sabato 20 settembre 2014

L'emancipazione della vita domestica



... In ogni centro d'umanità deve esistere un essere umano che risponde a uno schema più vasto: uno che non da il meglio di sé, ma tutto di sé.
Il paragone con il fuoco, da noi già sfruttato nelle pagine precedenti, resta il più efficace. Il fuoco non divampa come l'elettricità né si agita come l'acqua bollente: il punto è che divampa più dell'acqua e scalda più della luce elettrica. La moglie è come il fuoco, o, per dare alle cose la loro giusta proporzione, il fuoco è simile alla moglie. Come il fuoco, la donna racconta storie ai bambini, non storie originali e artistiche, ma molto probabilmente migliori di quelle che potrebbe raccontare un cuoco di prim'ordine. Come il fuoco, la moglie illumina e arieggia, non con sconvolgenti rivelazioni e pensieri sfrenati, ma meglio di come può fare un uomo dopo aver passato la giornata a spaccare pietre o a fare lezione. Tuttavia, non ci si può aspettare che ella riesca a sopportare questo compito universale, se deve reggere anche, direttamente, la crudeltà della fatica competitiva e burocratica. La donna dev'essere una cuoca, ma non competitiva; dev'essere una maestra di scuola, ma non una maestra competitiva; una decoratrice di case, ma non competitiva; una sarta, ma non una sarta competitiva. Dovrebbe avere non un singolo lavoro ma venti hobby; ella, a differenza del maschio, può coltivare tutte le sue «seconde» occupazioni. Questo è stato, fin dall'inizio, il vero scopo di ciò che si è voluto definire reclusione, o persine oppressione, delle donne. Non le si lasciava a casa per restringere la loro libertà; al contrario, le si lasciava a casa per dare loro spazio. Il mondo fuori di casa era un ammasso di grettezza, un labirinto di sentieri stretti, un manicomio di monomaniaci. Soltanto a patto di essere protetta e limitata (sia pure parzialmente), la donna poteva essere messa in condizione di svolgere cinque o sei professioni, avvicinandosi così a Dio come un bambino quando gioca ai mestieri più disparati. A differenza di quelle del bambino, però, le professioni della madre erano tutte autenticamente e, per così dire, terribilmente feconde; così tragicamente reali che soltanto l'universalità e l'equilibrio materno impedivano che diventassero puramente morbose. Questo è, secondo me, il nocciolo della discussione sulla posizione storica della donna. Non nego che le donne siano state vittime di ingiustizie, o che siano state addirittura torturate, ma dubito che siano mai state tormentate come lo sono adesso dall'assurdo tentativo moderno di farne contemporaneamente regine della casa e funzionane competitive. Non nego che anche quando vigevano le antiche tradizioni per le donne la vita fosse più dura che per gli uomini: ecco perché ci togliamo il cappello davanti a loro. Non nego che i numerosi compiti femminili fossero esasperanti; dico, però, che non erano così numerosi senza una ragione e uno scopo. Non intendo nemmeno negare che la donna fosse una domestica; era però il capo dei domestici.
Per riassumere, si può dire che la donna rappresenta l'idea della salute: è la casa intellettuale dove la mente necessariamente ritorna dopo ogni escursione nel regno della stravaganza. Una mente che riesca a trovare la via per luoghi strani e selvaggi appartiene a un poeta; una mente che non riesca a trovare la via di casa appartiene a un pazzo. In ogni macchina devono esserci una parte che si muove e una parte che sta ferma; in ogni cosa che cambia deve esistere una parte che non può essere cambiata. Molti dei fenomeni che i moderni frettolosamente condannano sono effettivamente parte della posizione della donna nella sua qualità di centro e pilastro della salute. La sua cosiddetta subordinazione e persino la sua arrendevolezza, in realtà, sono sostanzialmente la subordinazione e l'arrendevolezza di una medicina universale; ella cambia come cambiano le medicine, a seconda della malattia. Deve essere ottimista con il marito che non sta bene, deve fare mostra di salutare pessimismo davanti a un uomo troppo spensierato; deve impedire che don Chisciotte subisca prepotenze, ma deve altresì impedire che il bullo sia prepotente con gli altri. Il re di Francia scrisse:
«Sempre la donna cambia,
è davvero sciocco chi si fida di lei.»

