venerdì 18 luglio 2014

Come rivedere alla radice il sistema economico mondiale.




È possibile. E con suggerimenti concreti anche la Chiesa viene chiamata in causa

Nobel. Lo scorso 12 luglio si è svolto in Vaticano il seminario «The Global Common Good: Towards a more Inclusive Economy» organizzato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Oltre a diversi relatori, vi hanno preso parte personalità internazionali di spicco dibattendo su come costruire «un’economia più inclusiva». Tra gli altri, era presente Muhammad Yunus, economista bengalese ideatore e realizzatore del microcredito moderno, e per questo insignito del Nobel per la pace nel 2006. Yunus ha lasciato a disposizione dei presenti un testo che pubblichiamo quasi integralmente.
(Muhammad Yunus) L’obiettivo della Chiesa cattolica è quello di adoperarsi per raggiungere un adeguato livello di capitale spirituale, sociale e materiale nel mondo. A mio avviso l’attuale sistema economico globale impedisce il raggiungimento di questo obiettivo. Tale sistema è paragonabile a una macchina che si alimenta succhiando continuamente la linfa vitale dell’ampia base dell’umanità per trasportarla in alto verso una ristretta élite. Più in alto ci si trova, maggiore è la quantità di linfa che si è in grado di succhiare. E questo non perché alla guida ci sia gente cattiva, ma perché la macchina è stata costruita così. Il sistema attuale — che trasforma le persone in macchine per fare soldi — non è stato studiato per avere responsabilità morale, o almeno nella pratica non ne dispone. La questione della responsabilità morale è considerata di secondaria importanza.
Le scuole di economia, che hanno fatto loro questo concetto, competono per produrre “guerrieri” che vadano alla conquista di nuovi mercati e capitali. Il mercato azionario, giudice del successo economico, non premia le imprese in base al loro impegno morale o al loro orientamento spirituale: le questioni morali non rientrano nei report aziendali.
Io sto proponendo, e mettendo in pratica, un nuovo tipo di impresa fondato sull’altruismo, mentre oggi è l’impresa guidata dall’egoismo a governare il mondo. È il commercio che persegue il profitto personale, mentre quello da me proposto è un commercio che persegue un profitto sociale. Lo chiamo commercio sociale: è una società senza dividendi nata per risolvere i problemi sociali. L’azionista può riavere il denaro da lui investito, ma niente di più, giacché ogni profitto futuro viene reinvestito nell’impresa per migliorarla e ingrandirla. Questo tipo di impresa si colloca a metà strada tra l’assistenza caritativa e l’impresa per la massimizzazione del profitto. È concepita in un’ottica di assistenza caritativa, sebbene sia portata avanti con i metodi dell’impresa tradizionale.
Esercitata da tempo immemorabile, la carità è un grande principio, ma non è sostenibile. Il denaro adoperato per fare la carità compie un lavoro meraviglioso, esce ma non ritorna. Il denaro dell’impresa sociale, invece, realizza il lavoro e poi torna indietro: il risultato è che questo denaro può essere utilizzato all’infinito, attraverso imprese indipendenti che si auto-sostengono e si autoalimentano.
Alle scuole di economia non viene assegnata nessuna missione sociale. Se invece facciamo nostro il concetto di impresa sociale, anche tali scuole saranno in grado di formare dei “lottatori” impegnati a risolvere i problemi sociali attraverso le imprese sociali. È necessario creare un mercato di azionariato sociale così da attrarre gli investitori a impegnare il loro denaro in imprese socialmente utili senza alcun intento di profitto personale.
Se il capitalismo continuerà a esistere nella sua forma attuale, quanto più progrediremo nello sviluppo tecnologico, nel miglioramento delle infrastrutture, nella diffusione della globalizzazione, nel rendere “efficiente” il sistema, tanto più questo stesso sistema diventerà spietato nel prosciugare la linfa prodotta da una base vastissima di popolazione a favore di una sempre più ristretta cima di privilegiati.
La versione odierna del capitalismo non raggiungerà mai la meta della distribuzione equa del reddito. Un sistema che agisce come una macchina che succhia la linfa vitale della base non può, per la sua specifica conformazione, garantire una distribuzione equa del capitale.
