mercoledì 26 novembre 2014

Una terrazza per parlare di vita


<b></b>

L'ordine dei frati predicatori - i domenicani - è presente sul Bosforo dal XIII secolo, prima dell’arrivo dei turchi ottomani. La comunità di Istanbul è un osservatorio privilegiato per riflettere sulla prossima visita di papa Francesco nel Paese a cavallo tra Europa e Medio Oriente. Tanto più se a parlare è un esperto di dialogo con l’islam, come padre Claudio Monge, da quasi dodici anni a Istanbul e responsabile del Centro di studi domenicano per il Dialogo interculturale e interreligioso. In un momento di forte instabilità geopolitica, in cui le religioni sono frequentemente poste al centro del dibattito pubblico e di conflitti armati, gli chiediamo di spiegare i molteplici significati che acquista la visita papale, in programma il 28-30 novembre.
Tutti i pontefici che hanno viaggiato nell’ultimo mezzo secolo hanno visitato la Turchia: Paolo VI nel 1967, Giovanni Paolo II nel 1979, Benedetto XVI nel 2006 e, ora, papa Francesco. È un segno di attenzione non scontato...Implicitamente c’è un riconoscimento, almeno da parte dei Papi, del ruolo di crocevia di questo Paese e probabilmente c’è anche una valorizzazione della sua storia cristiana. La Turchia è, in un certo senso, la seconda Terra Santa del cristianesimo e i concili che hanno modellato il credo dei cristiani hanno quasi tutti avuto luogo in queste terre.

Le ripetute visite papali sono, inoltre, legate al rapporto stretto con il Patriarcato greco-ortodosso di Costantinopoli. Senza dubbio questo giustificò la visita di Paolo VI ad Atenagora; e poi i viaggi di Benedetto XVI e ora di Francesco in visita da Bartolomeo. Papa Bergoglio arriva su invito specifico del Patriarca, anche se formalmente, come capo di Stato, il Papa deve essere invitato dal presidente della Turchia. E l’invito di Erdogan è arrivato il 12 settembre.

Dall’abbraccio tra Paolo VI e Atenagora nel 1964 (ricordato 50 anni dopo nel pellegrinaggio di Papa Francesco lo scorso maggio in Terra Santa), nel quale di fatto si andò oltre le reciproche scomuniche, si sono instaurati rapporti sempre più regolari fino ad arrivare recentemente a uno scambio fraterno. Ormai il ritmo con cui Francesco e Bartolomeo si incontrano è impressionante.
Ma la presenza cristiana in Turchia non si limita agli ortodossi.Si tratta di capire in che modo, in una terra così vasta, ma con una presenza minoritaria di cristiani (forse in tutto 200mila su 80 milioni, ndr), questi inviti da parte del Patriarca greco-ortodosso possano consentire al viaggio di diventare sintomatico anche per i cattolici, che sono minoranza, per giunta divisi in quattro riti principali: armeno, caldeo, siriaco e latino. Qualche problema era sorto otto anni fa, durante la visita di Benedetto XVI. A Istanbul fu organizzata una celebrazione eucaristica nella cattedrale cattolica, presieduta dal Papa, celebrazione che pose problemi non indifferenti, poiché la liturgia doveva essere l’espressione di quattro riti diversi. Il compromesso fu una sorta di collage di contributi, dove ciascun rito cercava di ritagliarsi il suo momento di gloria un po’ a scapito dell’insieme dell’espressione liturgica.
Avverrà la stessa cosa? Si conosce il programma nei suoi dettagli?
Qualche particolare sta trapelando, come la durata di tre giorni della visita. Il 28 novembre è previsto l’arrivo ad Ankara per la parte di incontro con le autorità del Paese; il 29, il trasferimento a Istanbul, ancora una volta con una celebrazione eucaristica nella cattedrale cattolica (personalmente avrei auspicato una semplice liturgia della Parola con meditazione del Papa). Ci sarà, quindi, una parte interamente dedicata al Patriarcato greco-ortodosso di Costantinopoli che inizierà con i vespri della festa di sant’Andrea, seguita, il giorno successivo, dalla partecipazione alla divina liturgia dedicata al Santo stesso, patrono della Chiesa d’Oriente e sorta di simbolo del «polmone orientale» della Chiesa universale. Ovviamente altri incontri o visite sono possibili (è quasi sicuro il ritorno al museo di Santa Sofia e alla Moschea Blu), compatibilmente con la durata di questi appuntamenti certi.

