mercoledì 31 dicembre 2014

Manifesto Queer Vegan ed altre storie...

GENDER: il fondamento ideologico dell’alleanza “Queer - Vegan”

GENDER: il fondamento ideologico dell’alleanza “Queer – Vegan”

(Lupo Glori) Cosa hanno in comune la teoria queer, ossia il pensiero gender portato alle estreme conseguenze, e l’animalismo vegano, fautore di una dura critica allo specismo, inteso come l’ideologia grazie alla quale può «mantenersi e prosperare uno sfruttamento della vita animale sempre più intensivo e specializzato» (p. 9)? L’attivista animalista canadese, Rasmus Rahbek Simonsen, ce lo spiega nel breve saggio Manifesto Queer Vegan (Ortica Editore, Aprilia 2014), a cura di Massimo Filippi e Marco Reggio, auspicando una alleanza ideologica tra i due movimenti in nome della comune battaglia contro le norme e i confini etici posti dal sistema sociale dominante.
Il punto di partenza di tale riflessione sono le elucubrazioni filosofiche e la critica alla società occidentale antropocentrica di Peter Singer e Tom Regan, ispirate, a loro volta, all’utilitarismo del filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832). Da qui deriva l’ideologica distinzione tra animali umani e non umani finalizzata a mettere sullo stesso piano gli uomini e le bestie, negando, in un’ottica evoluzionista, l’esistenza di un primato dell’uomo sugli animali e di alcuna differenza di specie. L’uomo privato dell’anima, della ragione e della libertà viene ridotto ad un essere “senziente” al pari degli animali. Lo “specismo” inteso come teoria volta ad affermare la superiorità della “specie umana” sugli animali, viene, così, considerato dagli animalisti come un pregiudizio equiparabile al “razzismo” o al “sessismo”. Ciò che attribuisce dignità di persona ad un essere vivente non sono la ragione e la volontà, ma la sua capacità di “autocoscienza” e di “desiderio”. Una delirante visione che porta il filosofo australiano Singer ad affermare: «uno scimpanzé, un cane, un maiale, per esempio, avranno un ben più alto grado di autocoscienza ed una maggiore capacità di relazioni significative con gli altri rispetto ad un bambino gravemente ritardato o a qualcuno in stato di avanzata vecchiaia» (Liberazione animale, LAV, Roma 1987, p. 20).
Se il primo “antispecisimo”, al fine di migliorare la condizione animale, si era limitato a ricercare «tratti propriamente umani (…) negli animali, trasformando alcuni di loro in una specie di umanoidi incompiuti e marginali» (Manifesto Queer Vegan, p. 10), successivamente, il cosiddetto “movimento di liberazione animale” ha, infatti, compiuto un deciso balzo in avanti, sganciando la propria analisi critica da ogni tipo di riferimento umano. Da una prospettiva identitaria ed antropocentrica, nella quale il metro di valutazione era appunto l’umano, si è passati ad una prospettiva della indistinzione che ha annullato la suddivisione tra l’Umano el’Animale, ponendoli su di un unico piano indifferenziato. In questo senso, notano i curatori del saggio nella prefazione: «oggi le componenti più avvedute del movimento di liberazione animale non intendono tanto definire nuove tassonomie – “più umane” (…) quanto piuttosto mostrare la bestialità di ogni tassonomia, una volta che si è immersi nella deflagrante (im)potenza del divenire animale» (p. 11).
Secondo Simonsen, oggi, la critica allo “specismo”, che si identifica nel movimento filosofico del “veganismo”, ha perso la sua purezza e radicalità teorica iniziale, trasformandosi, inconsciamente, da pensiero rivoluzionario a nuovo stile di vita, piegato, anche esso, a tendenze e logiche “istituzionalizzate”. Contro tale visione “eretica” dell’antispecismo l’attivista canadese, nel suo “Manifesto”, afferma la necessità di «sovvertire il significato del termine “vegano” per riportarne alla luce il potenziale straniante, deterritorializzante, perturbante – in una parola, queer» (p. 13). In tale ottica, Simonsen propone l’alleanza queer-vegan, due mondi, all’apparenza distinti, ma che condividono, in realtà, le stesse radici teoriche e i medesimi fini ideologici. L’attivista animalista mette infatti in luce le analogie che legano i due movimenti, sottolineando come il movimento femminista-queer abbia seguito un percorso simile a quello intrapreso dall’antispecismo: «dalla rivendicazione di un’identità egualitaria tra i due sessi, all’esaltazione delle molteplici differenze di genere per concludersi nell’indistinzione rizomatica costituita dall’intreccio di sesso, genere e desiderio…(..)» (p. 14).
Nella prefazione al Manifesto i curatori Filippi e Reggio precisano i termini dell’alleanza fra queervegan proposta da Simonsen, specificando come essa non sia un semplice matrimonio di interesse quanto piuttosto, «un rapporto da perseguire fino alla deflagrazione delle architetture su cui l’”Umano” si è eretto. Qui è in gioco né più né meno, il compito di destabilizzare l’idea stessa di categoria, a partire dallo scandalo che si realizza ogniqualvolta una persona si rifiuta di cibarsi di animali o di sottostare alle regole di genere dichiarandosi una forma di vita critica e creativa» (pp. 18-19).
L’originalità e la carica rivoluzionaria di tali prese di posizione critiche nei confronti delle norme e delle prassi stabilite risiede nel rifiuto di costituire nuove identità forti quali il vegano o il queerper dare vita, al contrario, a nuovi soggetti fluidi e complessi, per definizione, in divenire. Il minimo comune denominatore tra il movimento queer e quello vegan è l’orgogliosa rivendicazione della devianza, intesa come comportamento antisociale e antinormativo: «Diventare vegani significa imparare, sempre e dovunque, a sfidare e a negare le norme dell’antropocentrismo. Il veganismo queer afferma la devianza.(…) La devianza è il fulcro manifesto di questo scritto, ciò che assicura l’interconnessione tra queer e vegano» (pp. 34-35). Simonsen chiarisce il concetto di queer, inteso come rifiuto del concetto stesso di identità, richiamandosi al pensiero di un’altra attivista dei diritti degli animali, Carmen Dell’Aversano, secondo cui: «il queer non mira a consolidare o a stabilizzare l’identità, meno di tutte la propria; il suo scopo principale è invece quello di sviluppare una critica dell’identità che non dovrebbe condurre all’egemonia di identità nuove o alternative, ma alla presa di congedo da questa categoria» (p. 37).
L’animalista canadese critica, inoltre, la pretesa di una parte del movimento vegano di apparire “ordinari” rivendicando orgogliosamente la propria anormalità e il proprio rigetto delle norme costituite. Da tali tendenze normalizzanti, secondo l’autore del Manifesto queer-vegan, non sono immuni neanche le organizzazioni animaliste più popolari come la PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) accusate di manipolare il messaggio vegan, promuovendo un modello normalizzato piegato alle logiche sociali. In tal senso, secondo Simonsen, diventare “veri vegani” significa divenire queer in tutta la sua «spregevole differenza» (p. 50), facendo propria la lettura del veganismo del teorico queer inglese Lee Edelman, inteso come una forma di resistenza metaforica e materiale all’ordine sociale dominante.
L’autore tenta, infatti, di far dialogare il pensiero vegano con la visione No Future di Edelaman e di altri teorici queer critici nei confronti della prassi e del linguaggio rivoluzionari ancorati ad un utopico avvenire da realizzare. In questo senso Simonsen, accanto alle forze conservatrici, biasima il progetto rivoluzionario teso a costruire un futuro strutturato sul vecchio schema ideologico eteronormativo. In tale prospettiva, il veganismo queer mette in luce «il fatto che le strutture simboliche e ideologiche che legittimano il consumo di carne rispecchiano quelle dell’eteronormatività» (p. 70); eteronormatività che si propone di stabilire le regole sessuali e alimentari, facendo si che l’omofobia si alimenti di vegefobia, «dal momento che la scelta di mangiare diversamente, soprattutto per i maschi, viene associata all’effeminatezza e alla carenza di virilità» (p. 71). Da tali assunti teorici consegue l’alleanza naturale tra veganismo e teoria queer in una ottica critica alle «spinte sociali normalizzanti» (p. 71).
L’alleanza tra pensiero queer e antispecismo si fonda, dunque, sulla reciproca condivisione della “devianza” intesa come negazione della normalità. In tale prospettiva, l’onnivorismo e l’eterosessualità vengono considerati concetti normali in quanto “naturalizzati” dalla società occidentale attraverso la loro ripetizione incessante nel tempo. Sia i queer che i vegani sono promotori di una cosiddetta “etica negativa” che va ad infrangere schemi di esistenza consolidati. Se l’essere queer contrasta il valore assoluto della riproduzione andando contro il progetto sessuale naturale, il veganismo, secondo Simonsen, «mette in crisi un sistema fondato sulla negazione del valore delle vite non umane». Teorici queer e vegani, accomunati dal loro interesse per la devianza, «incarnano una volontà ostinata di perturbare e intralciare il funzionamento sociale delle norme sessuali, di genere e alimentari» (p. 76). Una visione che nega esplicitamente il concetto stesso di natura umana affermando come «la barriera ontologica ed esistenziale eretta tra l’umano e il non umano è inaccettabile» (p. 82).
In conclusione del suo manifesto Simonsen scopre le carte rivelando le estreme conseguenze delle sue deliranti teorie: «A mio modo di vedere, l’etica vegana dovrebbe immaginare e istituire comunità fondate sulla condivisione di spazi materiali ed affettivi all’interno delle specie e tra di loro» (p. 85); parole che lasciano spazio alle più perverse interpretazioni. Una volta messa da parte ogni criterio valutativo per potere giudicare la realtà in maniera logica e coerente, anche il comportamento più aberrante diviene possibile ed accettabile. La verità non è più un dato oggettivo, conosciuto attraverso l’adesione dell’intelletto al reale, quanto un dato soggettivo, conosciuto attraverso un processo di costruzione progressiva in continuo divenire. In questo caos schizofrenico, fondato su una “rivoluzione permanente”, la società è inevitabilmente destinata ad implodere ed autodissolversi. (Lupo Glori)

