martedì 2 settembre 2014

Quando la voce maschile canta Dio.


Il canto liturgico nella Tradizione bizantina greca

(Manuel Nin) La musica liturgica in Oriente si è sviluppata soprattutto dal punto di vista vocale: sono cioè le voci dei cantori, in genere maschi, e tante volte quelle di tutto il popolo, che segnano lo svolgersi della liturgia stessa. Testimonianze del canto liturgico, o se si vuole della liturgia cantata, nella tradizione bizantina greca si trovano già nei testi dei Padri dal IV secolo in poi. Basti citare le composizioni innografiche di sant’Efrem il Siro (†373) con delle indicazioni — non notazioni, bensì semplici frasi — di carattere musicale di carattere oggi indecifrabile: sono testi molto lunghi che venivano cantati da tutti oppure da un cantore a cui rispondeva il popolo con un ritornello. 
Questo ruolo centrale della voce nel canto liturgico ha un carattere originale proveniente dalla tradizione antiochena e in collegamento stretto con le tradizioni siriache orientali e occidentali. Fino al IX secolo, soprattutto dopo la crisi iconoclasta, non vi sono notazioni musicali.
Celebrata oggi in tanti Paesi mediterranei, dal Vicino oriente alla Calabria e alla Sicilia, la liturgia bizantina greca ha tradizioni specifiche di ogni luogo, ma anche caratteristiche comuni. Sono composizioni musicali di carattere monodico, cioè cantate senza strumenti musicali da una o più voci, secondo i casi, ma senza la polifonia che si è sviluppata soprattutto nelle liturgie di tradizione bizantina slava.
Non esistono appunto strumenti musicali; è la voce umana l’unico strumento nella lode di Dio e nella proclamazione della Parola. Si può dire insomma che la tradizione bizantina greca sfrutta la voce e il canto come modo di esprimere la preghiera liturgica.
Qual è il ruolo del cantore e soprattutto della voce nella liturgia bizantina greca? In primo luogo, il canto dei testi liturgici è strutturato a partire dall’oktoèchos, cioè dall’insieme di otto toni musicali diversi, collegati con l’insieme dei testi poetici previsti per un ciclo anch’esso di otto settimane. Sono componimenti che risalgono a un’epoca che va dal V al IX secolo, opere di teologia poetica di autori anonimi o di grandi innografi, come Romano il Melodo e Giovanni Damasceno. Questi otto toni musicali vengono applicati ai diversi testi liturgici bizantini lungo l’anno liturgico.
In secondo luogo, la voce singola ha un ruolo fondamentale nella recita e nella preghiera dei Salmi o dei versetti tratti dal Salterio, libro biblico attribuito a Davide, re e profeta, che ha un posto di grande importanza nella tradizione bizantina, soprattutto nella prassi monastica. I singoli salmi vengono recitati da un lettore, con una lettura che spesso non è una semplice declamazione privata, ma con un’intonazione vocale che permette non soltanto di seguire il testo, ma anche e soprattutto di pregare con il salmista.
Quindi, in terzo luogo, in tutte le liturgie cristiane, da oriente a occidente, il Vangelo viene cantato dal diacono, per annunciarlo attraverso la bellezza e la forza del canto. La melodia però non sacrifica mai, anzi in questo modo sottolinea il valore e il senso del testo, la bellezza e la forza della parola di colui che la liturgia, con il libro dei Salmi (44, 7) proclama come «il più bello tra i figli degli uomini». Ancora, in quarto luogo, hanno un ruolo decisivo le voci o i toni melodiosi del vescovo o del sacerdote celebrante durante le preghiere lungo la liturgia e soprattutto nell’anafora, cantata anch’essa a partire dagli otto toni a cui si è già accennato, e quelli del diacono nel canto delle diverse litanie nel corso della celebrazione.
Infine, per ultimo, spiccano le melodie per i testi particolari o propri lungo l’anno liturgico. Si tratta di melodie che spesso sono entrate nell’anima del popolo fedele che le canta e diventa in questo modo davvero concelebrante della liturgia, specialmente durante la liturgia della Settimana santa.
Uno di questi casi particolari è il canto degli Enkòmia nel mattutino del Sabato santo, la cui melodia è diventata un patrimonio entrato nel cuore dei credenti bizantini. Si tratta dell’elogio funebre di Gesù formato da 176 strofe divise in tre gruppi che è stato composto tra il XII e il XIV secolo. Il canto degli Enkòmia viene fatto di fronte alla tomba di Cristo, collocata al centro della chiesa, e le strofe sono cantate alternativamente a due cori, a volte intrecciate con i versetti del lunghissimo salmo 118. 
La musica, il canto forte e davvero vissuto di queste strofe fanno del popolo fedele il vero celebrante, che incarna i diversi personaggi del componimento poetico, assumendo il dolore, il pianto, la gioia.
Il ruolo del canto, della voce melodiosa nella tradizione bizantina, nei monasteri, nelle cattedrali, nelle chiesette di campagna, è fondamentale, sia per la sua bellezza sia, soprattutto, per la forza dell’annunzio della Parola e per la celebrazione della lode al Dio che è Padre, che si è rivelato pienamente nel Figlio e che ci santifica nello Spirito Santo.
L'Osservatore Romano