venerdì 25 luglio 2014

Oltre la misericordia c’è di più.



Il matrimonio sacramentale, se valido, è indissolubile.

Si intitola «La speranza della famiglia» il libro intervista (Edizioni Ares, 80 pagine, euro 9.50) che raccoglie il dialogo tra il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e Carlos Granados, direttore delle edizioni spagnole Bac. Nel libro il porporato consegna per così dire le sue riflessioni programmatiche in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia che si terrà in Vaticano dal 5 al 19 ottobre prossimi. Del volume, Avvenire pubblica in anteprima alcuni estratti, a partire dalla domanda, e relativa risposta, sulla difficoltà dei giovani a pronunciare la promessa matrimoniale.

Papa Francesco ci ricordava nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium come «l’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità del vincolo tra persone e che snatura i vincoli familiari» (n.67). In questa situazione, come si può intendere il «per sempre» del matrimonio?

Il «per sempre» chiaramente si lega all’«una volta per sempre» del sacrificio di Gesù sulla croce, che ha dato la sua vita per noi. Dare la propria vita è quasi la rappresentazione dell’amore, dal momento che l’amore non è un sentimento vago, bensì una realtà: realizzarsi attraverso la donazione di sé. Il cuore dell’amore è il donarsi di Dio per noi (...).
È impossibile vivere isolati o chiusi in noi stessi! La vita ha senso unicamente quando diviene concreta donazione all’altro: nella vita quotidiana, giorno per giorno. In modo particolare, essa si dà nel mistero del matrimonio che diventa il luogo privilegiato dove si sperimenta la donazione di sé definitiva e senza condizioni, che dà senso alla nostra vita. Tutto ciò, indubbiamente, è tanto bello e incoraggiante, ma presenta anche il limite di non potersi realizzare contando unicamente sulle proprie forze. Senza l’umile ammissione dei propri limiti e senza la sincera offerta del perdono ricevuto da Dio non è possibile sostenere il «per sempre». Ritengo che dietro tante famiglie spezzate o ricomposte a pezzetti, con vari «padri» o «madri» o solo con «madri» o solo con «padri», in definitiva ci sia un difetto di comprensione di ciò che ritenevamo evidente. Secondo il mio parere, l’obiettivo principale del prossimo Sinodo dovrebbe essere il compito di recuperare l’idea sacramentale del matrimonio e della famiglia, per conferire ai giovani disposti a iniziare il cammino coniugale o a quelli che già vi si trovano, il coraggio necessario. In fondo, si tratta di dire loro che non sono soli in questo cammino, che la Chiesa – sempre madre – li accompagna e continuerà ad accompagnarli. Appare evidente che questo sarebbe un compito impossibile da realizzare se l’affidassimo alla semplice pubblicazione di qualche libro o articolo specialistico!

Non possiamo dimenticare la forte testimonianza dei matrimoni che non falliscono. Tutti conosciamo coppie felici e appagate che hanno vissuto intensamente divenendo, per lo più inconsciamente, testimoni privilegiati della verità. Il Santo Padre parla spesso della povertà, incarnata nei poveri del terzo e quarto mondo, relegati nelle cosiddette «periferie esistenziali». Tra loro ci sono i figli che debbono crescere senza i loro genitori, gli «orfani del divorzio». Forse sono i poveri più poveri del mondo: sono i figli abbandonati non solo nei Paesi del terzo mondo, ma anche qui in Europa, nell’America del Nord, nei Paesi più ricchi. Questi «orfani del divorzio», a volte circondati da molti beni, con molto denaro a disposizione, sono i più poveri tra i poveri, perché hanno molti beni materiali, ma sono privi di quello fondamentale: dell’amore oblativo di due genitori che rinunciano a sé stessi per loro (...). Lei ha sottolineato la gran difficoltà di vivere il «per sempre». Indubbiamente, la dottrina circa l’indissolubilità del matrimonio oggi è tra le più incomprensibili nei nostri ambienti secolarizzati (...).

D’altra parte, vorrei sottolineare che recenti indagini svolte tra i nostri giovani hanno confermato il fascino dell’ideale di fedeltà tra un uomo e una donna, fondato sull’ordine della Creazione. Anche se affermano di «credere» nel divorzio, la maggior parte tra loro aspira a una relazione fedele e costante, corrispondente alla sua natura spirituale e morale. Peraltro, non dobbiamo dimenticare che il matrimonio indissolubile possiede un valore antropologico di primaria grandezza: sottrae la persona all’arbitrio e alla tirannia dei sentimenti e degli stati d’animo; li aiuta ad affrontare le difficoltà personali e a superare le esperienze dolorose; soprattutto protegge i figli. Perciò affermano che l’amore è qualche cosa di più di un sentimento o di un istinto. Nella sua essenza, esso è dedizione e impegno. Nell’amore coniugale, due persone si dicono l’un l’altra, in modo cosciente e volontario: sei così importante per me, sei così unico/ a per me, che voglio stare solamente con te e per sempre! (...) 