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ABORTO: storie di ordinario orrore nel 2014


(Alfredo De Matteo) La triste realtà è che il crimine legalizzato dell’aborto di stato non suscita più alcuna reazione, almeno nell’opinione pubblica, se non nel momento in cui lo pseudo diritto di abortire subisce qualche battuta d’arresto. Succede che l’assenza di medici non obiettori al Policlinico Umberto I di Roma blocchi temporaneamente il servizio delle cosiddette interruzioni di gravidanza, garantito dall’iniqua legge 194, e che pertanto la cronaca dei quotidiani ne parli come di un grave disservizio cui le istituzioni debbono prontamente rimediare; succede altresì che venga rubricato come un grave episodio di malasanità una mancata diagnosi di malformazione di un bimbo giunto alla 22a settimana di gestazione.
In breve i fatti: è l’8 marzo (giorno estremamente significativo …) del 2013 quando la mamma della piccola creatura si reca all’ospedale Fatebenefratelli di Roma per effettuare una ecografia morfologica, come da prassi, e l’esame non evidenzia alcun problema. Passano pochi giorni e la donna si sottopone ad un’ulteriore ecografia, stavolta in un’altra struttura, al solo scopo di poter scattare delle foto al suo bambino; l’esito è però decisamente diverso dal precedente in quanto le viene diagnosticata una grave malformazione ad entrambe le braccia del bambino.
Per evitare di incontrare in Italia troppi ostacoli (sic!) la madre decide di disfarsi del suo bambino recandosi in Francia, dove evidentemente le maglie della legge abortista sono, se possibile, ancora più larghe di quelle nostrane e dove soprattutto il “problema” dei medici obiettori non è così rilevante come lo è, per fortuna, nel nostro paese. Il risultato finale è l’uccisione di una creatura indifesa e l’incredibile paradosso dell’avvio di una pratica legale di richiesta risarcimento danni all’ospedale Fatebenefratelli, la cui colpa non è quella di aver cagionato la morte di un innocente a causa della negligenza dei medici bensì di averla ritardata, con conseguente stress fisico e psicologico causato alla mamma omicida, e di aver corso il rischio di non cagionarla!
La fredda cronaca riportata dai giornali si guarda bene dal descrivere l’orrore di un aborto effettuato alla 22° settimana: un’autentica opera di macelleria umana in cui il bambino, ormai completamente formato, viene letteralmente fatto a pezzi tra indicibili (seppur silenziosi) tormenti. Nemmeno il fatto che la vera o presunta malformazione riscontrata attraverso l’ecografia non era comunque tale da mettere in pericolo di vita né il bambino né tantomeno la madre, e che pertanto l’eliminazione dell’individuo “difettoso” è a tutti gli effetti una pratica di selezione eugenetica che assomiglia molto alla filosofia nazista ed al suo modus operandi, suscita dubbi o perplessità: tutto normale per i cultori della legalità in salsa politically correct, tranne lo scandalo di una donna “costretta” ad emigrare in Francia per eseguire la condanna a morte di un innocente a causa di una diagnosi (forse) errata. Un mondo alla rovescia, dunque, in cui il male è chiamato bene e viceversa.
La quinta edizione della Marcia Nazionale per la Vita, il prossimo 10 maggio, costituisce un’imperdibile occasione per manifestare pubblicamente contro il crimine dell’aborto di stato e per ricordare le innumerevoli vittime di quella che può essere senz’altro definita come una vera e propria guerra dichiarata contro l’innocente. (Alfredo De Matteo)

Primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio. Omelia di Papa Francesco



Basilica San Pietro. Primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio. Omelia di Papa Francesco
Sala stampa della Santa Sede
Cari fratelli e sorelle,
la Parola di Dio ci introduce oggi, in modo speciale, nel significato del tempo, nel capire che il tempo non è una realtà estranea a Dio, semplicemente perché Egli ha voluto rivelarsi e salvarci nella storia. Il significato del tempo, la temporalità, è l'atmosfera dell'epifania di Dio, ossia della manifestazione di Dio e del Suo amore concreto. Infatti, il tempo è il messaggero di Dio, come diceva san Pietro Favre. 
La liturgia di oggi ci ricorda la frase dell'apostolo Giovanni: «Figlioli, è giunta l'ultima ora» (1 Gv 2,18), e quella di San Paolo che ci parla della «pienezza del tempo» (Gal 4,4). Dunque, il giorno di oggi ci manifesta come il tempo che è stato - per così dire - "toccato" da Cristo, il Figlio di Dio e di Maria, e da Lui ha ricevuto significati nuovi e sorprendenti: è diventato il “tempo salvifico”, cioè il tempo definitivo di salvezza e di grazia.
E tutto questo ci induce a pensare alla fine del cammino della vita, alla fine del nostro cammino. Ci fu un inizio e ci sarà un termine, «un tempo per nascere e un tempo per morire» (Qo 3,2). Con questa verità, alquanto semplice e fondamentale e alquanto trascurata e dimenticata, la santa madre Chiesa ci insegna a concludere l'anno e anche le nostre giornate con un esame di coscienza, attraverso il quale ripercorriamo quello che è accaduto; ringraziamo il Signore per ogni bene che abbiamo ricevuto e che abbiamo potuto compiere e, in pari tempo, ripensiamo alle nostre mancanze e ai nostri peccati. Ringraziare e chiedere perdono.
È quello che facciamo anche oggi al termine di un anno. Lodiamo il Signore con l'inno Te Deum e nello stesso tempo Gli chiediamo perdono. L'atteggiamento del ringraziare ci dispone all'umiltà, a riconoscere e accogliere i doni del Signore.
L’apostolo Paolo riassume, nella Lettura di questi Primi Vespri, il motivo fondamentale del nostro rendere grazie a Dio: Egli ci ha fatti suoi figli, ci ha adottati come figli. Questo dono immeritato ci riempie di una gratitudine colma di stupore! Qualcuno potrebbe dire: "Ma non siamo già tutti suoi figli, per il fatto stesso di essere uomini?". Certamente perché Dio è Padre di ogni persona che viene al mondo. Ma senza dimenticare che siamo da Lui allontanati a causa del peccato originale che ci ha separati dal nostro Padre: la nostra relazione filiale è profondamente ferita. Per questo Dio ha mandato suo Figlio a riscattarci a prezzo del Suo sangue. E se c'è un riscatto, è perché c'è una schiavitù. Noi eravamo figli, ma siamo diventati schiavi, seguendo la voce del Maligno. Nessun altro ci riscatta da quella schiavitù sostanziale se non Gesù, che ha assunto la nostra carne dalla Vergine Maria ed è morto sulla croce per liberarci dalla schiavitù del peccato e restituirci la perduta condizione filiale.

La liturgia di oggi ricorda anche che, “nel principio (prima del tempo) c’era il Verbo … e il Verbo si è fatto uomo” e per questo afferma Sant’Ireneo: «Questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio» (Adversus haereses, 3,19,1: PG 7,939; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 460).
Contemporaneamente il dono stesso per cui ringraziamo è anche motivo di esame di coscienza, di revisione della vita personale e comunitaria, del domandarci: com’è il nostro modo di vivere? Viviamo da figli o da schiavi? Viviamo da persone battezzate in Cristo, unte dallo Spirito, riscattate, libere? Oppure viviamo secondo la logica mondana, corrotta, facendo quello che il diavolo ci fa credere sia il nostro interesse? Esiste sempre nel nostro cammino esistenziale una tendenza a resistere alla liberazione; abbiamo paura della libertà e, paradossalmente, preferiamo più o meno inconsapevolmente la schiavitù. La libertà ci spaventa perché ci pone davanti al tempo e di fronte alla nostra responsabilità di viverlo bene. La schiavitù riduce il tempo a "momento" e così ci sentiamo più sicuri, cioè ci fa vivere momenti slegati dal loro passato e dal nostro futuro. In altre parole, la schiavitù ci impedisce di vivere pienamente e realmente il presente, perché lo svuota del passato e lo chiude di fronte al futuro, all’eternità. La schiavitù ci fa credere che non possiamo sognare, volare, sperare.
Diceva qualche giorno fa un grande artista italiano che per il Signore fu più facile togliere gli israeliti dall'Egitto che l'Egitto dal cuore degli israeliti. Erano stati, “sì”, liberati “materialmente” dalla schiavitù, ma durante la marcia nel deserto con le varie difficoltà e con la fame cominciarono allora a provare nostalgia per l'Egitto quando "mangiavano...cipolle e aglio" (cfr Nm 11,5); si dimenticavano però che ne mangiavano al tavolo della schiavitù. Nel nostro cuore si annida la nostalgia della schiavitù, perché apparentemente più rassicurante, più della libertà, che è molto più rischiosa. Come ci piace essere ingabbiati da tanti fuochi d'artificio, apparentemente belli ma che in realtà durano solo pochi istanti! Questo è il regno del momento! 
Da questo esame di coscienza dipende anche, per noi cristiani, la qualità del nostro operare, del nostro vivere, della nostra presenza nella città, del nostro servizio al bene comune, della nostra partecipazione alle istituzioni pubbliche ed ecclesiali.
Per tale motivo, ed essendo anche Vescovo di Roma, vorrei soffermarmi sul nostro vivere a Roma che rappresenta un grande dono, perché significa abitare nella città eterna, significa per un cristiano soprattutto far parte della Chiesa fondata sulla testimonianza e sul martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. E pertanto anche di questo ringraziamo il Signore. Ma al tempo stesso rappresenta una grande responsabilità. E Gesù ha detto: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto» (Lc 12, 48). Dunque domandiamoci: in questa città, in questa Comunità ecclesiale, siamo liberi o siamo schiavi, siamo sale e luce? Siamo lievito? Oppure siamo spenti, insipidi, ostili, sfiduciati, irrilevanti stanchi? 
Senz’altro le gravi vicende di corruzione, emerse di recente, richiedono una seria e consapevole conversione dei cuori per una rinascita spirituale e morale, come pure per un rinnovato impegno per costruire una città più giusta e solidale, dove i poveri, i deboli e gli emarginati siano al centro delle nostre preoccupazioni e del nostro agire quotidiano. È necessario un grande e quotidiano atteggiamento di libertà cristiana per avere il coraggio di proclamare, nella nostra Città, che occorre difendere i poveri, e non difendersi dai poveri, che occorre servire i deboli e non servirsi dei deboli!
L'insegnamento di un semplice diacono romano ci può aiutare. Quando chiesero a San Lorenzo di portare e mostrare i tesori della Chiesa, portò semplicemente alcuni poveri. Quando in una città i poveri e i deboli sono curati, soccorsi e aiutati a promuoversi nella società, essi si rivelano il tesoro della Chiesa e un tesoro nella società. Invece, quando una società ignora i poveri, li perseguita, li criminalizza, li costringe a “mafiarsi”, quella società si impoverisce fino alla miseria, perde la libertà e preferisce "l'aglio e le cipolle" della schiavitù, della schiavitù del suo egoismo, della schiavitù della sua pusillanimità e quella società cessa di essere cristiana.
Cari fratelli e sorelle, concludere l'anno è tornare ad affermare che esiste un'“ultima ora” e che esiste la “pienezza del tempo”. Nel concludere questo anno, nel ringraziare e nel chiedere perdono, ci farà bene domandare la grazia di poter camminare in libertà per poter così riparare i tanti danni fatti e poter difenderci dalla nostalgia della schiavitù, di non “nostalgiare” la schiavitù. 
La Vergine Santa, che è proprio al cuore del tempio di Dio, quando il Verbo – che era nel principio – si è fatto uno di noi nel tempo; Ella che ha dato al mondo il Salvatore, ci aiuti ad accoglierLo con cuore aperto, per essere e vivere veramente liberi come figli di Dio.

