tratta di un terreno nel quale si possono riformulare — e possono così ricevere nuova luce — anche questioni che si pongono in altri campi del sapere, come la filosofia, l’arte e perfino la politica.
Ries credeva fortemente al ruolo dell’antropologia religiosa come stimolo per un rinnovamento della cultura attuale e riteneva che la sua promozione fosse lo scopo principale della propria carriera di studioso. La storia delle religioni è nata proprio differenziandosi dalla teologia e mettendo fra parentesi l’esistenza di Dio, abbracciando un agnosticismo metodologico e talvolta giungendo fino a forme di ateismo programmatico. L’antropologia religiosa — proposta non come modo diverso di fare storia delle religioni o di definire una storia delle religioni ermeneuticamente orientata quale è quella eliadiana — come nuovo ambito disciplinare fornisce una riflessione sull’uomo e sul sacro nella quale le frontiere fra la disamina storica, la precisione filologica, la riflessione filosofica, i riferimenti teologici e i risvolti pratici e operativi vengono superate nella direzione di un sapere che risponda alle aspirazioni religiose dell’umanità, edificato sulla base di un riferimento a un Altro trascendente e fondante: una cultura che potrebbe essere tale soltanto “con Dio”, perché senza Dio l’uomo, secondo le parole di Eliade, «è cenere».
L'Osservatore Romano,