venerdì 22 agosto 2014

Per un dialogo tra musulmani e cristiani.




 Gli unici interlocutori possibili

(Zouhir Louassini) Tanti anni fa in un incontro organizzato dalla moschea di Madrid sul dialogo tra musulmani e cristiani, vissi un’esperienza che mi fece capire quanto sia difficile avviare un vero dialogo tra le religioni. Al convegno era presente un giovane religioso, imam d’una piccola moschea in una località spagnola, che mi raccontò come fosse stato appoggiato dalle suore cattoliche per costruire il suo luogo di culto e anche come la Chiesa avesse dato una mano alla piccola comunità musulmana nella zona. Una terza persona che era lì con noi, un po’ provocatoriamente, disse con un sorriso: «Ma allora non sono degli infedeli!». 
Il religioso replicò con stizza: «Sono sempre infedeli e la loro unica salvezza è nella conversione all’islam!». E se ne andò verso la sala per partecipare al dibattito programmato sul dialogo religioso.
Con il tempo ho imparato che si dialoga non solo con chi vuole dialogare ma anche con chi, effettivamente, può farlo. Il dialogo tra le religioni non può infatti consistere solo nell’incontrarsi in convegni per parlare del tempo, del cibo; e tanto meno nel limitarsi a esaltare i meriti della propria fede. Il dialogo ha bisogno di sincerità, di stima tra gli interlocutori e, soprattutto, di una vera conoscenza dell’altro.
Nel lontano 1967 lo storico e sociologo Abdallah Laroui pubblicò in Francia uno dei libri più utili per capire la realtà araba e la sua evoluzione: L’idéologie arabe contemporaine: essai critique, con un’introduzione di Maxime Rodinson. In quell’opera individua con perspicacia il denominatore comune che ha giocato un ruolo fondamentale nell’elaborazione e nell’espressione di tutte le ideologie nel mondo arabo: il rapporto con l’occidente. Da un secolo infatti gli arabi non fanno altro che definirsi in relazione al mondo occidentale e ai suoi valori.
Per Laroui questa ricerca di se stessi ha generato tre tipi di ideologie o meglio tre «tipi di arabi». Il primo tipo è il «liberale»: è uomo politico, convinto che l’arretratezza del mondo arabo sia il risultato di tanti secoli di oscurantismo sotto il predominio ottomano. La soluzione, a suo avviso, si trova nella filosofia dei Lumi e nella difesa della democrazia liberale.
Il «tecnofilo» è il secondo tipo: questi crede che né la libertà politica né il parlamento siano il segreto della potenza dell’occidente. Questo risiederebbe invece nella tecnologia e nelle scienze applicate a spiegarne il dominio sul mondo.
Infine c’è il «chierico», l’uomo religioso, che ha mantenuto ben salda l’opposizione tra occidente e oriente nel quadro del rapporto tra cristianesimo e islam; questo terzo tipo di arabo cerca di mostrare che l’islam è stato e rimarrà superiore al cristianesimo.
Tre tipi, dunque. Per i primi due l’occidente può offrire dei modelli da seguire; per il terzo, invece, fuori dal proprio mondo c’è solo una minaccia contro la quale bisogna reagire. Per varie ragioni, difficili da riassumere in un breve articolo, oggi è l’ultimo tipo che predomina culturalmente nel mondo arabo. 
Il terzo tipo riassume una realtà molto complessa. In essa, priva di vere istituzioni religiose che ne orientino le scelte, quelli che hanno un minimo d’influenza sono incapaci di uscire da schemi mentali, ideologici, politici appartenenti ad altre epoche. Nel medesimo tempo, quelli che hanno modernizzato il loro approccio al problema rimangono totalmente isolati.
Questa è la situazione oggi nel mondo arabo. Realtà estremiste come l’Is, un gruppo che non supera le ventimila persone, non sono altro che la punta dell’iceberg. Se si vuole cominciare a sciogliere questo enorme blocco di ghiaccio, sarebbe giusto e opportuno partire dal fatto che i musulmani moderati, benché ammutoliti, sono la stragrande maggioranza. Sono loro gli unici interlocutori possibili per un dialogo basato sulla conoscenza, sul rispetto e sulla stima reciproca.
L'Osservatore Romano

