venerdì 30 maggio 2014

Prima di tutto umiltà




Nel dibattito sul fine vita. 

(Andrea Manto)
È importante che il tema del fine vita, spesso all’ordine del giorno nell’agenda politica e mediatica, venga dibattuto anche nel Cortile dei gentili, e così affrontato nella prospettiva culturale e dei fondamenti del pensiero e sottratto, speriamo almeno in parte, all’incalzante aggressività della comunicazione politica e mediatica e al rischio della strumentalizzazione o della eccessiva semplificazione. Il Cortile dei gentili non è il luogo in cui si mette in discussione il magistero della Chiesa, né tantomeno quello dello scontro tra visioni contrapposte, ma è luogo di ascolto e riflessione in vista della costruzione di un dialogo.
Il primo indispensabile ascolto per avviare un dialogo è quello nei confronti della realtà quotidiana, nella quale si vede una grande solitudine dei malati e delle loro famiglie e la richiesta da parte loro di maggiori informazioni, di un dialogo non impersonale e di cure più umane. D’altra parte si coglie un crescente disagio e una solitudine anche nei professionisti sanitari, spesso lasciati soli ad affrontare questioni così complesse e dolorose come quelle dei confini della vita, in un contesto di carenza di risorse economiche e organizzative e di crisi dell’alleanza terapeutica tra medici e pazienti.
Non si avverte ordinariamente, invece, né una richiesta massiccia, assoluta e prioritaria di autodeterminazione né l’imposizione di cure sproporzionate e inutili contro la volontà dei pazienti.
Perciò, prima di affrontare il tema dell’autodeterminazione o di parlare di eutanasia va fatto ogni sforzo per assicurare a tutti un percorso di fine vita con cure adeguate formando, nello stesso tempo, il personale sanitario alla presa in carico di queste situazioni. In molte zone d’Italia, ad esempio, l’assistenza domiciliare rimane ancora un’utopia, nonostante tutta la letteratura scientifica sottolinei il desiderio dei pazienti in fase terminale di morire a casa propria. Inoltre, è carente il personale sanitario competente ed esperto nella gestione delle complesse situazioni del fine vita e solo a partire da quest’anno si prevede l’attivazione di specifici curricula formativi in cure palliative nelle università.
Piuttosto che rimanere bloccati nella dialettica spesso fuorviante tra autodeterminazione e imposizione, o in quella tra desistenza e accanimento, bisognerebbe investire maggiormente nell’umanizzazione delle cure per supportare e lenire il dolore e la fatica di questo passaggio.
Le parole “umano” e “umile” hanno la stessa radice etimologica, quasi come fossero le due facce di una stessa medaglia. C’è bisogno di umiltà per prendersi cura di coloro che sono al confine tra la morte e la vita senza cadere nella tentazione dell’accanimento o dell’eutanasia.
«Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, quel che forse sembrerà più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire». Questo insegnava Seneca a Lucilio aiutandolo a cogliere la grandezza del mistero della morte umana. Oggi il confronto con la morte e con la sofferenza è sempre più rimosso dalla cultura contemporanea, direi quasi censurato. Tuttavia, solo accettando umilmente di accogliere queste realtà ineludibili dall’esperienza umana, eliminando il tabù e favorendo la ricerca e l’apprendimento di un senso più profondo della nostra esistenza, possiamo umanizzarle.
Il silenzio che precede l’ultimo atto della nostra vita chiede di essere abitato. Ed è attraverso l’umiltà e il coraggio di abitare questo silenzio gravido di senso che si può rovesciare la prospettiva. Poiché dentro quel dolore permane lo spazio di una relazione autenticamente umana, la possibilità di una comunicazione profonda e di un incontro che trasformi la de-solazione in con-solazione.
C’è bisogno di una cultura della vita che spezzi l’isolamento causato da sofferenza e malattia, che valorizzi l’uomo e le sue relazioni come risorsa per arginare il dolore, per viverlo e condividerlo. È nella relazione che più spesso il senso ci attraversa, è uno strumento straordinario con il quale si declinano molti dei significati della nostra esistenza. Dare al dolore senso e significato in una dimensione relazionale costa senz’altro fatica, soprattutto in una società che non crea le condizioni per farlo. Anche per questo la sostenibilità del dolore diminuisce.
La sofferenza fa parte della vita umana ed è più del dolore. Riguarda infatti la consapevolezza della nostra finitudine e della nostra fragilità e ha a che fare anche con la nostra capacità di amare. Il rapporto tra sofferenza e amore è un rapporto ineludibile, che ci restituisce la possibilità di ricomporre la frattura che l’uomo avverte tra finito e infinito. La sofferenza è il luogo nel quale misteriosamente l’uomo si sente chiamato a trascendere se stesso, come scriveva Giovanni Paolo II nella Salvifici doloris. La crisi della grande narrazione illuministica e positivistica, della fiducia nel progresso della ragione e delle scienze come possibilità di salvezza hanno lasciato l’uomo più solo e più incline alla disperazione. La risposta a questa sofferenza però non sta nel nichilismo e nella possibilità di “addomesticare” la morte, con l’illusione di deciderla e quindi di controllarla.
Accanto al malato la speranza ha il volto della cura: «la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una presenza», affermava Cicely Saunders. La qualità della vita non deriva soltanto dall’efficienza della persona, dall’esercizio delle facoltà e dei talenti, ma è qualcosa di intrinseco in ogni vita umana, seppur fragile e bisognosa di tutto. Un malato, anche quando non riesce più a corrispondere, continua a esserci, cioè a esistere in un grembo vivo di relazioni. Nella dinamica relazionale non esiste solo il porsi, ma anche l’essere posto, il trovarsi in un abbraccio benefico di attenzione e di amore. La fragilità e l’impotenza chiedono a coloro che sono intorno, alla società nel suo complesso, una presa in carico fatta di competenza e amore. È questa la vera risposta alla sofferenza comunque si presenti e comunque segni la vita umana ed è la cifra distintiva dell’umanesimo di una cultura e del livello di civiltà di una nazione.
Infine, permettere la soppressione di una vita fragile nell’attuale scenario demografico di invecchiamento della popolazione e di riduzione delle garanzie per i più poveri e i più deboli (la cosiddetta società post-welfaristica), pone una questione concreta di giustizia sociale. La debolezza dei legami di solidarietà e di prossimità intorno alla vita fragile e la cultura dello scarto, denunciata da Papa Francesco, unite al prevedibile abbassamento del livello di reddito per i futuri pensionati e alla riduzione dei servizi socio-sanitari gratuiti per anziani e ammalati cronici, quale futuro ci lascia ipotizzare per le persone anziane più povere e più sole?
L'Osservatore Romano