venerdì 8 agosto 2014

Dimmi come cammini e ti dirò chi sei...



Senso, ragioni e direzione del pellegrinaggio contemporaneo. Piedi e testa

(Ugo Sartorio) È tempo d’estate e quindi di relax, soprattutto di partenze e spostamenti. Basta entrare in una qualsiasi libreria per imbattersi nel reparto dedicato ai viaggi. Non solo però a quelli esotici e vacanzieri, ma a viaggi fatti a piedi, a cammini e percorsi a volte di qualche difficoltà, a volte molto impegnativi.Non mancano, ad esempio, guide per el Camino — tra le tante, si veda La Via di Santiago di Alfonso Curatolo (Cinisello Balsamo, San Paolo 2014, pagine 128, euro 9,90) — vale a dire l’affascinante percorso, lungo ottocento chilometri, che va da Saint Jean Pied de Port in Francia a Santiago de Compostela, sul quale una moltitudine di “pedoni del sacro” si cimenta in un’impresa che riesce a fondere profonde richieste antropologiche ed esigenti domande spirituali. 
Antropologa che studia da anni il tema del pellegrinaggio a piedi nonché pellegrina sul Cammino (ma la dizione è controversa, perché molti preferiscono autodefinirsi caminantes, cioè camminatori), Elena Zapponi ha registrato, nel vero senso della parola, pellegrini provenienti da varie parti del mondo sul perché del loro viaggio alla volta di Santiago de Compostela. «L’aspetto simbolico dell’impresa — scrive in Pregare con i piedi. In cammino verso “Finis Terrae” (Bulzoni Editore, 2008) — è fondamentale per cogliere le ragioni e i meccanismi che sostengono la scena del pellegrinaggio contemporaneo. Viaggio spirituale ma anche di formazione e autoricerca, il Cammino, grazie al suo significato simbolico, rappresenta un luogo psicologicamente terapeutico, particolarmente attraente nei casi in cui una crisi della presenza, determinata da episodi biografici, richiede un processo di ricostruzione identitaria». 
Se oggi non è più possibile sostenere, insieme a Victor ed Édith Turner, che il pellegrinaggio è «la medicina dei poveri», vista la mescolanza di classi sociali che negli ultimi quindici anni hanno contribuito alla massificazione delle classiche vie di pellegrinaggio, in particolare verso Santiago de Compostela (nel 2010, ultimo anno giubilare, el Camino è stato percorso da 272.135 persone), non va comunque trascurato il potenziale terapeutico di queste esperienze. Tanto che, giungendo alla meta, mentre per molti vi è una profonda soddisfazione per il traguardo raggiunto, altri provano un senso di smarrimento, come racconta, sempre a Elena Zapponi, uno studente di storia a Berlino. «Quando sono arrivato a Santiago ero veramente depresso… Ero veramente sorpreso d’essere arrivato, ma non sapevo cosa fare. Avevo camminato per quattro settimane e ora ero là. Ok, è Santiago, è bello, ma… C’è qualcosa di triste nella mente. Non so, è difficile da spiegare» (Marcher vers Compostelle. Ethnographie d’une pratique pèlerine, L’Harmattan, 2011). 
Uno degli aspetti più trascurati del pellegrinaggio, infatti, è quello del dopo, del ritorno a casa, della presa di contatto con il mondo di prima e i suoi ritmi, la sua assoluta normalità. È di fondamentale importanza, allora, che il viaggio diventi una riserva di carisma per il quotidiano, per cui «essere pellegrini — scrive ancora Zapponi — è come diventare imprenditori di se stessi», decidendo di intraprendere una trasformazione durevole nel tempo. Se la prima regola di un pellegrinaggio è “camminare”, la seconda è “arrivare”, nel senso che non si tratta soltanto di giungere a un punto prefissato, ma di “credere che si è arrivati”, e questo è un passaggio fondamentale, sia che si intraprenda o meno un pellegrinaggio di carattere religioso e confessionale. 
La via del pellegrino, in ogni caso, non è quella dell’escursionista, che passa senza lasciare nulla a chi viene dopo, perché sulla comune strada di chi si fa pellegrino si entra nella corrente invisibile di una folla sterminata che ha desiderato la stessa meta, ci si sente famiglia umana anche quando non si condivide la stessa fede. Proprio per questo, scrive Notker Wolf (Pellegrini verso chi? Pellegrini verso dove?, Dehoniane 2011), «come pellegrini non si è mai soli», e in ogni passo si raccoglie la fiducia di chi è venuto prima, anche di secoli o millenni, in una catena di solidarietà che sostiene e rinvigorisce. 
La prospettiva del pellegrinaggio manifesta, con tutta evidenza, che l’uomo è un animale che cammina, e che il cammino è la grande metafora della vita: veniamo da e andiamo verso, tutti, e camminando confermiamo la nostra identità mentre ne attuiamo una costante metamorfosi. Dall’errante andare di Ulisse, che agogna la sua Itaca, al mito americano della strada celebrato nel romanzo On the road di Jack Kerouac, fino alla metafora spirituale del cammino celebrata dal film Into the wild tratto dall’omonimo romanzo di Jon Krakauer. 
Quando poi, più banalmente, il cammino diventa mettere un passo dopo l’altro per raggiungere una meta, che sia in pianura o in montagna e soprattutto nel rispetto di tempi prefissati, si prospettano dimensioni come la volontà e l’impegno per affrontare la fatica, l’attenzione all’interiorità intesa come necessità di ritrovare il contatto con se stessi, la motivazione dell’andare, che va sempre di nuovo affinata. E qualora il cammino non sia solitario, si aggiunge l’immancabile condivisione di sé, più profonda di quanto si possa credere, con i noti oppure occasionali compagni di viaggio. Non a caso, un proverbio russo dice: «Se non sai se puoi fidarti di un amico, invitalo in montagna». 
L’estate, per molti, è momento propizio per tornare a sperimentare la saggezza dei piedi, dei passi misurati e sicuri, delle gite in compagnia, del viaggiare lento, del farsi pellegrini. Ricordando che — come scrive Duccio Demetrio — «al di là degli anni, il disagio di vivere, o il bene di cui abbiamo goduto, traspaiono da come camminiamo» (Filosofia del camminare, Raffaello Cortina 2005). Dimmi come cammini e ti dirò chi sei, e forse ti dirò qualcosa sulla tua meta, quella meta che ti ha messo in cammino e che forse non conosci ancora.
L'Osservatore Romano