In realtà è proprio perché la donna cambia sempre che ci fidiamo di lei. Correggere ogni avventura o stravaganza con l'antidoto del buon senso non significa (come i moderni paiono credere) essere nella posizione di una spia o di una schiava. Vuoi dire, piuttosto, trovarsi nella posizione di Aristotele, o (come minimo) di Herbert Spencer: essere una morale universale, un completo sistema di pensiero. Lo schiavo si vanta; il perfetto moralista rimprovera. In altre parole, la donna è un trimmer nel vero e onorevole senso di questo termine, che per una ragione o per l'altra è sempre usato in un senso diametralmente opposto al suo. Infatti, a quanto pare, si ritiene che trimmer si riferisca a una persona codarda che si schiera sempre dalla parte del più forte. In realtà, indica una persona profondamente cavalleresca, che si schiera costantemente dalla parte dei più deboli, come uno che mantiene in equilibrio (trims) una barca sedendosi dal lato in cui vi sono poche persone. La donna è una bilanciatrice: il suo è un lavoro generoso, pericoloso e romantico.
Ma c'è un fatto, sufficientemente chiaro, che taglia la testa al toro. Se si ammette che l'umanità abbia per lo meno agito in modo non innaturale dividendosi in due metà, che incarnano in particolare le categorie del talento specializzato e della salute generale (le quali, in effetti, sono difficili da combinare in una sola mente), è facile capire perché la linea di demarcazione coincida con il sesso o perché la donna sia diventata il simbolo dell'universale, mentre il maschio è l'emblema di ciò che è speciale e superiore. Due importantissimi fatti naturali hanno voluto così: in primo luogo, la donna che svolgeva frequentemente e letteralmente la propria funzione non poteva distinguersi in avventure e sperimentazioni di cose nuove. In secondo luogo, tale funzione naturale la circondava di figli piccoli, ai quali bisogna insegnare tutto. I neonati non hanno bisogno di imparare un mestiere, ma di essere introdotti nel mondo. Per farla breve: la donna sta solitamente chiusa in casa in compagnia di un essere umano proprio nell'età in cui questi fa tutte le domande possibili e persine alcune impossibili. Sarebbe strano che ella possedesse anche la limitatezza di uno specialista. Comunque, se qualcuno dice che il compito di dare risposte a un bambino (pur liberato dalle regole e dagli orari moderni, e svolto spontaneamente da una persona protetta) è di per sé troppo impegnativo e opprimente, capisco il punto di vista. Posso solo rispondere che la nostra razza ha pensato che valesse la pena di caricare quel fardello sulle spalle delle donne per garantire che nel mondo vi fosse buonsenso. Tuttavia, quando la gente comincia a dire che si tratta di un compito basso e squallido, rinuncio a rispondere, perché non riesco a capire che cosa intenda, nemmeno sforzando al massimo la mia immaginazione. Per esempio, quando la vita domestica è definita un «lavoraccio», la mia difficoltà nasce dall'interpretazione di tale termine. Se con lavoraccio si intende semplicemente un lavoro spaventosamente faticoso, ammetto che la donna, in casa, fatica come un uomo può faticare presso la cattedrale di Amiens o dietro un cannone a Trafalgar. Se però significa che il lavoro, già faticoso, è reso ancor più pesante dal suo essere futile, incolore e di scarso significato per l'anima, allora lascio perdere: non capisco il senso di tali parole. Essere la regina Elisabetta all'interno di un determinato spazio e avere l'ultima parola su spese, banchetti, lavori e vacanze; essere Whiteley entro un determinato spazio e fornire giocattoli, stivali, coperte, dolci e libri; essere Aristotele entro un determinato spazio e insegnare la morale, le buone maniere, la teologia e l'igiene... Posso capire che tutto ciò risulti spossante per la mente, ma non riesco a immaginare come potrebbe renderla più limitata. Com'è possibile che insegnare ai bambini altrui la regola del tre sia un lavoro dalle ampie prospettive e parlare al proprio bambino dell'universo sia un lavoro limitato? Com'è possibile che essere la stessa cosa per tutti sia sinonimo di spazio aperto ed essere tutto per uno sia invece sinonimo di ristrettezza? Ebbene, il compito di una donna è sì faticoso, ma perché è immane, non perché è limitato. Posso compatire la signora Jones per l'enormità, ma mai per la piccolezza, del suo lavoro.
Tuttavia, sebbene il compito della donna attenga all'universalità, esso non le impedisce, naturalmente, di conservare due forti, per quanto salutari, pregiudizi. In linea di principio, rispetto all'uomo, la donna si è dimostrata più cosciente di rappresentare soltanto metà dell'umanità; ma ha espresso (se così si può dire di una signora) tale consapevolezza gettandosi a capofitto su due o tre cose che ritiene di dover difendere. Colgo qui l'occasione di osservare, tra parentesi, che i problemi legati alle donne sono in buona parte nati dal fatto che esse proiettano su faccende in cui c'entrano dubbio e ragione la sacra testardaggine che si adatta soltanto alle cose primarie che la donna era stata chiamata a custodire. I propri figli, il proprio altare, dovrebbero essere una
questione di principio, o, se preferite, di pregiudizio. Invece, per esempio, chi sia l'autore delle Lettere di Junius non dovrebbe essere una questione di principio o di pregiudizio, ma costituire materia per una libera e quasi indifferente ricerca. Ma fate di un'energica giovane la segretaria di un'associazione che vuole dimostrare che la paternità delle lettere di Junius è da attribuirsi a Giorgio III, e nel giro di tre mesi anch'ella ne sarà convinta, per pura lealtà nei confronti dei suoi datori di lavoro. Le donne moderne difendono il loro ufficio con una ferocia tipicamente domestica. Combattono per la scrivania e la macchina da scrivere come per il focolare e la casa, e sviluppano una sorta di selvaggio comportamento da coniuge nei confronti dell'invisibile capo dell'azienda. Ecco perché fanno così bene il lavoro d'ufficio: ecco perché non dovrebbero farlo.


da G. Chesterton, "Ciò che non va nel mondo"

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