sabato 31 maggio 2014

Papa Francesco: l'aiuto della Vergine non si fa aspettare



Si è svolta questa sera, nei Giardini Vaticani, la tradizionale processione con la recita del Rosario, a conclusione del mese mariano. I fedeli, guidati dal cardinale Angelo Comastri, vicario generale del Papa per la Città del Vaticano, hanno pregato in processione dalla chiesa di Santo Stefano degli Abissini fino alla Grotta della Madonna di Lourdes, che riproduce quella di Massabielle. Qui li ha raggiunti Papa Francesco che ha concluso il rito con una breve meditazione sul Vangelo della Festa della Visitazione.
Maria – ha detto il Papa – “è andata in fretta” dall’anziana cugina Elisabetta, “non ha perso tempo, subito è andata a servire. E' la Vergine della prontezza” – ha osservato – “subito è pronta a darci aiuto quando noi la preghiamo, quando noi chiediamo il suo aiuto e la sua protezione". "In tanti momenti della vita” in cui abbiamo bisogno – ha proseguito - dobbiamo “ricordare che Lei non si fa aspettare: è la Madonna della prontezza, subito va a servire".
Il cardinale Comastri ha poi guidato la preghiera alla Vergine:
“Vergine e Madre Maria, tu che, mossa dallo Spirito, hai accolto il Verbo della vita nella profondità della tua umile fede, totalmente donata all’Eterno, aiutaci a dire il nostro “sì” nell’urgenza, più imperiosa che mai, di far risuonare la Buona Notizia di Gesù. Ottienici ora un nuovo ardore di risorti per portare a tutti il Vangelo della vita che vince la morte. Dacci la santa audacia di cercare nuove strade perché giunga a tutti il dono della bellezza che non si spegne. Stella della nuova evangelizzazione, aiutaci a risplendere nella testimonianza della comunione, del servizio, della fede ardente e generosa, della giustizia e dell’amore verso i poveri, perché la gioia del Vangelo giunga sino ai confini della terra e nessuna periferia sia priva della sua luce. Madre del Vangelo vivente, sorgente di gioia per i piccoli, prega per noi. Amen. Alleluia”.
Papa Francesco ha quindi impartito la sua benedizione, fermandosi a salutare alcuni malati prima di tornare a Casa Santa Marta. 
Radio Vaticana
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(AGI) - CdV, 31 mag. - "Quando invochiamo il suo aiuto e la sua protezione in tanti momenti della vita nei quali ne abbiamo bisogno, dobbiamo ricordare che Maria non si fa aspettare: subito e' pronta a servire". Per Papa Francesco e' questo il messaggio che ci giunge dalla pagina evangelica della visita a Santa Elisabetta, che viene letta a conclusione del mese di maggio. "Oggi - ha spiegato in occasione della tradizionale processione del 31 maggio alla Grotta di Lourdes nei Giardini Vaticani - alla fine del mese di Maria, ricordiamo la visita che ha fatto a Santa Elisabetta. La Madonna e' andata in fretta, non ha perso tempo, subito e' andata a servire. E' la Madonna della prontezza: subito e' pronta a fare da aiuto a noi".
  Francesco si e' unito ai cardinali, vescovi, sacerdoti e laici che risiedono in Vaticano - ai quali la processione e' riservata - solo al termine della processione che era partita poco dopo le 20 dalla chiesa di Santo Stefano degli Abissini, dove fino al 2005 celebrava spesso il cardinale Joseph Ratzinger, per raggiungere un altro luogo molto caro a Benedetto XVI, la Grotta di Lourdes che fu realizzata sotto il Pontificato di Pio XI e riproduce perfettamente quella di Massabielle dove nel 1858 Santa Bernadette ricevette le apparizioni della Vergine. Dopo aver proposto la sua breve riflessione, partita dalla litania dei titoli mariani che era stata cantata, Papa Bergoglio ha impartito la sua benedizione e si e' fermato a salutare alcuni malati e invalidi che erano stati collocati in prima fila. Quindi il cardinale Angelo Comastri, che nella sua qualita' di vicario per la Citta' del Vaticano ha guidato la preghiera, gli ha presentato i due parroci del Vaticano: quello della Basilica e quello della chiesa di Sant'Anna (entrambi religiosi agostiniani). Infine Francesco e' salito sulla ormai abituale Ford Focus per fare ritorno alla Domus Santa Marta. Il secondo a lasciare la Grotta dopo Papa Bergoglio e' stato il prefetto della Casa Pontificia Georg Gaenswein che si e' incamminato a piedi verso il non lontano monastero Mater Ecclesiae dove risiede con il Papa Emerito. I cardinali presenti, tra i quali l'arciprete di Santa Maria Maggiore Santos y Abril, hanno salutato Francesco con accenni di inchini, senza avvicinarsi. (AGI) .

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"Perché i disoccupati ottengano il sostegno e il lavoro di cui hanno bisogno per vivere con dignità"

Le intenzioni affidate all'Apostolato della Preghiera per il mese di giugno 2014


Di seguito le due intenzioni di preghiera – una generale (o universale), l’altra missionaria (o “per l’evangelizzazione”) – affidate dal Papa all’Apostolato della preghiera per il mese di giugno 2014, che inizia domani.
Quella generale afferma: “Perché i disoccupati ottengano il sostegno e il lavoro di cui hanno bisogno per vivere con dignità.”
“Per l’evangelizzazione: Perché l’Europa ritrovi le sue radici cristiane attraverso la testimonianza di fede dei credenti”, dice invece quella missionaria.

Celibato dei preti, facciamo chiarezza


Sacerdozio

di E. Cattaneo
Puntualmente la questione del celibato dei preti ritorna sulle cronache dei giornali, e anche nella intervista a Papa Francesco sull’aereo di ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa, non è mancata la domanda sui “preti sposati”, dato che, come si sa, gli Ortodossi hanno dei preti sposati, e i ministri protestanti e anglicani – identificabili ‘grosso modo’ con i preti cattolici – sono quasi tutti sposati. La domanda del giornalista sembra poi giustificata dal fatto che in Germania i preti cattolici non aspetterebbero altro che il momento per potersi sposare!
Il Papa risponde chiarendo anzitutto che nelle Chiese cattoliche di rito orientale, già «ci sono dei preti sposati!». E prosegue: «Perché il celibato non è un dogma di fede, è una regola di vita che io apprezzo tanto e credo che sia un dono per la Chiesa. Non essendo un dogma di fede, c’è sempre la porta aperta».

Aperta a che cosa? Il Papa non lo dice, e non poteva farlo in una intervista in aereo, necessariamente breve. Perché però le sue parole non si prestino a fraintendimenti, cerchiamo di chiarire alcune cose.

Anzitutto il Papa parla di “celibato”, ed essere celibi, nel senso comune del termine, significa non essere sposati. Nel linguaggio cristiano, però, il concetto di “celibato” è strettamente connesso con quello di “castità” e di “continenza sessuale”. Uno può essere celibe, ma andare a donne, fare lo sporcaccione, ecc. ecc. Quando si dice che un prete deve essere celibe, significa che deve vivere nella castità totale, cioè non solo astenersi da qualsiasi rapporto sessuale, ma anche avere un cuore puro, un cuore libero anche affettivamente, perché è consacrato al Signore. In altre parole, un prete manca al suo impegno di celibato non solo quando va a donne, ma anche quando permette al suo cuore di innamorarsi di una donna, di avere contatti fisici con lei (abbracci, carezze), anche senza arrivare al rapporto sessuale completo. Un prete che ha una “fidanzata”, pur senza andare a letto con lei, manca alla sua promessa di celibato. Per questo stretto legame tra celibato e castità, molti non distinguono più tra celibato (come stato civile) e castità o continenza sessuale (come virtù), e da qui derivano molte confusioni. 
Il Papa dunque ha parlato del “celibato” dei preti in senso globale, come stato civile e come virtù, e ha detto che questa è una «regola», aggiungendo che questa regola non è «un dogma di fede». Vediamo di capire meglio.

Esiste nella Chiesa cattolica di rito latino una “regola” o “legge del celibato”. Se si tratta di una “regola”, essa va considerata anzitutto dal punto di vista canonico. Che cosa significa questa regola? Lo dice per la prima volta in modo esplicito il Codice di Diritto Canonico del 1917 (can. 987, § 2), dove si stabilisce che le persone sposate «sono impedite», cioè non possono accedere alla sacra ordinazione. In altri termini, l’essere sposati, l’essere nello stato coniugale, oggi come oggi nella Chiesa cattolica di rito latino, costituisce un “impedimento” canonico alla ricezione del sacramento dell’Ordine. Questo “impedimento” è stato recepito anche dal nuovo Codice di Diritto Canonico del 1983 (can. 277 § 1). Si tratta di un impedimento “semplice”, tale cioè che l’ordinazione di un uomo sposato risulta illecita, ma non invalida.

Ora questo “impedimento” non esiste da sempre nella Chiesa cattolica. In effetti, nella Chiesa antica i sacri ministri erano scelti sia tra le persone celibi sia tra le persone coniugate. Non abbiamo delle statistiche (o almeno io non le conosco), ma è certo che molti preti e vescovi fossero coniugati. Per fare qualche esempio, che risale addirittura al tempo apostolico, san Pietro era coniugato, mentre san Giovanni certamente era non solo celibe, ma vergine; san Paolo invece era celibe. Per citare altri nomi abbastanza noti, san Paolino, vescovo di Nola, era sposato; così pure s. Ilario, vescovo di Poitiers e san Gregorio, vescovo di Nissa; s. Agostino aveva una concubina, mentre sant’Ambrogio era celibe (e forse anche vergine).
La cosa da tenere presente – e che non tutti fanno – è che chi veniva ordinato (diacono, presbitero o vescovo), fosse coniugato o celibe, da allora in poi si impegnava a vivere nella perfetta continenza. Chiamo questo “la legge della continenza”: non era una legge scritta, codificata, ma scaturiva dalla natura stessa del ministero apostolico, di cui quello diaconale, presbiterale ed episcopale è un prolungamento. Era evidente che l’imposizione della mani per il ministero conferiva una grazia dello Spirito Santo che rendeva la persona totalmente consacrata a Cristo, per il servizio del Vangelo, dei sacramenti e del popolo santo. 
Se l’ordinato era celibe, doveva poi vivere questo stato in vera castità, resistendo a tutte le tentazioni e seduzioni della carne, che pure aveva. Evidentemente, ciò non era possibile senza una vita spirituale intensa, perché la castità da sola non sta in piedi, se non è accompagnata dalla preghiera, dallo spirito di servizio, dall’umiltà, dalla carità. Quanti preti e vescovi celibi nella Chiesa antica sono stati anche arrivisti, intriganti, affaristi, amanti della buona tavola, come testimoniano gli scritti di san Cipriano e di san Giovanni Crisostomo!
Se l’ordinato era coniugato, si poneva un’altra serie di problemi: come vivere la continenza stando con la propria moglie? E costei sarebbe stata d’accordo nel rinunciare al rapporto coniugale? Evidentemente, le spose degli ordinati dovevano vivere la stessa spiritualità dei loro mariti, diventati preti o vescovi. Concretamente, avveniva la separazione dei letti e anche, dove possibile, delle abitazioni. Ad esempio, san Paolino e la moglie Terasia, in vista dell’ordinazione di lui come presbitero, decisero di vivere in perfetta castità, pur abitando vicini nel centro monastico da loro fondato a Cimitile, presso Nola, attorno alla tomba di san Felice martire.