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Anche storie di amicizia tra cristiani e musulmani nell’Iraq segnato dalla persecuzione. La sorpresa di un aiuto

Musulmani che aiutano cristiani, sfidando le rappresaglie dallo Stato islamico, e cristiani che accolgono sciiti, turcomanni o shabak in fuga dalle violenze: accade anche questo nello sconvolgente scenario iracheno segnato da atrocità e persecuzioni. Oltre alla guerra, «nel nord dell’Iraq c’è anche una grande solidarietà interreligiosa», afferma monsignor Yousif Thomas Mirkis, arcivescovo di Kerkūk dei Caldei. Il presule riferisce di episodi concreti di generosità avvenuti sia nella Mosul occupata dai combattenti sunniti dello Stato islamico sia nelle altre città storicamente multietniche e multiconfessionali del nord dell’Iraq.
Ad As-Sulaymaniyah, ha dichiarato il presule all’agenzia Misna, «vivono anche cinquanta persone in una stessa casa perché tante famiglie, musulmane e cristiane, hanno aperto le porte a chi fuggiva dalla violenza». La maggior parte dei profughi ha raggiunto la regione autonoma del Kurdistan, il capoluogo Arbil o i distretti al confine con Siria e Turchia. Ma duecentocinquanta famiglie sono arrivate anche a Kerkūk e cinquecento ad As-Sulaymaniyah, verso la frontiera con l’Iran. «Sono parte — spiega ancora l’arcivescovo caldeo — delle circa 130.000 persone che a inizio mese hanno dovuto lasciare tredici cittadine e villaggi dell’area di Mosul». Nella grande maggioranza sono cristiani, ma ci sono anche esponenti di altre minoranze etniche e religiose. Come i turcomanni, residenti da secoli in centinaia di città e villaggi dell’Iraq. E come gli shabak, considerati “fratelli” degli yazidi. O come gli sciiti, maggioranza nel sud dell’Iraq ma sempre più a rischio di fronte all’avanzata dello Stato islamico. «A Kerkūk — afferma monsignor Mirkis — ne stiamo assistendo circa cinquecento, accogliendoli nelle chiese e procurando tutto quello che serve». Questi profughi sono giunti per lo più dai monti Sinjar e dalla città di Tal Afar.
Sorprendenti storie di solidarietà si registrano anche a Mosul, capoluogo del governatorato di Ninive, la città più importante tra quelle cadute nelle mani dello Stato islamico. «Alcune famiglie musulmane — racconta l’arcivescovo, che di Mosul è originario — acquistano cibo, aiutano e nascondono cristiani; lo fanno in modo clandestino, perché se fossero scoperti rischierebbero la vita».
Un rinnovato appello alla preghiera e alla solidarietà in favore delle minoranze perseguitate in Iraq è stato lanciato nelle ultime ore da Caritas italiana. Le notizie delle violenze nel Nord del Paese si susseguono senza sosta, e la stessa Caritas Iraq, per la prima volta negli ultimi anni — viene riferito in un comunicato — è stata costretta a chiudere tre suoi uffici nelle località di Qaraqosh, Bartilla e Alqosh e a trasferire il suo staff ad Arbil, capoluogo della regione del Kurdistan, e nelle località di Zakho e Duhok, vicine al confine con la Turchia e la Siria, e ad Ainkawa.
In particolare a Zakho si concentra l’assistenza di Caritas Iraq alla minoranza religiosa degli yazidi, molti dei quali sono sopravvissuti dopo essersi rifugiati sul monte Sinjar, in pieno deserto e con temperature altissime. La fuga di molte famiglie è stata così rapida che hanno portato con sé solo quello che avevano addosso; ora, come informa Caritas Iraq, «i loro sguardi sono senza speranza, frustrati dal timore che il mondo non riesca a mettere fine a queste continue tragedie umane, una violenza che vuole trasformare il mondo in una giungla». Caritas Iraq — viene ricordato — ha scelto di concentrare la maggior parte delle sue attività nei villaggi vicini a Duhok (Sarsank, Ineshky, Amadiya) e a Zahko (Fishkhabour, Persephy, Derabon). Si tratta di zone non raggiunte da altre organizzazioni umanitarie, ma ben note alla Caritas, che meglio conosce il territorio. Sono cinquemila le famiglie assistite con viveri, medicinali, rifugi provvisori, ma il loro numero è in costante crescita. «L’impegno finanziario è notevole, supera il milione di euro e — viene sottolineato — il contributo della rete Caritas continua a essere essenziale».
L'Osservatore Romano

