mercoledì 27 agosto 2014

L'anima "carnale" di Peguy


A cent'anni dalla morte, ecco l'anima "carnale" di Peguy
di Vincenzo Sansonetti

«L'unico personaggio letterario espressivo che è identico al 99,9% a quello che noi sentiamo come cristianesimo è Peguy». Lo scrive don Luigi Giussani nel 2002. Già quattro anni prima, nel 1998, il fondatore di Comunione e Liberazione, a proposito del fatto che Cristo è consistenza della realtà, aveva rilevato che lo scrittore e saggista francese su questo «ha delle pagine bellissime, perché in fondo è il problema dell'Incarnazione: noi non possiamo conoscere e metterci in rapporto col Dio vivo e amare il Dio vivo, se non dentro la carne e le ossa delle cose che Lui crea e ci mette davanti». 
A 100 anni dalla morte, avvenuta il 5 settembre 1914 durante la prima battaglia della Marna (era partito volontario per il fronte) il Meeting di Rimini dedica a Charles Peguy una mostra che "racconta" la vita e le opere di un intellettuale che «costituisce una voce fondamentale per capire il valore della speranza in un momento storico che ne è quasi privo», come sottolinea Pigi Colognesi, uno dei curatori. La mostra, aperta nei padiglioni della Fiera di Rimini fino al 30 agosto, giorno di chiusura del Meeting, è intitolata "Storia di un'anima carnale", perché, precisa Colognesi, riconduce «al sublime incastro dell'eterno nel temporale e del temporale nell'eterno». In un "Diaologo" del 1910, ma pubblicato postumo, Peguy scrive che se Cristo non avesse avuto un corpo «cadrebbe tutto... perché non sarebbe affatto uomo, assolutamente. Non sarebbe uomo. Quindi non sarebbe l'uomo Dio; Gesù».
Il filosofo francese Alain Finkielkraut, uno dei più acuti pensatori del panorama culturale francese ed europeo contemporaneo, sintetizza la posizione di Peguy nella frase «l'avvenimento è l'irriducibilità dell'essere al concetto». In altri termini, «Peguy ci dà il coraggio di resistere all'ideologia». L'intervista a Finkielkraut chiude la mostra, che è accompagnata da un video, diviso in quattro parti, che attualizza efficacemente la vita e il pensiero di Peguy. Le quattro parti si intitolano: sono un rivoluzionario, sono un contadino, sono un cristiano, sono un pellegrino. Battezzato, militante socialista, ma controcorrente, quando approda a un cristianesimo convinto e vissuto Peguy non parla di conversione, ma di approfondimento, di ripresa di un cammino interrotto. La sua biografia è intessuta di polarità contrastanti: la misera giovinezza a Orleans e l'infaticabile maturità a Parigi, la mai rinnegata fede socialista e il rifiuto di ogni schematismo partitico, la fedeltà alla condizione di sposo e di padre senza negare sentimenti che l'hanno messo a dura prova, amicizie prima coltivate e poi abbandonate, il vigore polemista unito a una feconda vena poetica. 
Ciò che tiene unito il tutto è la sviscerata passione per la realtà, per la verità delle cose, contro ogni potere costituito: politico, letterario, giornalistico, sociale. La sua percezione di che cosa sia l'avvenimento cristiano e che cosa significhi vivere Cristo oggi è cosi acuta da far dichiarare al teologo Von Balthasar: «Non si è mai parlato così cristiano». Il Meeting non si limita a una semplice celebrazione del personaggio, ma ce lo rende vicino, attuale. Nel contesto culturale che ci circonda, che considera Peguy scomodo e inutile, al punto di ignorarlo e censurarlo, la mostra riminese compie un'opera meritoria di recupero e di divulgazione quanto mai necessaria. Perché abbiamo bisogno più che mai di maestri.

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Ai ragazzi non chiedete mai com'è andata oggi a scuola
di Giovanni Fighera
Tra i banchi di scuola. Un’avventura sempre nuova(Edizioni Ares – Tempi) è il nuovo libro di Giovanni Fighera. L’autore incontrerà i lettori al Meeting di Rimini oggi, mercoledì 27 agosto e domani 28 agosto alle ore 17.00 presso la Libreria del Meeting (Padiglione A3). Riportiamo in anteprima il IV capitolo del libro.