Non tutti però erano dei santi. Accadeva che molti preti continuassero ad avere rapporti coniugali con le loro mogli, sia per debolezza, sia per ignoranza delle norme della Chiesa. In genere ci si fidava dei buoni propositi delle persone, ma se la moglie rimaneva incinta, era chiaro che la castità non era stata rispettata. Per questo motivo a partire dal IV secolo i sinodi che si occuparono di tale questione vietarono espressamente ai sacri ministri sposati di continuare la convivenza con le loro mogli. Così il sinodo di Elvira, in Spagna, all’inizio del IV secolo stabilisce che «il vescovo o qualsiasi altro chierico, abbia con sé solo una sorella o una figlia vergine consacrata a Dio» (can. 27). Se si parla di “figlia”, significa che era sposato. Questa norma è affermata ancora più chiaramente nel can. 33: «Si  stabilisce senza eccezioni per vescovi, presbiteri, diaconi [...] questa proibizione: si astengano dall’avere rapporti con le loro mogli e dal generare figli. Chiunque farà ciò sarà per sempre allontanato dallo stato clericale».

Alcuni hanno interpretato questa norma come se il sinodo di Elvira avesse introdotto una novità “da un giorno all’altro”, proibendo quello che prima invece era pacificamente ammesso. Ma tale interpretazione non regge. Emanare un divieto non significa proibire una cosa che prima era permessa, bensì arginare un abuso. Un decreto ancora più solenne è quello del Concilio di Nicea del 325 (I° ecumenico), che dice nel can 3: «Questo grande concilio proibisce assolutamente ai vescovi, presbiteri e diaconi [...] di avere con sé una donna, a meno che non si tratti della propria madre, di una sorella, di una zia e di una persona che sia al di sopra di ogni sospetto». 
C’è anche un altro fatto, richiamato proprio da questo canone, che fa pensare che già dai primi secoli i membri del clero fossero in gran parte celibi, ed è il problema delle convivenze. Infatti i preti celibi che non avevano più la madre o non avevano una sorella, da chi dovevano essere accuditi? Alcuni pensarono di prendere in casa una vergine consacrata (le cosiddette virgines subintroductae), per attendere alla faccende domestiche, ma questa era una soluzione per nulla soddisfacente, perché alimentava i sospetti tra la gente. Perciò i vescovi come san Cipriano e san Giovanni Crisostomo condannarono energicamente questa pratica. 
In definitiva, dal punto di vista della Chiesa antica, il problema non era se ordinare persone sposate o celibi, ma come vivere autenticamente la castità sacerdotale. L’orientamento prevalente però fu quello di assumere persone celibi, sperando che fossero formate nella virtù. I vari concili medievali che si sono espressi su tale questione, fino al concilio di Trento, constatarono però la difficoltà di avere preti non solo celibi, ma anche capaci di dominare la propria sessualità, per cui spesso vivevano con concubine o addirittura cercavano di sposarsi. Così il concilio Lateranense II (1139) dichiara che se un vescovo, prete o diacono osa contrarre matrimonio, tale matrimonio è invalido. La stessa cosa ripete il concilio di Trento nel 1563 (sess. 24, can. 9). Nonostante queste evidenti difficoltà, la Chiesa latina ha sempre mantenuto la “legge delle continenza”, che di fatto è diventata la “legge del celibato”. Diversamente sono andate le cose nella Chiesa greca, dove a partire dall’VIII secolo, con il Concilio Quininsesto (in Trullo) fu concessa una mitigazione alla legge della continenza, permettendo ai preti e ai diaconi sposati di continuare i rapporti coniugali e quindi di avere figli. Per i vescovi però è rimasta la legge della continenza o celibato.
Riassumendo: la “legge del celibato”, come l’abbiamo spiegata all’inizio, e cioè come norma che per diritto canonico “impedisce” alle persone sposate di accedere al sacramento dell’Ordine, è chiaramente una norma ecclesiastica, cioè fatta dalla Chiesa e non emanante dalla Parola di Dio, che in san Paolo prevede che siano scelte al diaconato, al presbiterato e all’episcopato anche persone sposate, purché lo siano state «una sola volta» e abbiano dato buona prova nell’educazione dei figli (1 Timoteo 3, 2; 3, 12; Tito 5, 6).

La “legge della continenza” invece è, almeno a mio avviso, di origine apostolica e si radica nella figura stessa di Gesù, il quale non si è sposato e ha chiesto ai suoi apostoli una sequela radicale, che comportava un abbandono della vita coniugale a motivo del regno, in accordo con l’eventuale sposa, che da quel momento diventava una “sorella”.

In definitiva, il passaggio dalla stato coniugale a quello sacerdotale è stato ammesso nella Chiesa antica, ma non è ammesso ora nella Chiesa cattolica di rito latino. Invece il passaggio dallo stato sacerdotale a quello coniugale non è mai stato ammesso nella Chiesa, né antica, né moderna, e neppure nelle Chiese Ortodosse. Qui non ci sono “porte aperte”. La ragione è che lo stato sacerdotale è qualcosa di più rispetto allo stato coniugale. Ora si può passare dal meno al più, ma non dal più al meno.

Quindi dire che nella Chiesa antica i preti si potevano sposare è una sciocchezza; dire che i preti Ortodossi si possono sposare è un’altra sciocchezza. Ma anche dire che la “legge del celibato” ci sia sempre stata nella Chiesa è anch’essa una cosa non esatta. Riprendiamo allora le parole del Papa, sperando che ora siano più chiare: «Il celibato non è un dogma di fede, è una regola di vita che io apprezzo tanto e credo che sia un dono per la Chiesa». Il celibato sacerdotale dunque, pur essendo una regola della Chiesa, è però un “dono” prezioso, che la Chiesa cattolica ha maturato nel tempo e che conserva gelosamente perché è il mezzo migliore per tenere alta la spiritualità dei suoi ministri, in conformità con le esigenze del Vangelo.  

Chi era il fratello del Figliol Prodigo?



di Luca Marcolivio   per Zenit
Due fratelli di diciassette e diciannove anni, orfani di madre, nel fiore della loro gioventù. Si vogliono bene, condividono ogni cosa e il padre stravede per loro.
Un giorno, poi, improvvisamente, il più giovane decide di lasciare i suoi cari e, facendosi prestare il denaro necessario, si incammina verso una destinazione ignota, senza nessuna certezza sul ritorno.
Mentre il padre accetterà il fatto con stoica e malinconica rassegnazione, la reazione del fratello maggiore è incredula, rabbiosa, carica di risentimento.
Quella del Figliol Prodigo (o del Padre Misericordioso) è probabilmente la più celebre ed amata delle parabole evangeliche (Lc15,11-32), una storia ascoltata decine di volte nelle omelie domenicali, che, tuttavia, non smette mai di commuoverci e farci riflettere.
Identificarsi in uno dei tre personaggi – il padre o uno dei due figli – è facile e ognuno di essi, in misura diversa, incarna una parte della nostra personalità.
La parabola del Figliol Prodigo, in duemila anni, ha ispirato dipinti (Bosch, Rembrandt, De Chirico), opere liriche o balletti (Ponchielli, Prokofiev) e commedie (Voltaire) ma mai un romanzo. L’assassino di mio fratello (Giovane Holden Edizioni, 2013), opera prima di Gerardo Ferrara va a colmare questa lacuna.
Trentacinquenne romano di origine lucana, forte dei suoi studi sulle culture mediorientali, sulle religioni abramitiche e sulla filosofia semitica,  Ferrara riesce nel suo intento di ricostruire lo sfondo storico e antropologico della Galilea immediatamente precristiana, con tutte le sue tradizioni, i suoi usi e costumi, senza lesinare particolari crudi e violenti, nello spirito di un certo filone veterotestamentario.
L’Autore assume il fratello maggiore come io narrante, optando quindi per una lettura complessa e “moderna” della vicenda. Nel protagonista Shimon è individuabile tutta la fragilità dell’uomo contemporaneo che vede miseramente franare ogni velleità di costruzione della sua personalità su valori “borghesi” e “di facciata”, sull’adesione ad una morale (nel caso specifico quella della legge mosaica, in particolare nel quarto Comandamento), sulla rispettabilità, sull’identificazione dell’uomo con il proprio “fare”, piuttosto che con il proprio “essere”.
Nel giovane e ingenuo David, invece, il lettore potrà scorgere l’umanità rigenerata dal dolore per il proprio peccato e riscattata dall’unico vero amore che non tradisce: quello del Padre che dolorosamente rispetta la libertà dei propri figli, anche nel loro errore, e che vibra di gioia incondizionata per la loro sola vicinanza.
Il ritorno di David, quindi, spiazzerà Shimon fino allo sgomento, infrangerà tutte le sue false certezze, lo getterà nell’abisso della disperazione e della crisi di identità, perché lo ha reso consapevole di non saper amare, fino a percepirsi, in qualche modo, come l’assassino morale di suo fratello.
Scritta in un singolare tempo presente, a metà strada il diario e un incedere cinematografico, la storia si caratterizza per una curiosa nemesi, per cui, in distinti momenti, sarà Shimon, a sua volta, a mettersi in viaggio e ad abbandonare la famiglia.
Rocambolesche avventure lo porteranno sulle tracce del fratello scomparso e Shimon, più volte, si metterà nei guai, arrivando a rischiare la vita e a commettere persino due orribili delitti. Sarà proprio questa immersione negli abissi del male e del peccato, a condurlo lungo strade mai immaginate prima e, alla fine, la redenzione si compirà, in maniera assai sorprendente, anche per il fratello maggiore.
Fedele e scrupoloso nella ricostruzione storica, L’assassino di mio fratello è articolato su un linguaggio agile e moderno. La narrazione è dinamica ma, al tempo stessa molto riflessiva ed introspettiva, richiamando in parte l’approccio dei grandi scrittori russi del XIX secolo, Dostoevskij in primis.
L’assassino di mio fratello è, in definitiva, un’opera che potrà risultare gradita a vari tipi di lettori: agli appassionati del romanzo storico, ai biblisti, agli amanti della fiction a sfondo religioso, come pure a chi è in cerca di stesso e – anche inconsapevolmente – anela al grande dono della Misericordia.