Il Centro di tutti i mondi



Proponiamo ai nostri lettori una meditazione sul mistero del Natale tratta da “Betlemme” (SEI, Torino 1950) una delle più note opere dell’autore spirituale inglese Frederick William Faber (1814-1863).
            Il Centro di tutti i mondi
La santa Grotta illumina vaste regioni nella mente di Dio e ce le rivela con un misto di simboli e di realtà, che ci offre. Cosa ci rivela infatti la rossastra lanterna, che il vento fa oscillare tra le mani di S. Giuseppe? Il centro della santa Grotta è ancora ascoso al nostro sguardo.
Attorno al Verbo incarnato, ma non ancora comparso alla luce, si concentrano tutte le altre cose. Egli è il centro di tutti i mondi nella maggior parte invisibili. Le stesse sue creature, perfino la sua divina Mamma, in quell’istante costituiscono attorno a Lui un ostacolo, che impedisce di vederlo. Tuttavia, di tanto in tanto, Egli si manifesta come farà ora a mezzanotte, per restar questa volta visibile, benchè oscuramente, per trentatré anni. Ma anche quando il Verbo resta nascosto Egli è tuttavia l’attrattiva, l’unità, la vita, il significato, la riuscita e il sublime riposo di tutti i mondi, di cui è il centro.
D’intorno a Lui, come chiostro del santuario nel quale abita, vi sono la bellezza e la forza della santità creata, che preservano la sua ineffabile purezza dal contatto e dalla vicinanza delle comuni creature. Maria è in preghiera in mezzo alla santa Grotta.
A prima vista, non v’è nulla d’imponente e di persuasivo nella sua spirituale bellezza. Molte donne betlemite L’avevano vista passare presso le loro soglie, al pomeriggio, senz’avere notato su di Lei alcuna caratteristica, che potesse eccitare la loro ammirazione o ridestare almeno il loro interessamento. Forse esse avevano conosciuto, da qualche caratteristica del suo atteggiamento o dal linguaggio di S. Giuseppe, ch’Ella era di Nazareth. Forse l’avevano giudicata troppo giovane per uno sposo così attempato e guardata con momentanea benevolenza per la sua condizione di prossima maternità. Ma, prescindendo da queste impressioni, non venne loro in mente di pensare alla sua ineffabile dignità; che non si accorsero di una luce, di un’estasi quasi abituale, che brillava nel suo sguardo. Non si effondeva da Lei alcun profumo, che le avvolgesse di una celeste atmosfera. Nulla c’era in quelle donne, su cui potessero agire le attrattive dell’imponente santità di Maria.
Così avviene sempre delle cose di Dio, le quali non manifestano clamorosamente i loro diritti. Anzi, la loro eloquenza consiste nel silenzio e la bellezza nella loro misteriosa discrezione. Le cose di Dio non brillano dinanzi agli occhi per convincere forzatamente; esse toccano il cuore, lo stemperano, lo dilatano, lo trasformano e quando l’hanno reso, in certa misura, simile a se stesse, entrano in esso e ne prendono possesso. Esse esigono studio e questa è una loro caratteristica. La santità è la scienza, il cui studio dev’essere diretto e accompagnato dalle sue regole, dalla luce delle sue scoperte e dalla delicatezza dei suoi processi. Quanto più una cosa è vicina a Dio, tanto maggiormente la luce che la pervade è radiosa e per conseguenza tanto più dev’essere studiata con paziente assiduità. Ne consegue che non v’è nulla, che richieda tanto studio come la sacra Umanità di Gesù e, dopo di lui, come l’eletta Madre della sua Umanità. A Gesù e a Maria si avvicina di molto la tranquilla magnificenza e grandezza della santità di S.Giuseppe.
Ecco dunque ciò che occupa il centro della santa Grotta. La Santità increata e quella creata in una sola Persona e in due nature, il Verbo incarnato; il Creatore bambino è là, ma ancora invisibile; tale è l’oggetto della nostra ammirazione, del nostro amore, della nostra riconoscenza e della nostra più assoluta adorazione. Attorno a Lui e quasi compresi nella sua luce e bellezza, vi sono due mondi di santità creata, ambedue vasti, gloriosi e impareggiabili. In uno di quei mondi Gesù stesso abitò per nove mesi e si degnò di prendere dai relativi materiali gli elementi per formare il proprio corpo e sangue creato. Egli collocò al suo fianco l’altro di quei due mondi, appena al di fuori dell’attuale mistero dell’Incarnazione, come un avamposto per propria difesa, come un satellite destinato al servizio di Se stesso e di sua Madre, come un’ombra sotto la cui protezione e salvaguardia il mistero potesse operarsi nel modo più conveniente alle divine perfezioni, come l’ombra dell’eterno Padre, che lo seguiva dall’alto dei cieli.
            La gerarchia dell’incarnazione
Questi tre mondi formano un sistema, che si può chiamare la gerarchia dell’Incarnazione nel senso più stretto di questa parola; oppure il nucleo di questa gerarchia, se si vuoi parlar meno strettamente benchè con perfetta esattezza. In questo ultimo caso, gli Apostoli, S. Giovanni Battista, gli Evangelisti e altri ancora entrano nel sistema e vi partecipano. I teologi sono abbastanza arditi nel chiamare questi tre mondi di santità con il nome di trinità terrestre; ma l’uso dei Santi e dei pii scrittori ha ormai consacrato questo linguaggio riverentemente arrischiato. Così la Grotta di Betlemme è un’imponente immagine della triplice Maestà del Cielo. Ivi le ombre divine risultano più chiaramente definite e stampate. Là sono riunite e concentrate tutte le somiglianze tra il Creatore e la creatura. Cosi la Grotta di Betlemme è il sacro coro della creazione, essendovi presente il Creatore in una natura creata.
Visione beatifica terrestre
Essa ci rappresenta una specie di visione beatifica terrestre, nella quale l’unità, le distinzioni, le relazioni e le processioni dell’Altissimo sono così meravigliosamente riprodotte, da pervadere di rapimento e di trepido amore l’anima degli spettatori. Che sono mai, in confronto, i misteri dell’armonia e della poesia, le meraviglie del firmamento, l’interessante scienza delle creazioni trascorse ed esumate dalle profonde caverne, che nascondono pietre mute e secolari; che cosa è l’interessante studio della materia così mutevole e varia dal ridursi con indefinite e sempre nuove analisi nei suoi ultimi elementi, dopo i quali il genio scopritore del chimico deluso sospetta ulteriori decomposizioni e più reconditi rifugi attualmente irraggiungibili?
Che è mai, al paragone, il gioioso stupore dell’entusiasta fisiologo il quale, con il microscopio alla mano, segue pazientemente e in silenzio il principio della vita attraverso il labirinto delle sue numerose cellule; che sono tutte queste gioie intellettuali se paragonate al godimento, che ci procura la scienza madre fiorita nel Cielo e cioè la teologia, la quale c’introduce così nell’interiore santuario della creazione e ci mostra in un fulgore di luce radiosa la trinità terrestre nella Grotta di Betlemme?

