venerdì 25 luglio 2014

Emily, la “Gandhi” del Sudafrica



«La donna più nobile e coraggiosa», secondo il Mahatma Gandhi. «Una donna maledetta», nell’opinione del generale inglese Lord Kitchener, l’uomo forte delle guerre angloboere. Queste due definizioni diametralmente opposte rappresentano il paradigma perfetto della vita e dell’opera di Emily Hobhouse: poco più di una nota a piè di pagina nei libri di storia britannica ma tuttora considerata un’eroina nazionale in Sudafrica, dove denunciò l’esistenza dei campi di concentramento di Sua Maestà, nei quali trovarono una morte orrenda decine di migliaia di boeri.

Poiché la storia è spesso fatta anche di punti di vista, poche figure sono riuscite a dividere l’opinione pubblica nell’Inghilterra vittoriana come questa Giovanna d’Arco vissuta all’inizio del XX secolo. Infermiera, pacifista, militante politica, attivista per i diritti umani e, di fatto, missionaria laica nel Sudafrica dilaniato dalle guerre angloboere. Fu proprio lei a scoprire, per prima, le condizioni di vita di donne e bambini rinchiusi su base etnica nei campi d’internamento ai quali alcuni decenni dopo si sarebbero ispirati anche i nazisti del Terzo Reich. Quando nel 1899 scoppiò la seconda guerra contro i coloni sudafricani di origine olandese, Emily Hobhouse non si limitò a organizzare le proteste e a schierarsi apertamente contro il potere imperiale britannico, ma iniziò a raccogliere fondi per aiutare le vittime civili. 

La sua storia viene raccontata nel dettaglio in That Bloody Woman: the Turbulent Life of Emily Hobhouse (Truran Books), un libro costato otto anni di ricerche al giornalista inglese John Hall, e che si propone di restituire il ruolo che la Storia ha finora inspiegabilmente negato a questa donna originaria di un piccolo paese della Cornovaglia.
Non appena sentì parlare dell’esistenza di un campo di concentramento inglese a Port Elisabeth, la Hobhouse decise di partire per il Sudafrica, dove la realtà che le si parò di fronte agli occhi superava ogni più pessimistica previsione. 

Quando iniziò a indagare, scoprì che i campi attivi erano già ben quarantacinque, da Johannesburg a Springfontein, da Norvalspont a Kroonstad, da Potchefstroom a Kimberley, fino ad arrivare a Bloemfontein, dov’erano imprigionate circa duemila persone, per la maggior parte donne e bambini. «Al campo mancano i principali beni di sussistenza», scrisse in un rapporto che recapitò al parlamento di Westminster nel 1901. «All’interno di piccole tende dall’odore nauseabondo, prive di letti e materassi, vivono fino a dodici persone che quasi non possono muoversi, prive di sapone e con un approvvigionamento idrico totalmente insufficiente.

Per potersi scaldare, donne e bambini devono andare a raccogliere gli arbusti nelle colline circostanti». E infatti a causa della fame, delle privazioni e del diffondersi delle peggiori malattie, nei campi morivano già circa cinquanta bambini al giorno, e in diciotto mesi vi furono spazzate via oltre ventiseimila vite umane, circa ventiquattromila delle quali erano giovani di età inferiore ai sedici anni. Emily si batté strenuamente contro il suo governo e contro gran parte della stampa inglese che la derideva, definendola una ribelle, una bugiarda, una nemica del suo popolo. 

Alla fine riuscì a migliorare le condizioni di vita nei campi, facendo inviare carri ferroviari e camion carichi di viveri e beni di prima necessità. Gli appelli che rivolse alle autorità del suo paese caddero nel vuoto, ma riuscirono almeno a smuovere l’opinione pubblica, che spinse per la nomina di una commissione d’inchiesta che alla fine del 1901 visitò i campi di concentramento e fece pressioni per migliorarne le condizioni di vita. Per tutta risposta il governo di Londra si vendicò di «quella donna maledetta», facendola espellere dal Sudafrica. Emily Hobhouse vi avrebbe fatto ritorno soltanto dopo la fine della guerra, per partecipare alla ricostruzione e alla riconciliazione del paese. Portò con sé i macchinari per insegnare alle donne boere l’arte della filatura e della tessitura. 

Nel Transvaal e nello Stato Libero d’Orange avviò oltre venti scuole per dare un futuro ai sopravvissuti. È qui che conobbe Gandhi, col quale strinse una collaborazione che la portò in seguito anche a prendere a cuore la causa dell’indipendenza dell’India. Morì a Londra nel 1926 e la sua morte, passata quasi inosservata in Inghilterra, fu invece un evento in Sudafrica, dove oltre ventimila persone la salutarono come una principessa, nel corso dei funerali di stato più solenni mai concessi a uno straniero.

Questa biografia, arricchita da oltre una cinquantina di fotografie inedite e dalle mappe dei campi di concentramento scoperti e visitati dalla Hobhouse, contribuirà a far riscoprire la vicenda di questa eroina del XX secolo e riuscirà, forse, a regalarle il posto che si merita nella nostra storia recente.
R. Michelucci
Avvenire