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Padre Samir: l'islam non è questo, ma i musulmani non tacciano

L’esasperazione dei conflitti in Siria e in Iraq in nome del Califfato islamico, con episodi di particolare efferatezza pubblicizzati e spettacolarizzati come la decapitazione del giornalista statunitense. Ma anche un crescendo di violenze in Paesi africani come la Nigeria contro chi non si riconosce nella sharia. 


Padre Samir Khalil Samir, ai microfoni di Radio Vaticana.
R. – Oggi, il problema è politico. La guerra in Siria, all’inizio, era una guerra dei siriani che protestavano contro un regime dittatoriale; ma molto presto – già due mesi dopo – sono subentrate persone da tutto il mondo islamico, e in particolare dalla penisola arabica, per fare la guerra perché erano sciiti e alawiti quelli che governavano. Il problema, dunque, è interno all’islam in partenza, perché c’è una cosa che sempre torna, il fatto dogmatico di dire: “Chi non appartiene all’autenticità islamica dev’essere eliminato”, il “kafir”. “Kafir” era una parola che si applicava ai non credenti in Dio, ma è stata allargata; e dichiarare l’altro “kafir” - in arabo si dice “takfir” – è una delle piaghe dell’islam moderno, cioè il fatto di dire che l’altro non è un autentico musulmano e dev’essere eliminato.
D. – Ma come spiegarsi questo accentuarsi dell’esasperazione del fondamentalismo, dell’estremismo di questo pensiero islamico? Diciamo che in qualche modo, venendo meno un processo culturale c’è stata questa rinascita di violenza, di voglia di potere?
R. – Sì! Culturale e politico. La crisi è a tutto tondo: c’è la povertà, c’è l’ignoranza … allo stesso modo in cui c’è una crisi di civiltà in Occidente, che prende però la forma di un neopaganesimo … però è un altro problema.
D. – Oggi, forse, è anche un’epoca che sta conoscendo un momento basso di umanità: avremmo bisogno davvero di un nuovo umanesimo …
R. – Sì: abbiamo adesso raggiunto la bestialità più feroce nella storia dell’islam. Mai siamo arrivati a questo punto di barbarie. La domanda è: questo è l’islam? O è una deviazione? Certamente, prende origine nella tradizione islamica. Ma d’altra parte, certamente non si può dire che l’islam sia questo. Cioè, è una derivazione dell’islam: pensano di realizzare il “califfato”, l’epoca famosa del IX-X secolo fino al XIII, ed è un errore. Molti musulmani lo dicono, lo ripetono; i grandi pensatori sono contrari. Il dramma è che i musulmani non osano fare l’autocritica: cioè, il popolo segue in silenzio. Non ho visto quello che anche il Comitato per il dialogo interreligioso del Vaticano nel suo documento, nella pagina che ha scritto martedì 12 agosto, dice: ci sono cose inammissibili! Citano 11 punti contrari ai diritti umani, e si esprime in termini molto forti! E’ il documento più chiaro che conosca, che non fa uso di espressioni diplomatiche: molto equilibrato, ma forte. E dice: fino a quando voi tacerete? Che gli imam parlino! E non solo gli imam: la folla, il popolo musulmano scende in piazza quando si tratta di una “cosina” politica degli altri, contro gli altri; ma quando si tratta di questioni islamiche, pensa che non sia bene, ma non per questo scendono in piazza.
D. – Quale può essere la via per uscire da tutto questo?
R. – Una collaborazione con il mondo occidentale; aiutarli a fare un passo verso una visione universalistica. Per esempio, quali sono i diritti dell’uomo? Se potessimo applicarla realmente, sarebbe già una meraviglia! Credo che si possa fare, ma si deve procedere – per usare un termine spirituale – ad una conversione sia in Occidente, sia nel mondo islamico. In Occidente, per essere meno materialisti, perché ciò che guida tutto il sistema sono i soldi, il potere, il dominio. Una visione comune, umanistica – ci vorranno decenni per arrivarci …