Stark e la vittoria dell’Occidente



di Andrea Galli (Avvenire)
«Quarant’anni fa, nei migliori college e nelle migliori università americane, il primo e più popolare corso del primo anno era Western Civilization, civiltà occidentale», ricorda il sociologo delle religioni  Rodney Stark. Questo «non copriva soltanto le linee generali della storia dell’Occidente, ma comprendeva excursus di arte, musica, letteratura, filosofia e scienza». Da tempo però tale corso è sparito dalla maggior parte delle brochure dei college. Il motivo, detto più o meno esplicitamente, è che la civiltà occidentale non sarebbe che una fra molte e privilegiarla in modo così marcato sarebbe una sorta di etnocentrismo, una forma di orgoglio culturale.
Contro questa tendenza che ha segnato il panorama accademico non solo negli Usa (la saga del politicamente corretto fotografata in modo impietoso dal critico australiano Robert Hughes nel suo La cultura del piagnisteo, divenuto celebre a metà anni Novanta) Stark si è mosso praticamente tutta la vita. Arrivato a ottanta primavere, professore emerito alla Baylor University, un ateneo battista a Waco in Texas, ha dato alle stampe una summa delle sue ricerche e delle sue moltissime pubblicazioni: How the West Won, tradotto a spron battuto da Lindau con il titolo La vittoria dell’Occidente. La negletta storia del trionfo della modernità (pagine 648, euro 34,00). Si tratta di un’apologia dell’apporto del cristianesimo allo sviluppo della storia e delle potenzialità umane che nasce da un’osservazione razionale, non da un postulato religioso.
«Sono sempre stato culturalmente cristiano, ma ho trovato tardi la fede» ci spiega lo studioso mentre si gode le festività natalizie in Texas. È stata forse anche questa mancanza di etichette, il suo essere stato a lungo un agnostico, ad avergli dato una libertà e un’audacia che è mancata ad altri suoi colleghi credenti. Anche riguardo al giudizio sul ruolo del cattolicesimo nella “vittoria” dell’Occidente, argomento non così digeribile in un contesto come quello del Sud degli Stati Uniti. Uno dei suoi temi forti ripresi in questa ultima fatica è che «i crociati non hanno marciato verso Oriente per conquistare terre e bottino: si sono indebitati fino al collo per finanziare la propria partecipazione a quella che consideravano una missione religiosa; i più ritenevano improbabile la possibilità di sopravvivere e tornare in patria, e i più non tornarono».
Ma è la leggenda nera sul Medio Evo in generale ad averlo impegnato a lungo. «I “secoli bui” non ci sono mai stati, al contrario si è trattato di un’epoca di notevole progresso e innovazione, tra cui l’invenzione del capitalismo» spiega Stark, che aggiunge: «Prima della vulgata illuministica nessuno ha mai creduto ai “secoli bui”. Per prima cosa basterebbe chiedersi: perché la caduta di Roma avrebbe dovuto rendere tutti ignoranti, in un impero immenso? Benché i Romani li chiamassero Barbari, le popolazioni del Nord Europa erano civilizzate quanto i Romani stessi quando finì l’impero. Se si osserva l’Europa alla fine del Medio Evo si può facilmente constatare come fosse assai più progredita dell’impero romano dal punto di vista della scienza, dell’agricoltura, degli armamenti, dell’architettura, del commercio, delle arti, specialmente musica e pittura. Come sarebbe potuto accadere in una età arretrata o oscurantista?».
Fondamentale fu appunto il cristianesimo, la rivoluzione portata dalla sua visione del cosmo e dell’uomo. Stark prende ad esempio l’impatto dell’idea di creazione, di un universo plasmato da un creatore perfetto e razionale, i cui segreti sono penetrabili dalla ragione e dall’osservazione. Della natura come un libro fatto per essere letto. «I Cinesi – scrive nella sua opera – avrebbero respinto con scherno una simile idea in quanto troppo ingenua per la impercettibilità e la complessità dell’universo così come da loro concepito. I Greci trattavano il cosmo, e più in generale gli oggetti inanimati, come esseri viventi; di conseguenza attribuivano molti fenomeni naturali – per esempio, il moto dei corpi celesti – a cause, non a forze inanimate. Nel caso dell’islam, la concezione ortodossa di Allah è contraria alla ricerca scientifica.
Nel Corano non si accenna minimamente al fatto che Allah abbia messo in moto la sua creazione e poi l’abbia lasciata andare da sola. Semmai si ipotizza che spesso intervenga nel mondo e cambi le cose a suo piacimento. Pertanto, nel corso dei secoli, molti autorevoli studiosi islamici hanno ritenuto che i tentativi di formulare le leggi naturali siano blasfemi, poiché sembrerebbero negare la libertà d’azione di Allah».
A Stark giriamo quindi le considerazioni del sociologo e storico belga Leo Moulin (1906 1996): «Date retta a me, vecchio incredulo che se ne intende: il capolavoro della propaganda anti-cristiana è l’essere riusciti a creare nei cristiani, nei cattolici soprattutto, una cattiva coscienza; a instillargli l’imbarazzo, quando non la vergogna, per la loro storia… Vi hanno paralizzato nell’autocritica masochista, per neutralizzare la critica di ciò che ha preso il vostro posto. Da tutti vi siete lasciati presentare il conto, spesso truccato, senza quasi discutere».
«Ho poca familiarità con il “senso di colpa” dei cattolici – commenta Stark – benché creda anch’io che sia stato il frutto dell’attacco alle virtù dell’Occidente da parte di ideologi in campo accademico, spesso anche poco preparati. Vorrei solo far notare come il trionfo dell’Occidente sia avvenuto ben prima della Riforma protestante, e il contributo di quest’ultima sia stato assai inferiore rispetto a quanto sostenuto da storici protestanti o anti-cattolici. Galileo non fu punito per i suoi contributi scientifici, ma per la sua arrogante doppiezza, e circa metà dei grandi scienziati del XVII e XVIII secolo erano cattolici. La famosa tesi dell’etica protestante resa famosa da Weber non ha poi fondamento. E questo lo dico da protestante, educato come luterano».
fonte: Avvenire.it