Il problema dei divorziati risposati è stato riproposto ultimamente all’attenzione dell’opinione pubblica. Si è giunti a mettere in dubbio il criterio stabilito nella Familiaris consortio che nel punto 84 recita così: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla sacra Scrittura, di non ammettere alla Comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio». Partendo da una certa interpretazione della Scrittura, della tradizione patristica e dei testi del magistero, di recente sono state suggerite soluzioni che propongono innovazioni rispetto alla Familiaris consortio. Come dobbiamo comportarci su questo punto? 

(...) Nemmeno un Concilio ecumenico può mutare la dottrina della Chiesa, perché il suo Fondatore, Gesù Cristo, ha affidato la custodia fedele dei suoi insegnamenti e della sua dottrina agli Apostoli e ai suoi successori (...). Pertanto, la dottrina della Chiesa non sarà mai la somma di alcune teorie elaborate da un gruppo di teologi, per geniali che possano essere, bensì la confessione della nostra fede nella Rivelazione, niente più e niente meno che la Parola di Dio affidata al cuore – interiorità e alle labbra – annuncio – della sua Chiesa. Abbiamo sul matrimonio una dottrina elaborata e strutturata, basata sulla parola di Gesù, che occorre offrire nella sua integrità. La troviamo nei Vangeli e in altri luoghi del Nuovo Testamento, soprattutto nelle parole di san Paolo nella prima lettera ai Corinzi e nella lettera ai Romani. Abbiamo a disposizione anche la Tradizione, con molti scritti e molte riflessioni dei Padri della Chiesa, per esempio di sant’Agostino.

A tutto ciò si devono aggiungere gli sviluppi della Scolastica e del magistero dei concili di Firenze e di Trento. Per finire, un ultimo stadio della progressiva esposizione del dogma lo troviamo magnificamente espresso nella Lumen gentium e soprattutto nella Gaudium et spes n. 47-51, che sono la sintesi completa operata dal Concilio Vaticano II di tutta la dottrina della Chiesa sul matrimonio, compresa la domanda sul divorzio. A questo proposito, la Chiesa non può ammettere il divorzio per un matrimonio sacramentale rato e consumato. È dogma della Chiesa. Insisto: l’assoluta indissolubilità di un matrimonio valido non è una mera dottrina, bensì un dogma divino e definito dalla Chiesa. Di fronte alla rottura di fatto di una matrimonio valido, non è ammissibile un altro «matrimonio » civile. In caso contrario, saremmo di fronte a una contraddizione, perché se la precedente unione, il «primo» matrimonio o, meglio, il matrimonio, è realmente un matrimonio, un’altra unione successiva non è «matrimonio».

È solo un gioco di parole parlare di primo e di secondo «matrimonio». Il secondo matrimonio è possibile solamente quando il legittimo coniuge è morto, oppure quando il matrimonio è stato dichiarato invalido, perché in questi casi il vincolo precedente si è dissolto. In caso contrario ci troviamo di fronte a ciò che è definito «impedimento di vincolo».(...) Nel fondo della questione da lei posta e oltre un’apparente disputa teologica, dobbiamo tener presente che ci troviamo di fronte a un problema che obbliga la Chiesa a essere sempre fedele alla dottrina di Gesù, le cui parole al riguardo sono è assolutamente chiare. Ciò non impedisce di parlare del problema della validità di tanti matrimoni nell’attuale contesto secolarizzato. Tutti abbiamo assistito a nozze in cui non si sapeva bene se i contraenti del matrimonio erano realmente intenzionati a «fare ciò che fa la Chiesa» nel rito del matrimonio! In teoria, tutti conoscono criteri o condizioni classiche per poter contrarre matrimonio; in modo speciale che la volontarietà del consenso non sia viziata, che si sia liberi, che esista una sufficiente maturità personale. Indubbiamente ci obbliga a riflettere e come pastori ci preoccupa la situazione accennata in precedenza per cui molti contraenti sono formalmente cristiani, perché hanno ricevuto il battesimo, ma non praticano la fede cristiana; non solamente liturgicamente, bensì esistenzialmente. Benedetto XVI ha fatto insistenti richiami a riflettere sulla grande sfida rappresentata dai battezzati non credenti. Di conseguenza, la Congregazione per la Dottrina della fede ha raccolto la preoccupazione del Papa, mettendo al lavoro un buon numero di teologi e di altri collaboratori per risolvere il problema della relazione tra fede esplicita e implicita.