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Susanna Tamaro, quanta profondità in poche pagine
di Rino Cammilleri
Non c’è quasi romanzo americano che non consti di almeno cinquecento pagine. I provinciales lo sanno e si accodano. Perfino il mitico Umberto Eco, col suo Nome della Rosa, si adeguò. Ma gli americani, si sa, monetizzano tutto, non c’è da aspettarsi altro da una nazione creatasi per motivi di soldi (la settecentesca guerra d’indipendenza non fu che un’indipendenza dalle tasse britanniche). E gli «alti ideali» per cui fanno da sempre i «guardiani della democrazia nel mondo» sono solo quelli, economici, nazionali. Si badi, non c’è nulla di antiamericano in questo discorso: potendo, anche noi faremmo lo stesso. Ora, un americano medio fa questo ragionamento: se devo spendere sui venti dollari per un libro, voglio che il godimento duri almeno una settimana. Da qui la voluminosità media dei romanzi americani.
Ma un vero scrittore, a meno che non racconti una saga generazionale, non ha bisogno di centinaia di pagine. Grandi scrittori, per esempio, si sono cimentati col genere «aforisma», che per sua natura è stringatissimo. La capacità di cogliere quel che agli altri sfugge (cifra del grande scrittore) emerge meglio nella concisione. Non a caso il più grande comunicatore di tutti i tempi, Gesù, si esprimeva in parabole, cioè racconti brevissimi, storie di poche righe ognuna delle quali conteneva un universo. Per questo una delle nostre grandi scrittrici (forse l’unica), Susanna Tamaro, ha scelto di scrivere libri brevi. Anzi, sempre più brevi, come l’ultimo, Meditazioni sulla Passione, che si presenta pure in piccolo formato. Non è altro che una Via Crucis, come quelle che il papa presiede il Venerdì Santo al Colosseo: stazione, meditazione, preghiera, brano finale dello Stabat Mater.
Ma ecco la profondità della riflessione: «Ci sono frasi di Gesù che amiamo molto. Anche chi con Lui ha una frequentazione scarsa sa ripeterle senza alcun inciampo, mentre ce ne sono altre –e non poche- che preferiamo tenere in un cono d’ombra. Ci inquietano e noi non vogliamo essere inquietati, vogliamo essere rasserenati». Quando, nell’VIII Stazione, Gesù incontra le pie donne, dice loro di non piangere su di lui ma su se stesse e i loro figli. Malagrazia di Gesù nei confronti delle prefiche? Ricambia la loro compassione con una minacciosa profezia? Tamaro: «Ma la profondità del Suo sguardo sa sempre discernere tra ciò che sembra e ciò che è vero. Le lacrime della convenzione parlano di un dolore esterno, puramente scenografico. Si sfoga l’emotività, ci si sente meglio e poi tutto torna come prima». Alla meditazione segue la preghiera: «Signore Gesù, quante lacrime vuote inondano i nostri giorni! Basta guardare un qualsiasi programma televisivo per esserne travolti». No, le lacrime che veramente lavano sono quelle di «un cuore di plastica, un cuore di pietra che, all’improvviso, scopre di essere di carne (…). Prima non vedevo e ora vedo, per questo piango».
La stazione in cui Gesù è spogliato delle sue vesti genera questa preghiera: «Quando penso alla Tua nudità mi ricordo che l’ottanta per cento delle persecuzioni religiose nel mondo, ora, riguarda i cristiani. È sempre la Tua parola a suscitare l’odio di chi ama le tenebre (…). Donaci la nudità dell’innocenza, il coraggio di andare sempre incontro al male cantando». Il terremoto che segue la morte di Gesù: «I terremoti conducono a noi la forza dell’annientamento. Ciò che abbiamo costruito, in pochi istanti crolla, scompare, ritorna indistinto (…). Credevamo di avere il mondo in pugno e invece è il mondo a tenerci in pugno». Il grido di Gesù, «Dio mio, perché mi hai abbandonato?»: invece di «fare scandalo, queste Sue parole ci confortano», perché indicano che Dio sa bene che cosa spesso patiamo.
La scrittrice va oltre, e in un’altra stazione fa sue le parole di rammarico che Benedetto XVI pronunciò, a proposito della Chiesa, in una storica Via Crucis: «Signore Gesù, la Chiesa in cui il Tuo spirito continua a vivere è una barca su cui nessuno vuole più salire». Ma è interessante che, tra le cause elencate, ci siano la «troppa incapacità di parlare alla disperata solitudine dell’uomo contemporaneo» e, significativamente, la «troppa banale liturgica bruttezza». Alla prima sembra stia egregiamente ovviando la strategia comunicativa di papa Francesco, fatta, appunto, più di gesti che di parole. Per la seconda, temo che dovremo pazientare ancora un bel pezzo, anche se gli spiriti più sensibili (come la Tamaro, ma pure, a suo tempo, Agatha Christie) scalpitano insofferenti. Ma qui rischio di usare troppe parole, laddove al grande scrittore, come sappiamo, basta una laconica frase: un sasso nello stagno, e i cerchi vanno fin dove trovano orecchi per intendere.

-Susanna Tamaro, Meditazioni sulla Passione, con Nota dell’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi. Bompiani, pp. 93.

Sulle tracce di un incontro



 Soglie del mistero per credenti in cammino

 La morte di Dio era per alcuni una certezza qualche decennio fa. Anzi, già al tramonto del XIX secolo l’uomo folle di Nietzsche denunciava e annunciava la morte di Dio con toni trionfalistici e tragici al contempo. Un requiem aeternam Deo tanto famoso quanto infame, tanto realista quanto illuso. Geniale, ma illuso, perché Dio non è morto. E non è un’affermazione credente. È un’affermazione sociologica. Viviamo un ritorno al sacro, un ritorno del divino.
Non solo Nietzsche ha sbagliato, ma anche i protagonisti della cosiddetta «teologia della morte di Dio» come J. Robinson, W. Hamilton, Th. Altizer, per dire solo qualche nome. Le premonizioni delle loro teologie non hanno colto nel segno. La secolarizzazione non ha eroso il “senso religioso” e le esigenze metafisiche dell’uomo.
Anche la grandissima sensibilità di Dietrich Bonhoeffer, loro antenato forse, non ha potuto prevedere lo scenario attuale. Il grande teologo e martire protestante parlava dell’avvento di una coscienza non religiosa e scriveva convinto: «Stiamo andando incontro ad un tempo completamente non-religioso; gli uomini, così come ormai sono, semplicemente non possono essere religiosi. Anche coloro che si definiscono sinceramente “religiosi”, non lo mettono in pratica in nessun modo». 
Questo scenario prospettato dista anni luce dalla situazione in cui viviamo. Il Cardinal Gianfranco Ravasi osserva al riguardo che «quel Dio che qualche decennio fa sembrava irrimediabilmente morto, persino nella teologia – e per di più neppure ucciso dagli uomini, come esagitatamente declamava il filosofo tedesco Nietzsche nella sua opera Gaia scienza(1882), ma semplicemente sepolto dall’oblio dell’uomo evoluto –, in realtà sembra più vivo che mai».
Ma un uomo della cultura di Ravasi non si arrende al facile ed epidermico trionfalismo del ritorno di Dio. Per questo, nel suo libro Sulle tracce di un incontro. Soglie del mistero per credenti in cammino, edito dalla San Paolo, invita a soffermarsi sulla fisionomia di tale Dio perché, come ci ricorda il profetico David Maria Turoldo, il problema fondamentale non è tanto se Dio esista o no, quanto piuttosto quale Dio scegliere.
In termini più diretti e crudi: Chi è questo Dio che è tornato? Che volto ha questa esperienza religiosa? Che cosa significa religioso in questo contesto? È “Dio” – si chiede Ravasi con acuta ironia – quel sacro «fluido e inconsistente della New Age, simile a una medusa, avvolto in melodie un po’ melense, collocato su altari di raffinato design all’interno di chiese simili al club di fitness dell’anima, con un’“eucaristia” analoga a una dieta purificatrice, capace di miscelare yogurt e yoga?».
L’itinerario proposto da Ravasi in questo suo libro è di una riscoperta e orientamento del senso religioso, orientato non verso un dio fatto a misura da indossare e da consumare, ma verso un incontro con il Tu di Dio irriducibile a qualsiasi idolo.
Il cammino tracciato, con una sensibilità mistagogica, parte dal risvegliare la sete di senso e di pienezza non di rado soffocata e assopita dai tanti, troppi, impulsi a cui siamo sottoposti e a cui ci sottoponiamo più che volentieri. È questa la figura dell’uomo contemporaneo: «Con le mani alzate in segno di adorazione e di resa di fronte al Moloch televisivo, l’uomo contemporaneo sa tutto sui cibi e sui vestiti, sulle mode e sui consumi, ma non è più in grado di porsi le domande autenticamente “religiose” che artigliano la coscienza, non sa più scoprire il senso della vita, le radici dell’essere, la via del bene e quella del male, la meta dell’esistenza. Conosce il prezzo di tutto, ma ignora il valore vero della realtà» (12).
Il cammino si delinea in 12 tappe partendo appunto dal superamento dell’indifferenza, verso la presa di coscienza del “Dio nascosto” che non è riconducibile a nessuno schema razionale immediato. Dall’allenare il cuore all’ascolto della “voce di silenzio sottile” per accogliere la Parola e vivere la preghiera e l’incontro con Dio nella bellezza che si rispecchia sommamente nell’uomo immagine di Dio conformato alla sua somiglianza nell’amore.
R. Cheaib

Il Vangelo come festa

37a Convocazione


All’Olimpico l’incontro del Papa con il Rinnovamento nello Spirito. 

