venerdì 29 agosto 2014

Guardini e la depressione



Guardini, la depressione e le lettere della nipote prediletta. Mi può capire solo zio Romano   

«Credimi, Josef, nella nostra famiglia c’è un dolore, è una cosa senza speranza. Si nasconde dentro e poi sopraggiunge un dolore esterno da sé» scrive Romano Guardini all’amico Josef Weiger, anch’egli malato di depressione. 
Il grande teologo e filosofo soffriva di quella condizione che noi oggi siamo abituati a diagnosticare come depressione, mentre lui preferiva chiamarla malinconia, riallacciandosi così alla tradizione classica. Infatti la parola malinconia non evoca immediatamente malattia e medici, trattamenti psichiatrici o sedute di psicanalisi, ma piuttosto uno stato d’animo dal quale possono nascere anche frutti positivi di natura spirituale.
Guardini era ben consapevole di soffrirne, e sapeva che questa condizione aveva radici nella sua famiglia: «Avevo anche portato in me fin da bambino l’eredità della malinconia di mia madre: eredità che in sé non è cattiva; è la zavorra che dà all’imbarcazione il suo pescaggio». E ancora: «Le correnti nascoste della malinconia si levavano tanto alte in me, che credevo di affondare, e il pensiero di dover chiudere con la vita mi occupava totalmente».
Proprio per questo Guardini fu il primo ad accorgersi della sofferenza della nipote Romana, che portava il suo nome e della quale era padrino. Era figlia del fratello Aleardo, morto quando la ragazza era ancora giovinetta, e per aiutarla il teologo le offrì la possibilità di scrivergli, narrandogli la sua vita e le sue difficoltà, cosa che Romana fece con piena fiducia, perché era perfettamente sicura di essere compresa.
Non sono rimaste le lettere di Guardini alla nipote, purtroppo, ma Giuliana Fabris ha pubblicato quelle della giovane nel libro «Caro zio Romano...». Malinconia e spiritualità nelle lettere di Romana Guardini (presentazione di Carlo M. Fedeli, Padova, Il Poligrafo, 2014, pagine 255, euro 24). Le lettere sono conservate amorosamente dal fratello Giuliano nella villa di famiglia a Isola Vicentina, dove il teologo trascorreva le vacanze scrivendo molti dei suoi scritti, e dove Romana ha passato gran parte della sua vita.
Sono lettere di dolore, che però rivelano una sensibilità particolarmente viva, una capacità straordinaria di sentire la natura, di entrare in contatto con gli animali e di descrivere il mondo circostante con parole profonde e poetiche. Ma sono anche confessione piena del dolore psichico che prova, e che le rende così difficile vivere: «Di nuovo quel senso di solitudine, solitudine del proprio destino umano, dell’uomo solo davanti a sé, agli uomini e davanti a Dio, mi tormenta vorrei dire quasi a frustate» scrive, e aggiunge: «È come un’ossessione che mi segue. Pare che non si riesca a sormontarlo. Ho quasi pudore a parlare di tutto ciò, sento che nessuno lo capirebbe. Solo zio Romano».
Anche se soffre, Romana non cessa di comprendere che la sua sofferenza può trovare pace solo nel contatto con Dio, nella preghiera, in questo accompagnata dalla comprensione dello zio, che aveva ben chiaro come la malinconia fosse in fondo una forma intensa di consapevolezza della condizione umana. «La malinconia è l’inquietudine del cuore che avverte la minaccia dell’infinito. Beatitudine e minaccia ad un tempo» scrive nel suo Ritratto della malinconia.
Guardini comprende bene le difficoltà che incontra una giovane donna in un Paese, l’Italia, dove l’emancipazione è molto più difficile che in Germania. E anche, più profondamente — come scrive la curatrice — sa che «c’è soprattutto una difficoltà precipua della donna perché è lei che genera la vita, e per questo è più minacciata dalle forze oscure del male». Giuliana Fabris, filosofa e psicoterapeuta, inquadra molto bene queste lettere nella vita del grande pensatore novecentesco, offrendo un’occasione in più per comprenderne il pensiero. Occasione che ci consente anche di gettare uno sguardo nella vita di una giovane donna sensibilissima e sofferente, ma capace di esprimere se stessa.
L'Osservatore Romano