Che cosa potrà trasmettere Francesco ai cristiani, pochi e divisi?Mi attendo un richiamo del Papa al mondo cattolico, nei suoi diversi riti, a riannodare con la riflessione lanciata dal Sinodo per il Medio Oriente del 2010, che aveva insistito molto (almeno nel documento preparatorio) sulla «comunione come testimonianza». Siamo ancora lontani da questa realtà, purtroppo, pur essendo un’infima minoranza! La differenza dei riti e delle lingue liturgiche non può giustificare il limitarsi a incontri solo protocollari e formali, cioè raramente caratterizzati da momenti di preghiera davvero comune e dallo scambio della fede. Spero che papa Francesco ci possa scuotere su questo punto!

Rispetto ai cristiani non cattolici, siamo alla vigilia di un tempo delicato e cruciale per il mondo ortodosso, nel quale il Patriarca Bartolomeo sta tentando di condurre le Chiese autocefale al grande Sinodo panortodosso previsto per il 2016. Stiamo molto pregando perché questo sogno possa finalmente concretizzarsi. Mi auguro solamente che questo insistito rapporto personale, fraterno e privilegiato del Patriarca di Costantinopoli con il Vescovo di Roma, non porti pregiudizio a un franco scambio di intenti al cuore di un’Ortodossia che - lo sappiamo, - non intende i suoi rapporti interni in modo altrettanto piramidale.
Qual è il senso di un viaggio di Papa Francesco in Turchia, con quello che sta accadendo in Medio Oriente?
Questo Papa ci ha abituati ad affrontare il dialogo interreligioso nel modo in cui affronta altri grandi temi: pensiamo agli immigrati e ai rifugiati, dopo Lampedusa. Lo fa su un piano prima di tutto antropologico e poi spirituale. Tutti gli ultimi pontefici sono passati dalla Turchia perché questo Paese è la «terrazza panoramica» più importante e nello stesso tempo meno pericolosa da cui volgere un appello al cuore di una regione in ebollizione permanente. È un crocevia essenziale per un appello alla pace, in nome della sacralità della vita. Francesco ha dimostrato di avere una parola forte anche là dove ci sono divisioni politiche aspre: incontrando prima di tutto i sofferenti, i semplici, i poveri delle periferie di questo mondo.

In Turchia il suo messaggio sarà indirizzato ai credenti nel Dio unico e creatore, che è all’origine dell’uomo e della sacralità della vita umana, che continua a essere volgarmente calpestata da una violenza oggi esibita in modo osceno.