(Gianluigi d’Amore) Saranno le parole degli Atti degli apostoli «Convertitevi! Credete! Ricevete lo Spirito Santo!» (2, 38-40) e quelle di Papa Francesco «Per una Chiesa in uscita missionaria» a fare da tema alla trentasettesima convocazione del Rinnovamento nello Spirito, che si svolgerà nei giorni 1 e 2 giugno a Roma, nello stadio Olimpico, e avrà proprio il Pontefice come ospite d’eccezione durante la prima giornata. All’incontro, organizzato in collaborazione con l’International catholic charismatic renewal services e il Catholic fraternity of charismatic covenant communities and fellowships, sono attese circa cinquantamila persone provenienti da tutta Italia e da diverse parti del mondo. «È l’immagine del popolo di Dio che si lascia animare e condurre dallo Spirito» commenta il presidente Salvatore Martinez, sottolineando che «migliaia e migliaia di persone, molte lontane dalla fede o anche ostili alla Chiesa, si ritrovano coinvolte insieme a fratelli e sorelle provenienti da centinaia di gruppi e comunità in una profonda esperienza cristiana, sacramentale e carismatica insieme». Del resto, aggiunge, «già Giovanni Paolo II invitava a guardare con coraggio agli areopaghi della nuova evangelizzazione. È quello che abbiamo inteso fare, trasferendo il nostro tradizionale incontro da Rimini a Roma, nel cuore della cristianità, proprio in quella grande “arena” che è lo stadio Olimpico».
Non è la prima volta che un Pontefice incontra gli appartenenti al Rinnovamento, anche se è la prima volta che ciò avviene fuori dal Vaticano. Memorabile resta soprattutto l’udienza che Paolo VI concesse ai diecimila partecipanti al congresso mondiale del movimento, riuniti nella basilica vaticana il 18 maggio 1975, all’indomani della Pentecoste. A loro Papa Montini affidò la consegna Laeti, bibamus sobriam profusionem Spiritus, traendo spunto da un inno di sant’Ambrogio del IV secolo. In quello storico incontro — il primo di un Pontefice con il Rinnovamento — Paolo VI tracciò un programma per il futuro del movimento, invitandolo a ricercare l’equilibrio giusto tra entusiasmo, o abbandono all’azione dello Spirito Santo, e impegno personale fattivo nella Chiesa e nella società civile.
Questa duplice dimensione è stata sempre insita nel Rinnovamento fin dalla sua nascita in Italia, avvenuta nel 1971 a opera di quattro sacerdoti e una suora: Valeriano Gaudet, degli Oblati di Maria Immacolata, missionario di origine canadese; Paul O’Connor, Giles Dimock e Terence Keegan, tre giovani domenicani, e suor Winifred Corrigan, delle suore del Cenacolo. Da allora il movimento si è impegnato a perseguire l’obiettivo fondamentale di essere al servizio del regno di Cristo secondo le indicazioni dello Spirito in comunione di fede, di pensiero e di disciplina con i pastori della Chiesa, incarnando le tre dimensioni raccomandate da Giovanni Paolo II nell’udienza del 15 novembre 1986: vivere «secondo lo spirito», riaffermare «il valore dei principi e criteri del Vangelo come leggi della vita spirituale e fermento di quella sociale», seguire «la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù».
Un impegno che con Papa Francesco sollecita il Rinnovamento a un ulteriore slancio creativo e missionario. «Vogliamo che la convocazione — conferma Martinez — sia un esaudimento del rinnovamento spirituale ed ecclesiale indicato da Papa Francesco nella Evangelii gaudium. L’incontro con la persona di Gesù è sempre causa di novità per l’uomo; ma il segno che questa sia una vera esperienza d’amore è la gioia: una gioia che si fa missionaria». Gli fa eco il cappuccino Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia. «Il titolo dell’esortazione apostolica di Papa Francesco La gioia del Vangelo — spiega — indica quale può essere ed è di fatto il contributo che il Rinnovamento nello Spirito può dare alla nuova evangelizzazione: quello cioè di mostrare che il Vangelo è davvero, come indica il suo nome, una “lieta notizia”. Se c’è una cosa che caratterizza, anche visibilmente, il modo di vivere la fede dei suoi membri, essa è la gioia, la spontaneità e l’entusiasmo. È la cosa che più impressiona anche gli estranei in occasione di grandi o piccoli raduni di questo movimento. La spiegazione di ciò è tutta nello Spirito Santo. Chi vive “secondo la legge dello Spirito” compie i doveri cristiani non più per costrizione ma per attrazione, perché ha scoperto che Dio lo ama, vuole il suo bene ed è il migliore alleato della sua felicità».
«Papa Francesco — continua padre Cantalamessa — ha detto che i pastori non devono tanto mostrare al mondo quanto è lontano dalla verità rivelata, ma piuttosto affascinarlo e quasi sedurlo con la bellezza del Vangelo e dell’amore di Dio. Credo che il Rinnovamento nello Spirito rappresenta una realizzazione convincente in questa direzione. In esso, pur con tutti i suoi limiti e sbavature umane, si vive davvero il Vangelo come una festa, i volti stessi manifestano la gioia dell’incontro con il Risorto». Ed «è inconfutabile — conclude il presidente Martinez — il fascino evangelico esercitato dal Papa e il forte impatto spirituale che le sue parole e i suoi gesti provocano nel cuore di credenti e non credenti. Registriamo ogni giorno un entusiasmo crescente e vediamo i nostri gruppi e comunità riempirsi di persone che cercano il Signore, invocano misericordia, reclamano fraternità. Vogliamo continuare a essere questo “ostello”, con umile convinzione e gratitudine. Lo stadio Olimpico sarà davvero gremito di gente felice di credere, di amare la Chiesa, di seguire Gesù. Questo è il migliore regalo che potremo fare a Francesco, mentre ci confermerà nella fede».
L'Osservatore Romano

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La Convocazione sarà trasmessa in diretta in diversi orari e canali:
- Rai1 dalle 17.45 alle 18.30 del 1° giugno
- Diretta integrale di Telepace
- Diretta integrale su Radio Maria
- Diretta Cançao Nova (Brasile) dalle 17.00 alle 18.30 del 1° giugno
- Diretta Tv2000 dalle 16.30 alle 18.30
- Diretta su Maria Vision dalle 17.00 alle 18.30 del 1° giugno/ 2 giugno dalle 15.20 alle 16.00
- Diretta Radio Vaticana dalle 16.30 alle 18.30 (6 radiocronache in 6 lingue)
- Diretta streaming su www.famigliacristiana.it
- Diretta Twitter su Avvenire, RnS e Famiglia Cristiana

Quando l’amore è contagioso.



 Beatificata a Collevalenza madre Speranza di Gesù

«Una corsa verso la santità»: così il cardinale Angelo Amato ha riassunto la vita di madre Speranza di Gesù, al secolo María Josefa Alhama Valera (1893-1983), durante la beatificazione presieduta a nome di Papa Francesco, sabato 31 maggio, presso il santuario dell’amore misericordioso di Collevalenza di Todi, in Umbria. Qui la religiosa, nata in Spagna, ha vissuto dal 1951 fino alla morte. E qui, nella cripta, riposa il suo corpo, meta ogni anno di pellegrini da tutto il mondo.

All’omelia il prefetto della Congregazione delle cause dei santi ha ricordato che la stessa beata aveva più volte confidato come intendesse condurre la propria esistenza. «La santità — diceva — consiste nel vivere in Gesù». Perché la sua ansia era la santificazione «costi quel che costi».
Nella lettera apostolica per la beatificazione, Papa Francesco esalta madre Speranza per tre meriti: «come fondatrice di due congregazioni di vita consacrata, le ancelle e i figli dell’amore misericordioso; come testimone della mansuetudine di Dio soprattutto verso i poveri e come promotrice della santità presso il clero diocesano». E in proposito il porporato ha spiegato che il programma di vita di madre Speranza, è riassumibile nel «fare la volontà di Dio, affidarsi alla sua provvidenza, amare il crocifisso, simbolo dell’amore misericordioso». E «con questa fede sconfinata ella attraversò le oscure gallerie del male, dell’incomprensione e dell’umiliazione, uscendo purificata e rafforzata nei suoi propositi».
Naturalmente, tra le virtù in cui eccelleva, dopo la fede, era la speranza quella che maggiormente la identificava. «Era — ha ricordato il cardinale Amato — l’energia segreta che la guidava ad amare, a soccorrere, a perdonare. La speranza era per lei la misericordia divina vissuta e donata a piene mani». Infatti «contava su Dio a occhi chiusi. Da donna di buon senso amava ripetere un proverbio spagnolo, che dice: “Chi ordina paga”. Se Dio ordina di fare qualcosa, è lui che deve provvedere».
La sua era inoltre una speranza contagiosa. «Soprattutto — ha detto il prefetto — per i poveri. Il suo desiderio era raggiungere i più abbandonati ed emarginati. Era protagonista di una carità gratuita. Lavorava molto per poter venire incontro ai bisognosi, ai quali donava soldi, cibo, vestiti, tempo, lavoro e persino la sua biancheria. Soccorreva tutti con aiuti di ogni genere».
Infine, terza virtù, la carità concreta. «Accoglieva — ha detto il cardinale celebrante — le famiglie senza tetto; si prendeva cura dei soldati feriti e stanchi della guerra, senza badare a nazionalità o credo politico; alla fine del secondo conflitto mondiale aprì una mensa, arrivando a dar da mangiare a più di mille persone al giorno. A Collevalenza aprì un laboratorio di maglieria per aiutare le ragazze del posto». E «sempre a Collevalenza aveva verso i pellegrini un’attenzione materna. All’inizio offriva gratuitamente un pasto caldo ai più poveri. Poi mise una quota simbolica». Inoltre la sua carità si esprimeva anche nelle opere di misericordia spirituale: accoglieva, consolava, ammoniva, perdonava, insegnava, sopportava, pregava. Ha ricordato il cardinale: «Rispondeva con il silenzio e la preghiera a coloro che la contrariavano e la calunniavano. Anzi, spesso difendeva i suoi denigratori giustificandoli: “Loro — diceva — erano accecati dalla passione e dal demonio e Dio si è servito di loro per la mia più grande santificazione”. Li chiamava persino benefattori».
Il cardinale Amato ha poi individuato in madre Speranza «una carità preferenziale» per i ministri di Dio. Fondò infatti i figli dell’amore misericordioso, «perché accompagnassero i sacerdoti in difficoltà materiale e spirituale. Aveva un’attenzione particolare per i sacerdoti diocesani, soprattutto anziani, che accudiva con generosità». Era, dunque, «profondamente madre, con una predilezione particolare per chi soffriva nella salute e per chi attraversava difficoltà».
Ecco allora l’attualità del messaggio di madre Speranza, che il cardinale ha riproposto ai numerosi fedeli presenti alla celebrazione: «Non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi. Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene. Vivete in pace con tutti». Da qui l’invito conclusivo a riscoprire la vocazione alla santità: «La vita sia una corsa verso la santità, perché il mondo ha sempre più bisogno di persone sante, che sappiano vincere il male con il bene».
L'Osservatore Romano