Mentre l’1 per cento della popolazione mondiale possiede metà della ricchezza mondiale, 85 individui posseggono più beni di quanti ne possegga l’insieme delle persone collocate nella metà povera della popolazione mondiale. E mentre la metà benestante della popolazione mondiale possiede quasi tutta la ricchezza del pianeta, la metà povera non dispone di alcuna possibilità di riscatto. Le cose potrebbero andare peggio e non c’è possibilità che vadano meglio.
L’indifferenza verso gli altri esseri umani, denunciata da Papa Francesco, è profondamente radicata nel concetto di economia, poiché essa si basa sulla convinzione che l’individuo sia un essere che persegue il proprio profitto personale. La razionalità economica è definita come la massimizzazione del profitto personale: ciò che si incoraggia è un comportamento che potrebbe essere descritto con un termine ancora più duro di “indifferenza”.
L’uomo capitalista non ha altra virtù che l’egoismo, mentre l’uomo concreto è un insieme composito di molte altre virtù. Egli trae gioia dalle relazioni con gli altri esseri umani. È un uomo premuroso, è un uomo altruista, è un uomo che sa fidarsi degli altri. Gli esempi che possiamo fare sono molti. Guardiamo, ad esempio, alla Grameen Bank in Bangladesh, banca che si basa interamente sulla fiducia. In essa le relazioni con la clientela non vengono stabilite su vincoli giuridici: è una banca, senza avvocati, che presta più di un miliardo e mezzo di dollari all’anno a 8.5 milioni di donne povere sulla sola base della fiducia. Oggi opera in molti altri Paesi, inclusi gli Stati Uniti, sempre nella stessa maniera. Il tasso di restituzione dei prestiti è quasi pari al cento per cento.
Se creiamo un mondo fondato sull’egoismo, le persone si allontanano le une dalle altre. La società umana è un tutto integrato, il suo successo o fallimento dovrebbe essere misurato in una maniera consolidata, non sulla mera base di qualche informazione economica scelta con uno scopo ben preciso.
Il Pil non racconta tutta la storia. Per farlo abbiamo bisogno di qualcos’altro, che potrebbe essere definito come Pil, ma senza tutti i problemi dell’umanità (povertà, disoccupazione, analfabetismo, diseguaglianze, violazioni dei diritti umani, mancanza di tecnologia e di opportunità). La globalizzazione avvicina le persone, ma non in maniera solidale: in teoria dovrebbe essere il processo per costruire la famiglia umana globale, in pratica mette le persone in competizione.
Tecnologie della comunicazione, e non solo, alti livelli di creatività, rapidità di accesso alle informazioni: tutte queste forze combinate tra loro stanno cambiando il mondo in modo sempre più veloce. C’è davvero un grande progresso, ma manca una visione globale in grado di guidare questi cambiamenti, che sono utilizzati solo per fini commerciali. Le innovazioni irrompono dove le imprese vedono potenziale commerciale, ma nessuno sta mettendo dei segnali stradali per guidare il mondo verso la sua meta. Scoperte formidabili si moltiplicano, ma non riescono a diventare una forza in grado di dirigere il mondo verso la sua vera destinazione. Grazie a tecnologia e creatività, oggi ogni meta è raggiungibile, ma sembra che nessuno sia seriamente interessato a una meta. Vaghiamo senza direzione, o, nel peggiore dei casi, nella direzione sbagliata.
Il sistema educativo è decisamente difettoso. Ai giovani non è mai chiesto di impegnarsi a capire quale tipo di mondo vogliano creare. Non c’è nessun corso scolastico che consenta ai giovani di immaginare il loro mondo ideale. Pur non essendo affatto felici del mondo che li circonda, non sanno che lo possono trasformare nel loro mondo ideale.
Abbiamo creato un mondo per i ricchi creando istituzioni finanziarie per i ricchi. Se vogliamo portare i poveri fuori dalla condizione di povertà dobbiamo creare istituzioni finanziarie appositamente per loro. La finanza è potere. Ma per la metà più povera della popolazione mondiale, le banche non esistono: il risultato è che rimangono così senza alcun potere.