Parliamoci chiaro: purtroppo non è la violenza la vera novità. Questa è connaturale all’uomo e intrinseca alla storia dei popoli. Ciò che è nuovo, in questi ultimi mesi, è l’esibizione impudica della violenza. Ma, mentre l’Occidente inorridisce per alcune esecuzioni efferate compiute dagli estremisti davanti alle telecamere, centinaia di migliaia di persone sono morte e continuano a morire in modo non meno efferato, dalla Siria (di cui non si parla più) al Nord dell’Iraq.
La religione viene continuamente strumentalizzata a scopi politici violenti…
C’è qualcosa di blasfemo nella tendenza a mescolare Dio alla violenza nichilista che, in realtà, è una «follia irreligiosa», perché nasce proprio dalla mancanza del tipico rimando religioso al Donatore della vita. Papa Francesco ci ricorda continuamente che il modo con cui noi viviamo la nostra umanità rivela anche l’immagine del nostro Dio, perché l’unica immagine che di sé Dio ha voluto nel mondo è l’uomo. Se la vita non è sacra, il Dio di cui parliamo è un semplice idolo di cartapesta.
Nel contesto turco, in cui il ruolo dell’islam sta evolvendo, questa visita può avere un impatto?
Credo di sì. In fondo, migliaia di musulmani, anche semplici credenti, si stanno chiedendo se questo dio evocato in riferimento agli atti più esecrabili sia proprio il Dio uno, clemente e misericordioso che invocano quotidianamente nelle loro preghiere. La sofferenza inaudita dell’umanità, che interessa anche milioni di musulmani, interpella la fede. Mi spiego con due esempi. Giovanni Paolo II impressionò il mondo islamico più con la sua visita del 2000 in Terra Santa, che in 27 anni di pontificato. Era già molto malato e la visita di quest’uomo sofferente e affaticato colpì profondamente. Un leader religioso mondiale, simbolo di quell’Occidente cristiano spesso considerato come usurpatore, che senza nascondere la sua fragilità depone una preghiera nel Muro delle lamentazioni: non ci poteva essere discorso più parlante al cuore di culture che, tra l’altro, hanno un rispetto particolare per gli anziani.

L’altro esempio è molto più personale. Recentemente ho partecipato a Istanbul a un convegno islamo-cristiano sul tema «Il contributo delle religioni alla pace», in cui mi è stato chiesto di parlare della prospettiva biblica. Mi rivolgevo a circa duecento persone, molte di esse musulmane. Ad un certo punto, in quanto cristiano e teologo, non ho potuto non parlare della teologia della Croce. Senza nascondere il lato scandaloso di tale riferimento, e ben sapendo che per un musulmano questo rimando poteva suonare addirittura blasfemo, ho avuto l’impressione, in realtà, di un’attenzione straordinariamente forte. In un mondo in cui la coerenza di una vita credente espone sempre più spesso a un’esperienza quotidiana della Croce, esplicita o implicita che sia, mi è sembrato di cogliere una consapevolezza nuova e diffusa della necessità di interrogarci in modo radicale sul rapporto tra Dio e la sofferenza umana. Oso pensare che la testimonianza del Cristo crocifisso e risorto, in questi tempi difficili, assuma anche per il musulmano i connotati di una provocazione salutare che interpella, più che suscitare un rifiuto sdegnato.

Il modo di comunicare di papa Francesco può consentirgli di essere accolto in maniera più profonda?Papa Francesco arriva con una «pubblicità» decisamente migliore rispetto a quella di Benedetto XVI che aveva da poco suscitato scalpore con il discorso di Ratisbona, male accolto nel mondo islamico. Ratzinger compì allora un vero capolavoro diplomatico, perché la sua visita fu molto simbolica e lasciò il segno.

La nomea che precede papa Francesco è positiva: incuriosisce molto il mondo islamico per il suo parlare franco, senza remore. In Terra Santa ha usato un linguaggio profetico, non diplomatico. Non ha temuto di mettere in crisi tutte le parti, parlando di commercio delle armi, di muri che dividono, di uso delle religioni in senso identitario e non inclusivo. In Medio Oriente, dove parla soprattutto la violenza, credo che ci sia bisogno di questo tipo di messaggio che arriva al cuore della gente perché associato a una straordinaria empatia. Papa Francesco è stato invitato a visitare un campo di rifugiati vicino al confine meridionale di un Paese che, in questo momento, ospita più di un milione e mezzo di profughi e ne respinge molti altri alla frontiera con la Siria. Sono certo che, se fosse stato possibile, questa visita sarebbe stata in cima ai suoi desideri.
Francesco Pistocchini
© FCSF – Popoli