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Madre Speranza è Beata
di Lorenzo Bertocchi
Oggi, a Collevalenza di Todi (Pg), il Cardinale Angelo Amato ha proclamato Beata la Venerabile Madre Speranza (1893-1983), fondatrice della Congregazione religiosa della Famiglia dell’Amore Misericordioso. Qui si trova il famosissimo santuario, meta di centinaia di migliaia di pellegrini, e qui riposano le spoglie mortali della Beata. Il Cardinale  Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia, ha ricordato che nell’epoca attuale, “in cui gli uomini si allontanano sempre più dalla pratica religiosa e vivono come se Dio non esistesse, Madre Speranza diventa segno profetico di annuncio e di testimonianza che Dio ci ama.”
Madre Speranza, al secolo Giuseppa Alhama Valera, nasce a Santomera in Spagna nel 1893, maggiore di nove fratelli di una famiglia molto povera. A ventuno anni decide di realizzare il sogno della sua vita: consacrarsi a Dio. Il 15 ottobre, festa di S. Teresa d’Avila, “ ... lasciai la casa paterna con la grande aspirazione di essere santa, di assomigliare un poco a Santa Teresa”. Da quel giorno seguiranno una serie ininterrotta di prove e segni straordinari, tra cui malattie gravissime e guarigioni inspiegabili, testimonianza della particolare predilezione del Signore. I suoi direttori e confessori la guideranno verso la comprensione della particolare chiamata a lei riservata: diffondere nel mondo la devozione all'Amore Misericordioso. Come tante altre anime sante non mancano diffidenze, anche da parte della Chiesa. Nel 1930 a Madrid emette i voti per la nascente congregazione delle Ancelle dell’Amore Misericordioso, ma vive l'ostruzionismo del Vescovo della città che ordina e comanda che nessuno l’aiuti o collabori con lei. Madre Speranza va avanti, nell'obbedienza, ma prosegue il cammino. Nel giro di pochi anni apre in Spagna dodici case per bambini poveri e bisognosi, per anziani e malati assistiti anche a domicilio.
Nel 1936, in piena guerra civile spagnola, fa i suoi primi viaggi a Roma dove opererà fra i poveri della periferia romana, sulla via Casilina. Contemporaneamente deve difendersi davanti al Sant’Ufficio per accuse e diffamazioni sulla sua persona e sulla Congregazione appena nata. Intanto scoppia la Seconda Guerra Mondiale e la sua attività caritativa a Roma assume dimensioni fuori dal comune. Tra i bombardamenti e le minacce dei tedeschi, insieme alle suore accoglie bambini, nasconde profughi senza badare alle loro ideologie, cura i feriti dei bombardamenti, dà da mangiare a migliaia di operai e bisognosi in mense improvvisate, consola tutti.
Nel 1950 è completata la casa generalizia di Roma e si aprono diverse realtà in Italia; il 15 agosto del 1951, su divina ispirazione, fonda i Figli dell'Amore misericordioso. Saranno in tre ad emettere i voti e tre giorni dopo, il 18 agosto, Madre Speranza si stabilisce con loro e alcune Suore a Collevalenza, paesino dell’Umbria. Era un borgo di nemmeno mille abitanti sparsi nella campagna, famoso nei dintorni per un boschetto di lecci detto il “Roccolo”, dove i cacciatori si divertivano a prendere gli uccelli con le reti. Gesù le spiegò: “Speranza, trasformeremo questo “roccolo” in un luogo di conquista delle anime. Verranno a stormi più numerosi di questi passerotti”. Proprio sul terreno del Roccolo sorgerà il santuario di Collevalenza, una rete che ha rapito migliaia di anime.
I Figli dell'Amore Misericordioso ricevono, tra le altre, una particolare missione. Nel verbale di riunione della comunità dei Padri di Collevalenza del 21 Marzo 1955 si legge: "Comunica poi la Madre un incarico avuto dal Signore. I religiosi esercitino un atto di carità eroica consistente nell’offerta totale di ogni azione per la santità del Clero e delle anime a Lui consacrate. (…) Questo, prosegue la Madre, è il secolo di più santi, ma è pure il secolo in cui il Clero e le anime consacrate offendono di più il Signore perché è il secolo che dà più occasione di peccato. Chi rimane in piedi, conclude la Madre, disarmi il Signore".
Madre Speranza ben sapeva che l'amore di Dio non ha limiti, ma la sua via è quella del sacrificio, dell'offerta di sé, non un sentimento qualsiasi. “Mi dici, Gesù mio, che l’amore se non soffre e non si sacrifica non è amore. - scrive nel 1941 - Che insegnamento, Dio mio! Adesso mi rendo conto perché il tuo amore è così forte ed è fuoco che brucia e consuma”.
Quel fuoco era quello che ha scaldato Madre Speranza, e la sua vita è un unico interminabile tentativo di portare ad esso più anime possibile. Per far bruciare il peccato. “Care figlie – ha scritto - è necessario riconoscere e confessare che la Legge divina, naturale e positiva è giusta e pertanto che la sua infrazione è peccato, è lesione della giustizia, è iniquità, male gravissimo e sopra ogni altro detestabile. È necessario che il peccatore confuso e pentito esclami davanti a Dio misericordioso: Signore, ho peccato contro di te! Ho fatto il male ai tuoi occhi. Perdonami, Gesù mio”.

Parole del Santo Padre Francesco ai bambini che partecipano all’iniziativa "Il Treno dei Bambini"





Parole del Santo Padre Francesco ai bambini che partecipano all’iniziativa "Il Treno dei Bambini" promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura   
Sala stampa della Santa Sede

Alle ore 12.30 di questa mattina, nell’Atrio dell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Francesco ha incontrato i 500 bambini partecipanti all’iniziativa "Il Treno dei Bambini", promossa dal Pontificio Consiglio della Cultura nell’ambito del "Cortile dei Gentili dei Bambini". Pubblichiamo di seguito le parole che il Papa ha rivolto ai piccoli presenti all’incontro: (...)

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Pccs
Con l'avvicinarsi del 1 giugno, festa dell'Ascensione del Signore e data della 48° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali (PCCS) promuove, come ha fatto negli anni scorsi, la condivisione di risorse pastorali e produzioni audiovisive preparate per l'occasione dagli uffici comunicazione delle Chiese locali (...)
Testo del Messaggio del Papa
XLVIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2014 - Comunicazione al servizio di un'autentica cultura dell'incontro
[Francese - Inglese - Italiano - Polacco - Portoghese - Spagnolo - Tedesco]

Domenica dell'Ascensione - Anno A - 1 giugno 2014



Nella Solennità dell’Ascensione del Signore, la liturgia ci presenta il Vangelo in cui Gesù risorto, prima di salire nella gloria dei cieli, dice ai discepoli:
«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato»
“L’Ascensione fa celebrare il Signore crocifisso e sepolto, risorto al terzo giorno, glorificato, esaltato alla destra del Padre dal quale è ‘assunto’ (ma anche ascende di sua divina potenza personale), al fine di esercitare il suo culto sacerdotale eterno di lode e di azione di grazie, ma anche di intercessione epicletica; questa, intesa ad ottenere lo Spirito Santo del Padre e suo per gli uomini redenti” (T. Federici). Il brano del Vangelo, la conclusione del Vangelo di Matteo, esalta cinque momenti che danno senso a tutta l’opera compiuta dal Signore. Innanzitutto, afferma che il Padre ha messo nelle sue mani la missione salvifica: “A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra”; e questa missione ora egli consegna ai suoi discepoli: “Andate”, si tratta di rompere ogni barriera culturale e religiosa; “Fate discepoli tutti i popoli”, si tratta di formare un “nuovo popolo di popoli”; “Battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, gli apostoli portano con sé la rivelazione di questo nome divino di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo; “Insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”, annunciano agli uomini tutta la rivelazione di Dio, che porta con sé anche la stessa rivelazione dell’uomo. Si può intuire ciò che l’uomo è per davvero solo alla luce questa rivelazione di Dio: solo nel mistero del Verbo incarnato, proclama la Gaudium et Spes (n. 22), si “illumina veramente” il mistero dell’uomo. E il Signore lascia ai suoi apostoli il sigillo divino della sua presenza accanto ad essi e in essi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. (don Ezechiele Pasotti, prefetto agli studi nel Collegio Diocesano missionario “Redemptoris Mater” di Roma).

MESSALE
Antifona d'Ingresso  At 1,11
«Uomini di Galilea,
perché fissate nel cielo lo sguardo?
Come l'avete visto salire al cielo,
così il Signore ritornerà». Alleluia.

 
Colletta

Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria. Egli è Dio...


 
LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura  
At 1,1-11
Fu elevato in alto sotto i loro occhi.

Dagli atti degli apostoli

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».


Salmo Responsoriale  
Dal Salmo 46
Ascende il Signore tra canti di gioia.Oppure:
Alleluia, alleluia, alleluia.
Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra.

Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Perché Dio è re di tutta la terra,
cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti,
Dio siede sul suo trono santo. 