Solennità di Maria Madre di Dio


Il  tweet di Papa Francesco: "Signore, grazie!" (31 dicembre 2014)

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Le intenzioni di preghiera di papa Francesco per il mese di gennaio

Per il mese di gennaio 2015, papa Francesco ha proposto le consuete intenzioni di preghiera, la prima generale, la seconda missionaria.
L’intenzione generale recita: “Perché gli appartenenti alle diverse tradizioni religiose e tutti gli uomini di buona volontà collaborino nella promozione della pace.
L’intenzione missionaria recita: “Perché in questo anno dedicato alla Vita consacrata i religiosi e le religiose ritrovino la gioia della sequela di Cristo e si adoperino con zelo al servizio dei poveri”.

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Carissimi, che Dio vi benedica in questo nuovo anno. Che possiate viverlo ogni giorno protetti dal manto di Maria. Solo così sarà una meraviglia, il più bello mai vissuto, un passo in più verso il Cielo!

Pregate per me

Vito Valente  Pbro

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MESSALE
Antifona d'Ingresso  
Salve, Madre santa:
tu hai dato alla luce il Re
che governa il cielo e la terra
per i secoli in eterno.



Oppure:   Cf Is 9,2.6; Lc 1,33
Oggi su di noi splenderà la luce, perché è nato per noi il Signore; Dio onnipotente sarà il suo nome, Principe della Pace, Padre dell'eternità: il suo regno non avrà fine.


Colletta

O Dio, che nella verginità feconda di Maria hai donato agli uomini i beni della salvezza eterna, f
a' che sperimentiamo la sua intercessione, poiché per mezzo di lei abbiamo ricevuto l'autore della vita, Cristo tuo Figlio. Egli è Dio e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo...

Oppure:

Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio ...


LITURGIA DELLA PAROLA


Prima Lettura  
Nm 6,22-27  
Essi invocheranno il mio Nome, e io li benedirò.
 
Dal libro dei Numeri
  
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:
Ti benedica il Signore
e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto
e ti conceda pace”.
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».


Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 66
Dio abbia pietà di noi e ci benedica.
Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
la tua salvezza fra tutte le genti.

Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.

Ti lodino i popoli, o Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.

Seconda Lettura   Gal 4,4-7
Dio mandò il suo Figlio, nato da donna.
 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati
Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.


Canto al Vangelo
    Cf Eb 1,1-2
Alleluia, alleluia.

Molte volte e in diversi modi nei tempi antichi
Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti;
ultimamente, in questi giorni,
ha parlato a noi per mezzo del Figlio.

Alleluia.

  
  
Vangelo
  Lc 2,16-21
I pastori trovarono Maria e Giuseppe e il bambino. Dopo otto giorni gli fu messo nome Gesù.
 

Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

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"Ascoltava, guardava, e obbediva"