Che cosa avviene quando un matrimonio è carente perfino della fede implicita? Certamente quando essa manca, sebbene il matrimonio sia stato celebrato libre et recte potrebbe risultare invalido. Ciò induce a ritenere che, oltre ai criteri classici per dichiarare l’invalidità del matrimonio, ci sia da riflettere di più sul caso in cui i coniugi escludano la sacramentalità del matrimonio. Attualmente ci troviamo ancora in una fase di studio, di riflessione serena ma (...), nella nostra Congregazione stiamo dedicando molte energie per dare una risposta corretta al problema posto dalla fede implicita dei contraenti. 

Perciò se il soggetto escludesse la sacramentalità del matrimonio, allo stesso modo di chi, al momento di sposarsi, escludesse per esempio i figli, quel fatto potrebbe rendere nullo il matrimonio che è stato contratto. Forse è questo che si sta studiando…La fede appartiene all’essenza del sacramento. Certo, occorre chiarire la questione giuridica posta dall’invalidità del sacramento a causa di una evidente mancanza di fede (...). Stabilire un criterio valido e universale al riguardo non è davvero una questione futile. In primo luogo perché le persone sono in costante evoluzione sia per le conoscenze che via via acquisiscono col passare degli anni, sia per la loro vita di fede. Il tirocinio e la fede non sono dati statistici! Talvolta, al momento di contrarre il matrimonio una certa persona non era credente; ma è anche possibile che nella sua vita sia intervenuto un processo di conversione, sperimentando così una sanatio ex posteriori di ciò che in quel momento era un grave difetto di consenso. Desidero ripetere in ogni caso che, quando ci troviamo in presenza di un matrimonio valido, in nessun modo è possibile sciogliere quel vincolo: né il Papa né alcun altro vescovo hanno autorità per farlo, perché si tratta di realtà che appartiene a Dio, non a loro (...). 

Evidentemente si pone anche qui la relazione tra il sacramento dell’Eucaristia e il sacramento del matrimonio. Che cosa ci può dire a riguardo? Come si può intendere la relazione tra i due sacramenti?

La Comunione eucaristica è espressione di una relazione personale e comunitaria con Gesù Cristo. A differenza dei nostri fratelli protestanti e in linea con la Tradizione della Chiesa, per i cattolici essa esprime l’unione perfetta tra la cristologia e l’ecclesiologia. Pertanto, non posso avere una relazione personale con Cristo e col suo vero Corpo presente nel Sacramento dell’Altare e, allo stesso tempo, contraddire lo stesso Cristo nel suo Corpo mistico, presente nella Chiesa e nella comunione ecclesiale. Quindi possiamo affermare senza errore che se qualcuno si trova in situazione di peccato mortale, non può e non deve accostarsi alla Comunione. Ciò avviene sempre, non solamente nel caso accennato nella domanda precedente, bensì in tutti i casi in cui ci sia una rottura oggettiva con ciò che Dio vuole per noi. Questo è per definizione il vincolo che si stabilisce tra i vari sacramenti. Perciò bisogna stare ben attenti di fronte a una concezione immanentista del sacramento dell’Eucaristia, ossia a una comprensione fondata su un individualismo estremo. Concretamente, bisogna guardarsi dal credere soggettivamente di essere in comunione con Cristo e di osservare la legge di Dio rimanendo ai margini della comunione ecclesiale, subordinando alle proprie necessità o ai propri gusti la recezione dei sacramenti o la partecipazione alla comunione ecclesiale.

Per alcuni la chiave del problema è il desiderio di comunicarsi sacramentalmente», come se il semplice desiderio fosse un diritto. Per molti altri, la comunione è solamente una maniera di esprimere l’appartenenza a una comunità; è la manifestazione di un sentimento, quello dell’appartenenza a una collettività che a sua volta ne comporta altre come l’identità, lo spirito di corpo o il timore di venirne escluso. Certamente, il sacramento dell’Eucaristia non può essere concepito in modo riduttivo come espressione di un diritto o di una identità comunitaria: l’Eucaristia non può essere un social feeling!. Spesso viene suggerito di lasciare alla coscienza personale dei divorziati risposati la decisione di accostarsi alla Comunione eucaristica. Anche questo argomento esprime un problematico concetto di «coscienza», già respinto dalla Congregazione per la Fede nel 1994. Prima di accostarsi a ricevere la comunione, i fedeli sanno di dover esaminare la loro coscienza, cosa che li obbliga anche a formarla di continuo e quindi a essere degli appassionati ricercatori della verità. In questa dinamica tanto peculiare, l’obbedienza al magistero della Chiesa non è di peso, bensì di aiuto per scoprire la tanto anelata verità sul proprio bene e su quello degli altri.
Avvenire

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“La chiesa non è un sanatorio”. Oltre la misericordia c’è di più. F.to Müller