 

Seconda Lettura
  Ef 1, 17-23
Lo fece sedere alla sua destra nei cieli. 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni
Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore.
Egli la manifestò in Cristo,
quando lo risuscitò dai morti
e lo fece sedere alla sua destra nei cieli,
al di sopra di ogni Principato e Potenza,
al di sopra di ogni Forza e Dominazione
e di ogni nome che viene nominato
non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.
Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi
e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:
essa è il corpo di lui,
la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.


Canto al Vangelo
  Mt 28,19.20
Alleluia, alleluia.

Andate e fate discepoli tutti i popoli, dice il Signore.
Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine del mondo.

Alleluia.

  
  
Vangelo  Mt 28, 16-20
Mi è stato ogni potere in cielo e in terra.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

   
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Il fallimento umano ha dischiuso la vittoria divina

Commento al Vangelo dell'Ascensione

La Solennità odierna esprime il paradosso più grande, quello che caratterizza l'intera nostra vita: Cielo e terra, Spirito e carne, potenza e debolezza, già e non ancora. "È proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società." (Gaudium et Spes, n. 10).  
L'Ascensione di Gesù è il ponte tra la sua Pasqua e la Pentecoste della discesa dello Spirito Santo, esattamente come il Sabato Santo ha unito il Venerdì della Passione alla Domenica della resurrezione. Il Signore è sceso nella tomba con la nostra carne e con essa è risuscitato. Oggi, con la nostra carne ascende al Cielo, per assidersi alla destra del Padre. 
Oggi trova compimento il cammino intrapreso con l'Incarnazione, proseguito con la vita pubblica ed il suo esito drammatico della Croce e del sepolcro. 
Oggi Gesù risorto schiude a tutti noi la via di ritorno al Padre, e in lui tutti noi, figli prodighi e perduti, possiamo rientrare in noi stessi e convertirci, ritornare a casa, da nostro Padre: "il vostro ritorno sulla via del cielo è qualcosa che va preparato, in un luogo un tempo inaccessibile, da spianare. Il cielo infatti era assolutamente irraggiungibile per gli uomini, e mai prima di allora la natura umana era penetrata nel puro e santissimo luogo degli angeli. Cristo per primo ha inaugurato per noi quella via di accesso e ha dato all'uomo il modo di ascendervi, offrendo se stesso a Dio Padre quale primizia dei morti e di quelli che giacciono nella terra, e manifestandosi primo uomo agli spiriti celesti" (San Cirillo d'Alessandria, Commento sul vangelo di Giovanni, 9).
Ma tra noi e Gesù rimane una differenza sostanziale: Egli è asceso al Padre, noi siamo qui sulla terra. Gli occhi dei discepoli che non potevano staccarsi dalla figura del loro Maestro mentre sfuggiva al loro sguardo inabissandosi nelle altezze celesti, è l'immagine più autentica del nostro intimo. 
Al fondo di ogni desiderio, di ogni atto, anche al fondo dei nostri peccati vi è questo moto naturale, questa nostalgia, questo anelare al Cielo: lo struggimento per il compimento della nostra vita. 
Per questo nulla ci soddisfa, anche le gioie più grandi generano, immancabilmente, desideri ancor più grandi. Perchè tutto di noi è orientato al Cielo.
Come vivere allora questa precarietà spirituale, questa mancanza originaria, questa incompletezza? Come non soccombere nell'accidia, nella de-moralizzazione, nella disperazione? La risposta è nelle parole del Signore che appaiono nel Vangelo di oggi: "Mi è stato dato ogni potere, in Cielo ed in terra". 
Il potere di Gesù è identico lassù e quaggiù, in Dio e tra di noi. E' questo potere che risolve la contraddizione che viviamo quotidianamente. E' questo potere senza limiti che pacifica e riconcilia la nostra esistenza. Ogni potere, il che significa che non vi è aspetto della vita nel quale esso non sia illimitato. Lo possiamo vedere realizzato nella più piccola di tutte le creature, la più umile perchè la più semplice: Maria. In Lei Dio ha mostrato tutto il suo potere soprannaturale: in Lei il Cielo si è fatto terra e la terra si è fatta Cielo. Nella sua carne Dio si è fatto carne e la carne è divenuta dimora di Dio. 
Questo potere celeste è consegnato ai discepoli, a ciascuno di noi. Non è più necessario rimanere con gli occhi incollati al Cielo, la nostalgia del nostro compimento è la memoria che ci desta alla vita piena ed autentica: questa memoria che si fa memoriale, esperienza reale e attuale del ritorno di Gesù negli eventi di ogni giorno, fonda la speranza di rivedere, nel nostro ultimo istante di vita, Cristo vivo discendere dal Cielo per prenderci e portarci con Lui per sempre. 
Asceso al Cielo, il Signore dona alla sua Chiesa il suo stesso potere: la Chiesa può tutto; nella Chiesa noi possiamo tutto. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, e viviamo come dei pezzenti, elemosinando le briciole di ciò che già ci è stato donato.
Esattamente come Adamo ed Eva che, pur avendo ricevuto il potere di dominare sui rettili, si lasciarono ingannare da un serpente. La Chiesa è il corpo di Cristo asceso al Cielo vivo su questa terra. La Chiesa ha la vita di Cristo. 
Ciascuno di noi ha il potere di compiere la volontà di amore di Dio nella storia: come in Cielo così in terra, la preghiera che si fa vita nella nostra esistenza. Possiamo vivere il Cielo nella nostra terra: siamo nel mondo ma non siamo del mondo, ed è proprio quando siamo più deboli che diveniamo più forti, perchè nella nostra debolezza si manifesta pienamente il potere di Cristo. 
Nella sessualità, nella lotta per difendere la castità, per non cedere alla pornografia su internet; nella fedeltà quotidiana alla moglie e ai figli; nell'obbedienza; nel rapporto con il denaro; sul lavoro, di fronte alle ingiustizie, al mobbing, alla routine e all'insoddisfazione; nello svago, nella malattia, nella precarietà economica.
In tutto si manifesta il potere di Gesù. Ed è necessario che si scateni in noi, contro la Chiesa e i suoi figli, il potere contrario a Cristo, l'Anticristo. E' necessario perchè il suo potere si manifesti pienamente di fronte ad ogni contro-potere. 
Come fu quella notte sulla barca, il vento contrario scatenato dal demonio che dominava nella Decapoli dove si stava dirigendo, e Gesù a dormire: tanto era più forte il suo potere da lasciarlo tranquillo, sino a dormire, come fu sulla Croce, quando non si difese e si abbandonò al sonno della morte: il potere del Padre lo avrebbe risvegliato eternamente, e questa certezza era un sigillo nel cuore. 
E' dunque necessario che il fuoco delle tentazioni, il male, le persecuzioni, le contrarietà si scatenino e si abbattano contro di noi. E' necessario per sperimentare il potere di Cristo e mostrare il Cielo al mondo. Perchè Lui ha vinto il mondo
E' questo il senso più profondo del cuore del Discorso della Montagna, quando Gesù dice di non resistere al male e di amare i nemici: è la giustizia più grande, il potere del Signore che si manifesta nella mansuetudine e nella mitezza di un Agnello condotto al macello. 
Nella debolezza crocifissa il potere del demonio è sconfitto. Laddove sembrava avesse vinto, la stoccata decisiva: l'amore totale ha fatto giustizia del peccato e della morte. Il fallimento umano ha dischiuso la vittoria divina: "Egli, con la propria morte, ha fatto morire quella morte, di cui il peccato era stato l’inizio...  “Il mondo”, sotto il soffio della Menzogna originale, divenne nel cuore dell’uomo l’avversario di Dio. E benché il tentatore ripeta sin dal principio: “Sarete come Dio”, questo mondo non è mai capace di offrire, in fin dei conti, all’uomo niente di più, niente d’altro che la morte." (Giovanni Paolo II). 
Per vincere la Coppa del Mondo di calcio occorre affrontare la squadra più forte, per non avere dubbi sul proprio valore, e dimostrare così, inconfutabilmente, di essere i migliori. Altrimenti sorgerebbero dubbi, si addebiterebbe la vittoria alla fortuna, alle circostanze, ad imbrogli. 
Come Cristo ha dovuto affrontare il nemico più forte, il demonio, sul suo terreno, la morte, anche noi nella vita di ogni giorno siamo chiamati ad affrontare lo stesso combattimento, stimati come pecore da macello. Agnelli in mezzo ai lupi, perchè si compia in noi la vittoria dell'Agnello..
Così sarà evidente e credibile il Cielo, la speranza per noi e per ogni uomo. Perchè apparirà, nella nostra famiglia, al lavoro, ovunque e sempre, che in noi Cristo ha un potere illimitato. Il potere di offrire la vita, di amare sino alla fine, che significa all'infinito. In questa luce si comprendono le parole con le quali Gesù invia gli Apostoli. 
"Annunciare il Vangelo, battezzare, insegnare", non è altro che vivere la presenza di Gesù in questa terra, e mostrarla ad ogni creatura. Soprattutto nella persecuzione. 
Lui è con noi tutti i giorni: è asceso al Cielo ma è vivo con il suo potere nelle nostre parole, nei nostri atti, nella nostra vita. Io sono, il nome divino rivelato a Mosè, l'essere che smaschera il non essere, la Verità che svela la menzogna, il potere dell'amore che distrugge il potere del maligno: Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo.
Io sono, e per questo, in Lui, anche noi siamotutti i giorni con Lui, un frammento d'eternità deposto nel tempo, fragranza dell'incorruttibilità nello sbiadire della corruzione. 
La Chiesa, e noi in essa, è il corpo vivo di Cristo oggi qui sulla terra; è la caparra del Cielo offerta ad ogni uomo, la primizia del destino al quale tutti sono chiamati: "Per innalzare la nostra speranza al suo seguito, sollevò anzitutto la sua carne, e perché sperassimo che questo sarebbe toccato anche a noi, ci precedette con quella natura umana che aveva assunto da noi" (S. Agostino). 