Certo, con gli scenari che i media ci propongono, è facile che, all’inizio di un nuovo anno, ci prenda un tantino di angoscia. Anche al netto dei messaggi più o meno subliminali che i padroni del mondo ci vogliono rifilare, la terra non è un luogo ospitale.
Non lo è per molte delle creature che il pensiero di Dio vorrebbe far entrare nel mondo e restano folgorate dai veleni di pillole e forcipi. Non lo è per quelle che per la loro presunta inutilità e dannosità per la società sono avviate pietosamente a una dolce morte.
Non lo è per le famiglie, assediate dalle tentazioni più subdole, mimetizzate nel buonsenso che accarezza le concupiscenze. Non lo è per la persona, vezzeggiata nella sua carne e sfregiata nella sua anima.
Non lo è per Dio, esaltato in caricatura e rifiutato in originale. Eppure proprio Lui, all’aurora di un nuovo anno, ci invita a non aver paura del futuro, perché nei giorni che ci attendono “farà brillare il suo volto e ci sarà propizio”.
Per questo ci chiama ad entrare “senza indugio” nella storia, come i pastori che, avvolti dalla luce della Gloria di Dio, si sono incamminati verso la grotta di Betlemme. “In fretta”, come ha invitato Zaccheo a scendere dall’albero perché lo accogliesse in casa sua.
E’ Gesù, infatti, che si invita oggi nella nostra casa, dove è pronta la mangiatoia nella quale desidera adagiarsi. Nella Scrittura però, il termine “casa” allude anche alla famiglia e alla storia che ad essa è legata.  
Non a caso i pastori entrando nella grotta vedono proprio una famiglia: “Trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino che giaceva nella mangiatoia”. Ma Gli angeli avevano indicato loro un particolare apparentemente diverso: “troverete un Bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.
Come aveva argutamente notato il grande mariologo Aristide Serra, all’ingresso dei pastori Luca sostituisce le “fasce” con “Maria e Giuseppe”. Sono loro che “fasciano” Gesù con le loro cure amorevoli. Così il “segno” che Dio offre al mondo diviene la Santa Famiglia di Nazaret.
E’ lei, immagine della comunità cristiana, che ci accoglie per aiutarci ad accogliere Cristo nella nostra vita, nella nostra casa e nelle nostre famiglie, al lavoro, a scuola e in ogni angolo della nostra storia.
Anche in quelli oscuri, dove non capiamo nulla di ciò che ci accade, e vorremmo cambiare gli eventi, le persone, noi stessi. Accanto a Gesù, infatti, come una porta verso di Lui dischiusa dinanzi a noi, c’è Maria.
Perché non c’è altro cammino a Cristo che sua Madre, la Chiesa. Maria, che ha accolto Dio nel suo cuore prima che nel suo grembo, e non ha mai smesso di gestarlo nel suo intimo, dove l’uomo è davvero se stesso e, al riparo dai condizionamenti, decide se obbedire o no. E Maria ha obbedito, nella stessa situazione dove solo un’ora fa noi abbiamo disobbedito.
Ascoltava, guardava, e obbediva, perché nel cuore “serbava e meditava tutte le cose” di suo Figlio; quell’amore infinito deposto in Lei e che le cresceva in grembo; che nasceva, si faceva uomo, e Parola, e segni; e poi insulti e rifiuti, sino all’istante in cui una spada ha trafitto il suo cuore.
In quel momento la lama le conficcava nel cuore il dolore di ogni uomo, unendolo a “tutte le cose” di suo Figlio che aveva custodito come un tesoro. Sino ad allora aveva difeso nella memoria quello che non comprendeva, perché l’impossibile non restasse fuori dalla sua vita.
E ora, ai piedi della Croce, accoglieva nel suo cuore le nostre angosce, ogni evento che non capiamo e non possiamo accettare perché la sofferenza non ci allontanasse da suo Figlio. E così, accogliendoci nel dolore di Gesù, diventava nostra Madre, unendoci a Lui nel suo grembo.
Per entrare nel nuovo anno non abbiamo bisogno di fare propositi buoni solo per essere smentiti già alla sera del primo dell’anno. Ma di convertirci e deporre l’uomo vecchio figlio dell’inganno di satana per rivestire il nuovo dei figli di Dio.
Per essere felici, infatti, bisogna essere liberi dal peccato, non basta un sorrisino in più alla moglie o andare alla recita di fine d’anno dei figli. Ma come si diventa figli di Dio? Accostandoci alla Croce piantata nella nostra storia, perché anche oggi, da essa dove lo hanno inchiodato i nostri peccati, Gesù ci affida a sua Madre, ovvero alle cure materne della Chiesa.  
Accogliamola nella nostra vita per accogliere senza riserve la volontà di Dio, nella quale “il Signore volge a noi il suo volto e ci concede la Pace”. Non è questa che desideriamo per noi, per i nostri cari, per il mondo?
Essa ci viene incontro con Cristo risorto nell’annuncio della Chiesa. Per chi cammina in essa, infatti, imparando ad ascoltare e a “meditare nel cuore” la Parola di Dio, ogni istante è un frammento della “pienezza del tempo” sbocciata nel grembo di Maria.
Dio continua a “mandare suo Figlio” per nascere nel seno della comunità, “sotto la legge” che nessuno può compiere. Per questo soffriamo: non amiamo Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze. Prima di Lui vengono mille altre cose, magari curate nell’inganno che siano secondo la sua volontà.
E non sappiamo amare chi ci è accanto come noi stessi: abbiamo perduto mille occasioni per perdonare, giustificare, donarci. Per questo non abbiamo dentro la vita eterna che fa della vita nella carne un anticipo di Paradiso.
Ma sulla soglia di questo nuovo anno, Maria ci dona suo Figlio per “riscattarci” e farci “adottare come figli” dal Padre. Attraverso le liturgie, la predicazione e i sacramenti Dio “manda nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Papà!”.
Esso è la “prova” che siamo diventati figli di Dio nonostante le infinite debolezze che ci umiliano. Con la sua forza possiamo entrare nella storia liberi e senza timore, amando sino alla fine, perché custodi nel della certezza di “ereditare” il Cielo.
E così questo nuovo anno sarà un “tornare” ogni giorno nel mondo dalla grotta dove Maria ci dona suo Figlio; un “uscire verso le periferie” per “glorificare e lodare Dio” incarnato in noi, prova regina che “tutto quello che abbiamo visto e udito” nella Chiesa è vero. E così offrire a tutti la stessa gioiosa speranza di salvezza, “Gesù”, il nome nuovo nel quale Dio ci ha benedetti.

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Nella celebrazione della Madre di Dio. L’umiltà di cui la Chiesa si congratula