Oggi il potere economico è concentrato nelle mani di pochi perché le istituzioni finanziarie sono controllate da loro. Parliamo di riforma della distribuzione delle terre per sconfiggere la povertà, perché la terra rappresenta il potere e l’indipendenza economica nelle società rurali. Ma non parliamo di riforma del credito: non ci chiediamo chi ottiene quanto dal credito bancario, o quale percentuale di popolazione ottiene quale percentuale di credito bancario. Una semplice informazione che ci direbbe la verità su potere e impotenza oggi: la disparità nel credito è la principale causa della disparità nel reddito.
Se fossimo veramente preoccupati della diseguaglianza di reddito e della povertà, dovremmo creare nuove istituzioni finanziarie. La Grameen Bank ha dimostrato che le donne più povere, anche le poverissime, possono fare affari con un’istituzione finanziaria a patto che questa sia disegnata a loro misura. Non si può chiedere loro di fare affari con un’istituzione disegnata a misura dei ricchi.
La disoccupazione significa mantenere sotto naftalina una persona nel pieno delle sue capacità. Perché gli esseri umani dovrebbero essere puniti e rimanere paralizzati? La persona nasce per essere attiva e creativa, perché dovremmo permettere a qualcuno di staccarle la spina, di negarle l’opportunità di utilizzare le sue capacità? Perché miliardi di persone creative rimangono inattive? Perché il mondo disperde la creatività di almeno la metà della sua popolazione?
Il problema è creato dal nostro difettoso schema concettuale secondo cui le persone nascono per lavorare a favore di alcuni privilegiati, chiamati imprenditori. Se loro non ti assumono, tu sei finito. Che lettura fallace della capacità umana! Che insulto all’essere umano!
Il nostro sistema d’istruzione è basato sullo stesso assunto: suppone che gli studenti debbano lavorare sodo, ottenere buoni voti e, così, un buon lavoro. Ai giovani non viene mai detto che ogni persona al mondo è un imprenditore. Ognuno nasce con due scelte: datore di lavoro o richiedente di lavoro.
Alla Grameen Bank aiutiamo la seconda generazione di famiglie nostre clienti a credere che loro non sono richiedenti lavoro, bensì datori di lavoro. Tutti i bambini del mondo dovrebbero crescere in questo modo. Dovrebbero essere stabilite istituzioni e politiche con questa finalità. La ricerca di un lavoro dovrebbe diventare una seconda scelta per ogni giovane. In Bangladesh abbiamo creato l’impresa sociale per offrire piena equità a ogni giovane che vuole creare una propria impresa. Gli forniamo tutto il supporto necessario.
Perché in alcuni Paesi europei metà della popolazione giovanile è disoccupata? Perché parliamo di una generazione perduta? Perché accettiamo tutto questo come se fosse un destino stabilito da Dio? Non insultiamo Dio accettando un simile destino? Affidare le persone disoccupate ai provvedimenti statali di solidarietà è l’unica soluzione? È questo il modo attraverso il quale sosteniamo la dignità umana, assegnando persone giovani e creative all’assistenzialismo statale? Perché non diamo loro l’opportunità di esplorare il loro stesso potere creativo? Come possiamo togliergli qualcosa che Dio ha dato loro? Gli abbiamo mai chiesto se sono in grado di aprire un’impresa per conto loro?
In Bangladesh abbiamo creato fondi per l’impresa sociale proprio per dare questo tipo di supporto. I giovani lo stanno apprezzando molto. Perché non provarlo in Europa? La Chiesa potrebbe facilmente creare dei fondi per l’impresa sociale al fine di risolvere il problema della disoccupazione giovanile in Europa. Se funziona in Europa, potrà cambiare il mondo per sempre. Qualcuno deve prendere l’iniziativa. Non possiamo semplicemente sederci e guardare un’intera generazione di giovani rimanere vittima degli errori della teoria solo perché siamo troppo timidi per mettere in discussione la saggezza dei nostri studiosi.
Dobbiamo ridisegnare la nostra teoria riconoscendo l’illimitata capacità dell’essere umano; dobbiamo smettere di basarci su “mani invisibili” che rimangono invisibili perché non esistono. Dobbiamo immaginare nuovi concetti, nuove istituzioni. È qui che la Chiesa può giocare il ruolo più importante.