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Ascensione del Signore
Commento di Enzo Bianchi
Nelle celebrazioni dei cinquanta giorni dopo la grande festa di Pasqua siamo giunti alla contemplazione di un nuovo aspetto del mistero pasquale. L’ascensione di Gesù, cioè il momento in cui la chiesa prende consapevolezza nella fede che il Signore Gesù, il crocifisso risorto e vivente per sempre, ha ormai un’altra presenza sulla terra, tra i suoi discepoli, nella storia: non è più nella carne fragile e mortale in cui l’hanno conosciuto, ascoltato, visto e toccato (cf. 1Gv 1,1), ma è ormai un corpo glorioso, spirituale, in Dio.
È sempre uomo, ma la sua umanità, trasfigurata dalla potenza dello Spirito santo, è in Dio, totalmente partecipe della vita divina. Ecco perché i discepoli non devono “trattenere” Gesù (cf. Gv 20,17), non devono più decifrarlo in una “visione”, ma lo devono vedere, contemplare e confessare nel grembo del Padre, Dio vivente per sempre. La discesa del Figlio sulla terra, della Parola fattasi uomo (cf. Gv 1,14), è diventata, con la morte, ascensione al cielo, ripresa della condizione divina, come nell’in-principio.
Questo mistero ci appare quasi insostenibile: Dio, il Figlio in Dio, Gesù l’uomo risorto ma trafitto, con la sua umanità non più corruttibile in Dio, il Signore della chiesa nella gloria e sempre veniente per i suoi. Gesù risorto era stato visto dalle donne recatesi al sepolcro nell’alba del primo giorno della settimana, le quali avevano da lui ricevuto l’ordine di andare in Galilea, dove tutti i discepoli l’avrebbero visto (cf. Mt 28,7). Dunque gli Undici, cioè la comunità apostolica privata di Giuda, il traditore, e le donne discepole adempiono il comando di Gesù e vanno sul monte da lui indicato. 
La Galilea è la terra di Gesù, è il luogo nel quale ha messo le radici; con quella terra Gesù ha fatto corpo, quella terra l’ha amata perché non era solo il teatro del suo agire e parlare ma un vero e proprio partner nella sua opera di salvezza. Per questo egli chiede alla sua comunità di andare là dove ci sono le tracce umane della sua vita, per comprendere la nuova forma della sua presenza, nell’accettazione della sua assenza fisica. Il vangelo deve però constatare che anche quando i discepoli “videro” Gesù, dubitarono.
Qui è appena accennato il mistero della fede: quando il credente in Dio aderisce a lui, mette la fiducia in lui, egli crede, ma nello stesso tempo è assalito dal dubbio e nelle sue profondità scopre un non credere, un’incapacità di aderire, di mettere fiducia piena e totale in Dio. È una lotta nella quale segretamente agisce lo Spirito santo che soffia sui dubbi, sulle domande, non per spegnerle ma per renderle capaci di “vedere nella fede” ciò che non saremmo capaci di vedere con le nostre sole facoltà. E allora ecco che la fede può vincere sull’incredulità, la convinzione sulla nientità.
Il travaglio avvenuto nei discepoli di Gesù dopo la sua morte è stato lungo, faticoso, segnato da indietreggiamenti e regressioni. Il loro non è stato un cammino senza contraddizioni, ma la potenza dello Spirito santo lasciato in dono da Gesù li ha portati a contemplarlo risorto, a collocarlo nel grembo del Padre come Signore vivente per sempre. Dio ha aiutato questi poveri uomini e queste povere donne con il suo Soffio santo che – come ci testimoniano i racconti evangelici della resurrezione – essi hanno sentito in sé come un angelo, un giovinetto, due uomini, due angeli presso la tomba vuota: tutti interpreti dell’evento di salvezza con il quale Gesù ha vinto la morte per sempre e il Padre lo ha rialzato dai morti. Da allora i discepoli, i credenti in Gesù, adorano e dubitano, ma ecco che il Signore risorto viene, si avvicina e dona loro la sua parola: “Io sono il vostro Signore, sono il capo del corpo che voi siete, la chiesa, nella pienezza della signoria donatami dal Padre con la resurrezione da morte e l’ascensione alla sua destra.
Perciò la missione ora è vostra, o meglio spetta a voi continuare la mia missione tra tutte le genti, dove troverete nuovi miei discepoli. Io non vi abbandono, ma sono con voi fino alla fine della storia”. Così termina il vangelo: all’inizio alla vergine era stato annunciato che avrebbe dato alla luce un Figlio, il Dio-con-noi, l’Emmanuele (cf. Mt 1,23; Is 7,14); ora, anche se nel seno del Padre, nella gloria divina, Gesù resta il Dio-con-noi per sempre.

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Il Cielo: destino dell'uomo

Lectio Divina per la Domenica dell'Ascensione - Anno A - 1 giugno 2014


Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per l'Ascensione del Signore (Anno A).
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LECTIO DIVINA

1) L’ascensione non è un abbandono, è un Addio [1]
Il brano del Vangelo proposto oggi dalla liturgia romana termina con questa frase di Cristo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).  Con una reazione immediata ed ispirata a quello che viene chiamato buon senso, verrebbe da dire che è un po’ paradossale scegliere questa affermazione di Gesù per la Sua ascensione al cielo. L’ascensione al cielo di Gesù manifesta il mistero della Croce quale trono di gloria, abisso dell’incontenibile tenerezza del Signore “inchiodato” dall’amore per i suoi fratelli e elevato dal Padre. L’ascensione svela il mistero dell'Uomo-Dio. Noi sappiamo da dove viene Gesù perché vediamo dove va: viene dal Padre e a Lui ritorna. La nostra vita non è sospesa nel nulla: Dio è nostro principio e fine. Salendo al cielo, Risorto ci porta nel suo cuore per metterci nel cuore del Padre.
Con l'ascensione Gesù scompare dalla vista, ma non ci lascia orfani. Ci apre la via del ritorno a casa [2].
Questa casa, questo paradiso aveva visto la fuga di Adamo, ma la storia continuò e si conclude con il Cristo, il nuovo Adamo che torna al Padre. Lui è il Figlio unigenito che, diventato uomo, si è fatto primogenito di molti fratelli. Dopo una lunga passione, Lui, il capo, è uscito alla luce. Questa storia continua ancora: è la nascita progressiva del suo corpo, costituito da tutti gli uomini, suoi fratelli. La sua ascensione al Paradiso è un vortice che ci assume con lui nella gloria.
Quando nel suo Vangelo descrive l’ascensione di Gesù, San Luca ripete quattro volte che i discepoli tenevano gli occhi fissi al cielo. Guardavano lì perché lì stava colui che li ama. Dove è il tesoro, lì è anche il cuore. Ognuno va dove già sta il suo cuore. Se il nostro cuore non ha il santo desiderio, resta immobile, come un morto. Se guardiamo in alto, verso le stelle con Maria, Stella del Mare, abbiamo un orientamento sulla terra. Non è un cordone ombelicale che lega, ma la bussola che nella libertà fa camminare verso l’alto.
Dunque l’“ascensione al cielo” non è la festa per un trasferimento di luogo, è un “adDio”: è la festa dell’elevazione di Cristo, essa indica l’insediamento dell’uomo crocifisso nella regalità di Dio sul mondo. E’ una festa perché Gesù ci ha preceduto per prepararci una dimora. Dunque anche per noi c’è un posto nella reggia paterna e che sono profondamente vere e attuali le parole di Tertulliano “Consolatevi, carne e sangue: in Cristo avete preso possesso del cielo e del regno di Dio!” (De car. Chr. 7).
Il Cristo è Colui che nella sua incarnazione ha unito cielo e terra. Lui ha realizzato l’unità degli estremi: la povertà dell'uomo con l'infinito di Dio. Dunque Il cielo non è un luogo lontano, al di sopra e al di là delle stelle più lontane, è qualcosa di molto più ardito e più grande: è il trovar posto dell'uomo in Dio e questo ha il suo fondamento nella compenetrazione di umanità e divinità nell'uomo Gesù crocifisso ed elevato. Cristo, l’uomo che è in Dio, è al tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l'uomo.
Cristo, “l'uomo che è in Dio, è al tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l'uomo. Egli stesso è, quindi, ciò che noi chiamiamo «cielo», poiché il cielo non è uno spazio, ma una persona, la persona di colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti. E noi ci avviciniamo al cielo, anzi, entriamo nel cielo, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù ed entriamo in lui.”  (J. Ratzinger, Predica per l’Ascensione 1975).
Se consideriamo tale avvenimento a partire da questa prospettiva, possiamo capire quello che San Luca scrive alla fine del suo Vangelo, quando narra che dopo l’Ascensione i discepoli tornarono a Gerusalemme “pieni di gioia” (24,52). Se si fosse trattato di un distacco, questi uomini di Cristo non sarebbero potuti essere “pieni di gioia”. Per loro l'ascensione e la resurrezione erano un medesimo evento: essi avevano la certezza che il Crocifisso viveva, che era vinta la morte che separa l’uomo da Dio, e che le porte della vita vera erano state per sempre aperte. Per loro, quindi, l'ascensione non ebbe quel significato errato che noi abitualmente le diamo, cioè quello della temporanea assenza di Cristo dal mondo. Significò piuttosto la nuova, definitiva ed insopprimibile forma della presenza di Gesù, grazie alla Sua partecipazione alla potenza regale di Dio. 
Risurrezione e ritorno di Cristo sono tra loro intrecciati, ed è chiaro che nella risurrezione di Gesù, grazie alla quale ora è per sempre in mezzo ai suoi, è già iniziato il suo ritorno. 
I cristiani, di allora e di oggi, non devono quindi fissarsi sul futuro e preoccuparsi di fare ipotesi circa il momento del ritorno di Cristo. Loro, e noi con loro, dobbiamo tener presente che Lui non ha mai cessato di essere presente. Anzi, per mezzo di loro e nostro, Lui vuole diventare sempre più presente: il dono dello Spirito ed il dovere della predicazione, testimonianza e della missione fino ai confine del mondo sono il modo in cui Cristo è già adesso presente.
 2) Testimoni della gioia
La festa dell'elevazione di Cristo, che oggi commemoriamo, è quindi una grande solennità e la sua nota caratteristica è la gioia. Dio ha spazio per l'uomo: a quest'annuncio ci deve succedere come ai discepoli che dal monte dell’Ascensione tornarono alle loro case “pieni di gioia”.
Nella prima lettura della Liturgia di oggi, San Luca racconta il fatto vero e proprio dell'Ascensione in una sola riga (Atti 1,9): “Fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”. Preferisce soffermarsi sui discepoli, che chiedono al Signore: “È questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. Gesù li rimprovera. Il tempo è nelle mani di Dio. E questa certezza deve bastare: il resto è trascurabile curiosità.
L'importante è un'altra cosa: “Mi sarete testimoni a Gerusalemme... fino agli estremi confini della terra”. Compito dei discepoli è di testimoniare dovunque il loro Signore. Non sono i popoli che arrivano a Gerusalemme, ma sono i discepoli che sono inviati verso i popoli. E non ci sono confini, luoghi vietati, popoli o uomini ai quali il Signore non possa essere testimoniato.
Questa testimonianza va fatta nella gioia, la gioia di Cristo crocifisso e risorto, la gioia della certezza di un Dio vicino, sempre. Per avere questa gioia quindi dobbiamo toccare la Croce e questa ci toccherà, sanando il nostro male, facendoci entrare nella gioia della resurrezione, salendo in cielo con noi nel suo cuore.
L’Ascensione va vissuta da ciascuno di noi come invito ad essere testimoni del Vangelo
della gioia che penetra il cuore e lo conforta,della gioia che non viene mai meno perché nessuno può togliercela (cfr Gv 16,22),della “gioia missionaria, che va custodita da tre sorelle che la circondano, la proteggono, la difendono: sorella povertà, sorella fedeltà e sorella obbedienza”(Papa Francesco),
La gioia, in effetti, è un elemento centrale dell’esperienza cristiana ed ha una grande forza attrattiva, perché in un mondo spesso segnato da tristezza e inquietudini, è una testimonianza importante della bellezza e dell’affidabilità della fede cristiana. 
Le Vergini consacrate nel mondo, che appartengono all’Ordo Virginum [3], sono chiamate a testimoniare la gioia di appartenere solo a Cristo. Incontrandole il 15 maggio 2008, il Papa emerito Benedetto XVI disse loro: “Siate testimoni dell’attesa vigilante e operosa, della gioia, della pace che è propria di chi si abbandona all’amore di Dio. Siate presenti nel mondo e tuttavia pellegrine verso il Regno. La vergine consacrata, infatti, si identifica con quella sposa che, insieme allo Spirito, invoca la venuta del Signore: ‘Lo Spirito e la sposa dicono ‘Vieni’ (Ap 22,17)”.
La beata Madre Teresa di Calcutta ha vissuto così ed fra le belle cose che ha detto sulla gioia ha pronunciato anche queste parole: “Noi aspettiamo con impazienza il paradiso, dove c'è Dio, ma è in nostro potere stare in paradiso fin da quaggiù e fin da questo momento. Essere felici con Dio significa: amare come Lui, aiutare come Lui, dare come Lui, servire come Lui” (La gioia di darsi agli altri, Ed. Paoline, 1987, p. 143).
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NOTE
[1] In effetti “addio” viene da “ad Deum”, verso Dio. Quando ci si saluta così ci si impegna in un cammino, in un esodo che vuole dire in un ritorno alla casa di Dio e nostra. La nostra vita è tutta protesa verso un avvenimento: quello dell'incontro con Dio-Amore.
[2] E’ in questo senso che vanno intese le seguenti parole detta di Gesù nell’ultima Cena : “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14, 2-3).
[3] L’Ordo virginum ha le sue radici nei primi quattro secoli del Cristianesimo: fin dai tempi apostolici alcune donne seguirono l’invito di Gesù ed abbracciarono con gioia la verginità “per il regno dei cieli” (Mt 19,12), come attestano anche gli scritti paolini (1Cor 7,25.34) e gli Atti degli Apostoli (At 21,9).. Le figure delle prime vergini cristiane menzionate nel Canone Romano, Agata a Catania, Lucia a Siracusa, Agnese e Cecilia a Roma, Cristina a Bolsena, sono figure uniche e affascinanti di donne coltivate dallo Spirito. Molteplici fonti storiche attestano che la verginità ben presto divenne una scelta di vita operata da molte: Ignazio di Antiochia, Policarpo, Giustino testimoniano della presenza e del ruolo delle vergini nelle comunità e insieme a Cipriano, Ambrogio ed Agostino le istruiscono e le accompagnano con paterna premura. Con il passare dei secoli, però, la vita monastica divenne la modalità esclusiva per condurre un’esistenza dedicata a Dio e ciò comportò la progressiva scomparsa delle vergini consacrate.
Fu lo spirito del Concilio Vaticano II, caratterizzato dalla ricerca delle sorgenti della Chiesa, a dare frutti nuovi anche nell’ambito della vita consacrata, ripristinando quella che era stata la prima forma consacrazione femminile nella Chiesa, l’Ordo Virginum. Papa Paolo VI promulgò il 31 maggio 1970 il Rito della Consacrazione delle Vergini inserito nel Pontificale Romano, che disponeva potessero essere ammesse a questa consacrazione anche donne che intendevano vivere nel mondo il dono totale di sé a Cristo, al di fuori di ogni appartenenza a strutture di vita religiosa.