COSA AVETE IMPARATO DI BELLO OGGI?
Qualche tempo fa sono stato contattato dalla mamma di un mio allievo, preoccupata per l’impassibilità del ragazzo davanti a una grave insufficienza in latino, materia per lui ostica e di scarso valore nella vita di tutti i giorni. Vedo la donna concentrata sul cinismo del figlio verso la materia. Allora, le espongo la mia preoccupazione che non riguarda il voto in sé. Il ragazzo pochi giorni prima, commentando la gita scolastica in una bella città, mi aveva stupito in quanto giudicava l’esperienza inutile. L’etica dell’utile ha ormai coinvolto tutti gli ambienti e tutti gli atteggiamenti creando uno scetticismo di fondo, un’incapacità a vivere bene e pienamente le esperienze. La madre, sola nel grande compito dell’educazione dei figli, non aveva mai pensato e prestato attenzione a questo fatto. Nel contempo, ora si sentiva in colpa e responsabile, perché lei spesso a cena aveva parlato della vita in maniera disillusa.
Quest’episodio è molto significativo. In primis ci dice che spesso noi genitori siamo interessati più all’andamento scolastico dei nostri figli che alla loro vita e al loro vero bene. Riduciamo le nostre domande alla fatidica richiesta: «Come è andata la scuola?». Il ragazzo non può che trincerarsi dietro una risposta monosillabica che chiude ogni comunicazione. Se a mia figlia, che ha otto anni, io chiedo se abbia imparato qualcosa di interessante e di bello, lei è più propensa a parlare. A tavola, a cena, ognuno di noi racconta che cosa gli è capitato di interessante durante la giornata. Mi sembra un modo per aprirsi di fronte all’avventura della vita.
In secondo luogo, costato che il cinismo abita normalmente negli ambienti degli adulti. La giovinezza è un atteggiamento dell’animo, che si protende con stupore e con meraviglia verso la realtà. Mia nonna, anche a novantasei anni, era sempre interessata a quanto accadeva. Può accadere ai giovani di essere più vecchi nello spirito rispetto agli anziani. Quando questo accade, la responsabilità è, però, spesso di genitori, di maestri e di educatori che coprono con la tristezza e la disillusione sulla vita l’entusiasmo e le domande tipiche della gioventù.
In terzo luogo, la cosa più grave che possa accadere all’umanità è la perdita del gusto di vivere. L’etica dell’utilitarismo ha seriamente intaccato la capacità dell’uomo di vivere con intensità la realtà. Il mio io non si muove più con meraviglia nel «gran mare dell’essere», come Dante chiama la realtà, ma usa gli affetti e i rapporti umani per un proprio tornaconto. L’etica dell’utilitarismo è un’altra sfaccettatura dell’ideologia della nostra epoca. Non si conoscono più le cose e le persone, ma le si sfruttano. Non può rimanere, al fondo, che tristezza. All’etica dell’utile «economico» si dovrebbe sostituire quella del conveniente e corrispondente a livello umano. Dovremmo chiederci: che cosa davvero mi corrisponde, che cosa può rendermi felice?
Manzoni nel XXXVIII capitolo dei Promessi sposi ci descrive l’Infermo come un’emblematica immagine della situazione esistenziale dell’uomo: non è mai soddisfatto del proprio letto e sempre alla ricerca del cambiamento. Una volta che il malato ha trovato un altro letto, scopre, però, che questo è ancora più scomodo e che, forse, stava meglio prima. Ecco perché converrebbe, spiega Manzoni, forse pensare a far bene, più che a star bene. Per Manzoni l’amore è la vera «corrispondenza» al cuore dell’uomo. Nel bellissimo film The millionaire un ragazzo di strada riesce a rispondere a tutte le domande del concorso perché ognuna di esse riguardava un aspetto della vita che lui aveva vissuto con intensità.
Affrontare con entusiasmo e con serietà tutta la realtà che abbiamo di fronte è la posizione più umana e più intelligente e ci permette, inoltre, di capire meglio noi stessi. La responsabilità si configura come una risposta a una realtà incontrata, come un movimento del proprio «io» che si mette in azione, esce da sé e va verso l’altro. In questo movimento, l’io scopre la dinamica fondamentale della persona come rapporto strutturale con un altro. Che cosa ottengo dallo studio? Il colore dei campi di grano, per usare una celebre espressione del Piccolo principe. Come per l’amicizia, guadagno e scopro un pezzo di realtà, guadagno e scopro un pezzo di me. Non c’è risposta a una domanda che non si pone. Non basta, però, porre domande, ma occorre porle bene. Senza paura di non trovare subito la risposta.