“San Tommaso d’Aquino ha affermato che la misericordia è precisamente il compimento della giustizia, perché con essa Dio giustifica e rinnova la creazione dell’uomo. Pertanto, non dovrà mai essere una scusa per sospendere o rendere invalidi i comandamenti e i sacramenti. In caso contrario, saremmo in presenza della pesante manipolazione dell’autentica misericordia e perciò, anche di fronte al vano tentativo di giustificare la nostra indifferenza verso Dio e gli uomini”. E’ così che deve essere intesa la misericordia secondo il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della congregazione per la Dottrina della fede. In vista dei prossimi sinodi sulla famiglia, il porporato tedesco ha consegnato le sue riflessioni a una lunga conversazione con Carlos Granados, direttore delle edizioni spagnole Bac, da oggi in libreria in un piccolo volume, “La speranza della famiglia” (Edizioni Ares). Di misericordia s’è abbondantemente parlato dopo la relazione concistoriale del cardinale Walter Kasper, che per i divorziati risposati desiderosi di riaccostarsi all’eucaristia ha invocato misericordia, dal momento che “tramite la penitenza chiunque può ricevere clemenza e ogni peccato può essere assolto”, ogni ferita può essere curata nell’ospedale da campo le cui tende furono piantate nell’intervista di Francesco alla Civiltà Cattolica – “L’immagine dell’ospedale da campo è molto bella”, dice Müller, ma “non possiamo manipolare il Papa riducendo a questa immagine tutta la realtà della chiesa. La chiesa in sé non è un sanatorio: la chiesa è anche la casa del Padre”.

E’ vero, assicura il custode dell’ortodossia cattolica, che “Dio perdona anche un peccato tanto grave come l’adulterio; tuttavia non permette un altro matrimonio che metterebbe in dubbio un matrimonio sacramentale già in essere, matrimonio che esprime la fedeltà di Dio. Fare un simile appello a una presunta misericordia assoluta di Dio, equivale a un gioco di parole che non aiuta a chiarire i termini del problema. In realtà – aggiunge il capo dell’ex Sant’Uffizio in una delle frasi sfuggite alla lunga anticipazione pubblicata da Avvenire – mi sembra che sia un modo per non percepire la profondità dell’autentica misericordia divina”. Visioni diametralmente opposte, dunque, che portano Müller a dirsi sorpreso dell’impiego “da parte di alcuni teologi, dello stesso ragionamento sulla misericordia come pretesto per favorire l’ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati civilmente”. Il principio della misericordia, osserva ancora, “è molto debole quando si trasforma in un unico argomento teologico-sacramentale valido. Tutto l’ordine sacramentale è precisamente opera della misericordia divina, ma non lo si può annullare revocando lo stesso principio che lo regge. Al contrario, un errato riferimento alla misericordia comporta il grave rischio di banalizzare l’immagine di Dio, secondo cui Dio non sarebbe libero, bensì  sarebbe obbligato a perdonare”. E’ vero, sottolinea il prefetto, che Dio non si stanca mai di perdonare e di offrirci la sua misericordia, ma “il problema è che noi ci stanchiamo di chiederla”. E poi, “oltre la misericordia, anche la santità e la giustizia appartengono al mistero di Dio. Se occultassimo questi attributi divini e si banalizzasse la realtà del peccato, non avrebbe alcun senso implorare per le persone la misericordia di Dio”.

Il cardinale Müller tocca poi un altro punto delicato, la grande sfida della relazione tra dottrina e vita, anche in seguito alle richieste di adattamenti dell’insegnamento cattolico in fatto di morale sessuale alla realtà pastorale. “Si tratta di un malinteso, come se la dottrina fosse un sistema teorico riservato ad alcuni specialisti di teologia. No, la dottrina, oltre alla Parola di Dio, ci dà la vita e la più autentica verità della vita. Non possiamo confessare dottrinalmente che ‘Cristo è il Signore’ e poi non compiere la sua volontà”. Si cerca, insomma, di “rendere la dottrina cattolica come una specie di museo delle teorie cristiane: una specie di riserva che interesserebbe solamente qualche specialista” e “il severo cristianesimo si starebbe convertendo in una nuova religione civile, politicamente corretta, ridotta ad alcuni valori tollerati dal resto della società. In tal modo, si otterrebbe l’obiettivo inconfessabile di alcuni: accantonare la Parola di Dio per poter dirigere ideologicamente l’intera società”. Gesù, spiega il porporato, “non si è incarnato per esporre alcune semplici teorie che tranquillizzino la coscienza e in fondo lascino le cose come stanno senza alterare l’ordine costituito”. Non si può, insomma “andare la mattina in chiesa e il pomeriggio in un bordello, come una specie di sintesi schizofrenica tra Dio e il mondo, come se si potesse vivere nella casa di Dio il mattino e nella casa del diavolo la sera”.
M. Matzuzzi (Il Foglio)