Se possiamo dimostrare che nessuno ha bisogno di rimanere disoccupato, arriveremo più facilmente a una società senza povertà e assistenzialismo. La disoccupazione è una creazione artificiale del nostro quadro concettuale viziato. Non è connaturata all’essere umano. Gli esseri umani sono intraprendenti, si danno da fare. Eppure la teoria economica osa metterli in catene! A questa teoria non dovrebbe essere permesso di punire gli essere umani. Siamo noi a dover punire la teoria rottamandola.
Dobbiamo far sì che la parola “disoccupazione” rimanga presto disoccupata. Quando costruiremo un nuovo mondo, la parola “disoccupazione” non avrà alcun significato. Nessuno riuscirà a concepire che una persona possa rimanere in ozio. Si sospetterà, allora, che si tratti di qualche problema di salute, ma certo non di mancanza di opportunità.
Nel nostro quadro concettuale non dovremmo ammettere nulla che disprezzi lo spirito umano. La teoria dovrebbe riflettere la nostra realtà, le persone non dovrebbero essere schiacciate per rientrare negli stretti parametri di una qualsiasi teoria. La teoria deve lasciare spazio sufficiente ad accogliere il fatto che gli esseri umani si sforzano in questo mondo di rendere continuamente possibile l’impossibile. Non la teoria, ma le persone dovrebbero avere l’ultima parola sul proprio destino.
Aiutare le persone in difficoltà è la prima responsabilità dello Stato. L’assistenza statale deve essere applaudita per l’eccellente lavoro che svolge prendendosi cura dei cittadini in condizioni di disagio. Ma una responsabilità statale ancora maggiore sarebbe quella di assicurarsi che le persone emergano il prima possibile dalla loro situazione di difficoltà, mettendo così fine al loro essere dipendenti dallo Stato.
L’essere umano anela all’indipendenza e alla libertà, è in costante ricerca del proprio valore, non della dipendenza da altri. La dipendenza sminuisce l’essere umano. La sua missione in questo mondo è di renderlo un posto migliore per ciascuno. L’assistenzialismo statale ha creato una catena infinita di dipendenza per molte persone in Europa. Ma se oggi abbiamo tecnologia e metodologia per porre fine a tutto questo, ciò che ancora manca è un’iniziativa determinata.
La fiscalità è necessaria per superare le deficienze del meccanismo del mercato nel creare beni comuni. Con l’introduzione dell’impresa sociale, questa affermazione va rivista. Lo Stato non è più l’unico creatore di beni sociali: i cittadini possono creare imprese sociali a questo fine. Attraverso le imprese sociali, i cittadini possono creare un sistema sanitario, un’istruzione e servizi sociali migliori e più efficienti in maniera più creativa e sostenibile di quanto faccia lo Stato. Ogni società avrà allora tre opzioni per fornire beni comuni: attraverso interventi del settore pubblico, imprese sociali o attraverso interventi del settore profit privato. Queste opzioni dovrebbero competere e collaborare per offrire i migliori beni comuni alle persone.
In molti Paesi la gestione del fisco è estremamente corrotta. Spesso anche il lavoro prodotto dal denaro pubblico è di qualità scadente. Personalmente mi sentirei più a mio agio se sapessi che a creare i beni comuni sono i cittadini organizzati in imprese sociali. I cittadini possono portare un maggiore apporto creativo, e la tecnologia per risolvere i problemi delle persone laddove i governi non riescono.
L’essere umano è un essere enormemente creativo e intraprendente. Il quando concettuale di riferimento della teoria capitalista contemporanea è troppo stretto e non è in grado di promuovere la dignità dell’essere umano. Lo riduce a un robot egoista.
Abbiamo bisogno di progettare una teoria avendo in mente il vero essere umano, non una sua versione distorta e miniaturizzata. Un vero essere umano è un essere umano altruista, premuroso, aperto alla condivisione, disposto a fidarsi dell’altro, teso a creare comunità, amichevole. Egli è, allo stesso tempo, anche tutto il contrario di tutte queste virtù.
Quale di queste virtù egli promuova, quale sopprima, dipenderà dal mondo intorno a sé. Dobbiamo dargli l’opportunità di esprimere le virtù giuste. Oggi non gli stiamo dando tale opportunità, anzi. È qui che inizia il problema.
L'Osservatore Romano