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"La fede autentica è quella che non contraddice con le opere le verità credute"


Lettura Patristica
San Gregorio Magno 
Omelia XXIX, 1. 2-4 in Evang. PL 76, 1213-1216. 
 
“I discepoli tardarono a credere nella risurrezione del Signore, e ciò va visto non come segno del loro vacillare ma come sostegno della fede a cui in futuro noi saremmo stati chiamati. A loro, ancora in preda ai dubbi, l'evento della risurrezione fu mostrato con molti argomenti. Ne leggiamo nelle testimonianze scritte, e non ci sentiamo forse confermati nella fede dai loro stessi dubbi? Mi dà minor aiuto Maria, giunta subito alla fede, di Tommaso che dubitò a lungo. Questi con la sua incertezza toccò le cicatrici delle ferite e allontanò dal nostro cuore la ferita dell'incredulità.
> 
> A conferma della risurrezione del Signore va anche notato ciò che scrive Luca: Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme. E poco dopo: Fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. Notate le parole e il loro mistico significato: Mentre si trovava a tavola ... fu elevato in alto. Mangiò, salì, perché attraverso il prendere cibo risultasse evidente la realtà del suo corpo.

Marco ricorda anche che il Signore, prima di salire al cielo, rimproverò i discepoli per la durezza del loro cuore e per l'incredulità. In tutto ciò, cosa occorre mettere in evidenza se non che il Signore rimproverò i discepoli nell'atto di congedarsi con la sua presenza fisica da loro, perché le parole da lui pronunciate nel lasciarli restassero più saldamente impresse nel loro cuore mentre le udivano? Ascoltiamo cosa dice come esortazione dopo il rimprovero per la durezza del loro cuore: Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.
> 
> Quando la Verità invia i discepoli a predicare, come interviene nel mondo se non spargendo seme? Sono disseminati pochi granelli, perché nascano frutti di messi abbondanti dalla nostra fede. Non potrebbe nascere in tutto il mondo una messe così ricca di fedeli, se quei grani scelti dei predicatori non raggiungessero, attraverso la mano del Signore, il terreno delle anime.

Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. Qualcuno forse dirà tra sé: Io ho già creduto e quindi avrò la salvezza. Costui dice bene se accompagna la fede con le opere, perché la fede autentica è quella che non contraddice con le opere le verità credute. Per questo Paolo scrive di alcuni falsi credenti: Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti. E Giovanni: Chi dice: "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti è bugiardo.

A questo punto dobbiamo verificare l'autenticità della nostra fede con l'esame della nostra condotta, perché potremo dire di essere veri credenti se attuiamo con le opere le promesse fatte a parole. Nel giorno del battesimo ci siamo impegnati a rinunciare a tutte le opere e a tutte le pompe dell'Avversario antico. Ognuno di voi si esamini seriamente e se da dopo il battesimo compie ciò a cui si impegnò, si senta felice per la certezza di avere la vera fede.
> 
> E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro alcun danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno.

Forse, fratelli miei, dovete considerarvi senza fede perché non operate questi prodigi? Essi furono necessari ai primordi della Chiesa, perché la fede doveva essere alimentata dai miracoli per poter crescere. Anche noi, del resto, quando piantiamo alberi, dobbiamo annaffiarli finché non li vediamo ben solidi nel terreno, e appena hanno fissato le radici smettiamo di somministrare l'acqua. Per questo Paolo dice: Le lingue non sono un segno per i credenti ma per i non credenti.

Ci sono altre ulteriori considerazioni in ordine a questi segni e prodigi. La santa Chiesa compie ogni giorno in forma spirituale ciò che faceva allora concretamente mediante gli apostoli. Quando infatti i suoi sacerdoti con la grazia dell'esorcismo impongono le mani ai fedeli e impediscono agli spiriti maligni di prendere dimora nelle loro anime, cosa fanno se non scacciare i demoni? E i cristiani che abbandonano le dottrine mondane della vita di un tempo, che celebrano i santi misteri e annunciano con tutte le forze le lodi e la potenza del Creatore, che altro fanno se non esprimersi in lingue nuove? Quando poi con buone esortazioni spengono la malizia nel cuore degli altri, eliminano i serpenti. Quando sentono parole malvagie e suadenti senza farsi trascinare al male, prendono, sì, bevande mortifere, ma non ne subiscono danno.
> 
> Quando i credenti si accorgono che il prossimo vacilla nel compiere il bene, quando lo soccorrono con tutte le forze e l'esempio del proprio comportamento, sostengono la condotta di chi è incerto nelle scelte da compiere, altro non fanno se non imporre le mani sui malati perché ritrovino la salute. Questi prodigi sono ancora più grandi perché di ordine spirituale, e perché attraverso di essi vengono ricondotti alla vita non i corpi ma le anime.
> 
> Fratelli carissimi, voi pure potete compiere questi segni - se lo volete - con l'intervento di Dio. Si tratta di segni esterni e da essi non possono ottenere vita quelli che li compiono perché sono prodigi di natura corporea che mostrano talora la santità senza però esserne causa; invece questi prodigi spirituali compiuti nelle anime producono la realtà della vita, e non è loro compito semplicemente il mostrarla. Di essi possono fruire solo i giusti, mentre ai primi possono accedere anche i malvagi. Per questo la Verità dice di qualcuno: Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.
> 
> Non vogliate perciò, fratelli, fare oggetto del vostro amore quei segni che potrebbero essere attribuiti anche ai reprobi, ma amate i prodigi della carità e del fervore, di cui ora abbiamo parlato, che sono veramente sicuri perché occulti; per essi è stabilita presso il Signore una ricompensa tanto più grande quanto minore è la loro gloria presso gli uomini.”