(Salvatore M. Perrella) La celebrazione della Madre di Dio, che nel corso della storia ha conosciuto diverse collocazioni nei calendari liturgici, raccoglie un’usanza umanissima e profonda, diffusa praticamente in tutte le culture: le congratulazioni alla famiglia del nuovo nato, a sua madre, a suo padre. Fedele a questo imperativo di umanità, anche la Chiesa si raccoglie nel primo giorno del nuovo anno civile, intorno alla santa famiglia di Gesù e si rallegra insieme a Maria e insieme a Giuseppe per la nascita di questa nuova vita.
Ma la Chiesa sa che si tratta di una nascita particolare: Giuseppe non è il padre biologico del nuovo nato; Maria ha ricevuto questo figlio in un modo del tutto nuovo e inaudito, per potenza di Spirito Santo. Le congratulazioni che essa quindi rivolge a questa donna e a quest’uomo sono piene della consapevolezza di trovarsi di fronte a una meraviglia loro donata da Dio a beneficio del popolo cui appartengono, l’Israele dei poveri e della fede sofferente, e di tutti coloro Dio stesso vorrà chiamare a essere commensali del suo Regno, dall’Oriente e dall’Occidente, insieme ad Abramo, Isacco, Giacobbe e i santi padri e le sante madri del popolo dell’Alleanza. La Chiesa oggi si congratula con Maria e Giuseppe prima di tutto per la loro fede: senza di essa, il Figlio di Dio, uno della Trinità, non avrebbe mai potuto diventare uno di noi, solidale in tutto nella condizione umana, eccetto il peccato. Si congratula con loro per il coraggio che hanno dimostrato: Maria, dichiarandosi la serva del Signore, si è esposta al rischio di essere considerata un’adultera, di essere ricusata dalla propria famiglia e da quella del suo sposo, di essere condannata senza pietà.
Per parte sua, Giuseppe, pur essendo figlio di Davide, ha accettato di ripensare radicalmente il suo ruolo di depositario delle promesse messianiche e di realizzarle su vie che non potevano essere commisurate sulle esigenze della carne e del sangue, perché quel che viveva in Maria proveniva dallo Spirito e non dalle tradizioni degli antichi. La Chiesa si congratula con loro anche per la loro umiltà: posti davanti al dono dei doni, quel Gesù che dirà di sé: «Io sono la risurrezione e la vita» presentandosi così quale il paradisiaco “albero della vita”, essi non hanno “steso la mano” come i nostri progenitori e non hanno mai cercato di essere “padroni” della Grazia di Dio.
La logica del “padronato”, infatti, tradisce un’origine diversa da quella della parola originaria di Dio: in essa esistono solo degli “oggetti”, da prendere e consumare con disinvoltura e a proprio piacimento. Papa Francesco ha scritto nel messaggio per la Giornata odierna dedicata alla pace: «Quando il peccato corrompe il cuore dell’uomo e lo allontana dal suo Creatore e dai suoi simili, questi ultimi non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti. La persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come un fine» (n. 4).
Quando esistono solo degli “oggetti”, la corsa alla competizione e alla lotta per potersene accaparrare appare come la più normale delle evidenze. Di conseguenza, la violenza omicida e la guerra continua — sia essa di natura politica, economica, sociale, economica, culturale — non solo non possono essere debellate, ma paradossalmente debbono essere in un certo senso incrementate attraverso forme sempre nuove di sfruttamento di uomini, donne e bambini che non hanno alcun titolo per essere riconosciuti come il proprio prossimo, per giungere fino al depredamento dello stesso pianeta.
Non si deve però incappare nell’errore di considerare la logica del “padronato” un qualcosa che riguarda solo la società e le sue strutture politiche e economiche. Essa attanaglia anche le relazioni fondamentali che danno identità personale e di genere agli esseri umani: quanti figli sono vittime inermi dei “sogni” più o meno giustificati o giustificabili dei propri padri e delle proprie madri. E, in egual misura, dei loro “incubi”. Figli e figlie segnati perciò, come da un marchio indelebile, del paradossale rifiuto della loro individualità e del loro diritto-dovere a vivere una storia di vita all’insegna dell’accoglienza come paradigma dell’humanum.
Anche Maria e Giuseppe si sono trovati davanti all’esigenza di scegliere se assecondare o meno le sollecitazioni di questa logica “padronale”: Maria avrebbe potuto trovare, proprio in virtù del dono e del segno della concezione verginale, mille buoni motivi per “non tagliare il cordone ombelicale” e mantenere Gesù in uno stato di perenne “presenza nel suo grembo”, ma non di nascita alla vita, dal momento che questa implica l’uscire dal grembo. Allo stesso modo, Giuseppe avrebbe potuto trovare mille giustificazioni nel pretendere di essere “ripagato” per l’accettazione di un figlio che non aveva concepito e nel porre come fondamento alla sua paternità la volontà di rendere Gesù la sua (impossibile) fotocopia.
La stessa promessa messianica non era esente da letture e interpretazioni di tipo “padronale”: lo riconoscerà Gesù stesso quando, da adulto, affermerà che il regno di Dio soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono (cfr. Matteo, 11, 12). Maria e Giuseppe, però, non se ne sono mai fatti strumenti; anzi, proprio la novità della loro esperienza, novità da essi pienamente vissuta e integrata in tutta la loro persona, è stata la base su cui Gesù ha potuto sviluppare le dimensioni umane della sua libertà anche e soprattutto nei confronti di ciò che la tradizione degli antichi aveva codificato come norma immutabile e gradita a Dio. Se volessimo perciò comprendere qual è l’umiltà di cui la Chiesa si congratula con Maria e Giuseppe, potremmo dire che è l’umiltà con cui Gesù, dopo il battesimo nel fiume Giordano a opera del Battista, risponde alle tentazioni di Satana, che vogliono indurre il Figlio di Dio a vivere umanamente la sua figliolanza divina nella forma del “padronato”.
Fede, coraggio, umiltà: questa triade virtuosa ha fatto di Maria, di Giuseppe e di Gesù di Nazaret una famiglia promotrice della pace. È la medesima triade virtuosa che fa della Chiesa una comunità di pace. Lì dove essa è presente, è possibile a Dio stesso di congratularsi con gli uomini e le donne che ne sono liberamente impastati fin nelle fibre più intime della loro anima, del loro spirito e del loro corpo.
Attraverso di essa, infatti, è possibile costruire la globalizzazione della solidarietà e della fraternità. «Sappiamo — scrive ancora Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale per la pace — che Dio chiederà a ciascuno di noi: “Che cosa hai fatto del tuo fratello?” (cfr. Genesi, 4, 9-10). La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che possa ridare loro la speranza e far loro riprendere con coraggio il cammino attraverso i problemi del nostro tempo e le prospettive nuove che esso porta con sé e che Dio pone nelle nostre mani» (n. 6).
L'Osservatore Romano

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La Madre della Pace

Lectio Divina sulle letture liturgiche della Solennità della Madre di Dio (Anno B), 1 gennaio 2015

LECTIO DIVINA

1) La Madre.
A Natale abbiamo festeggiato la nascita del Figlio. Oggi festeggiamo la Madre. Non si può separare la mamma dal suo bambino.
La Chiesa celebra la Solennità di Maria, Madre di Dio, per ricordarci che abbiamo in Lei una sicura e materna compagnia nel nostro cammino quaggiù. In Lei, nel suo amore e nella sua obbedienza troviamo il sentiero per tornare a Dio. Verso di Lei la Chiesa si rivolge, perché Maria, la Madre del Signore, è in Cristo la Madre di tutta l’umanità, in quanto Lei partecipa dell’estensione d’amore che nel Figlio Dio Padre ha voluto donarci.
Stupiti dalla gioia, celebriamo il fatto che dalla tenerezza della Madre di Dio nasce la pace per tutti: Maria, per opera dello Spirito Santo, ha dato al mondo il principe della pace, Gesù redentore dell'umanità.
La nostra Pace, Cristo, è tra le braccia di una madre: Maria, una di noi. La Pace, Gesù, nato da donna, è il dono natalizio per eccellenza messo in braccio a noi. Lui è il volto della Pace che risplende per illuminare i nostri volti, mendicanti la pace.
Mendichiamo questa pace dalla Vergine Madre e l’avremo, come i pastori che “andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.” (Lc 2, 16-20 – Vangelo di oggi). Avevano incontrato il Principe della Pace, che faceva di loro uomini giusti.
Se vogliamo un mondo con uomini giusti, con uomini che sentano e vivano la fraternità, dobbiamo non dimenticare la strada del presepe.
Il presepe ci racconta di Dio che si fa Bambino e di una Madre, che ce lo dona. Lo mette al mondo di notte, perché l’amore è sempre un dono che fa nascere il giorno.
E di fronte al presepe l’uomo si scopre amato, atteso, cercato, scopre che val la pena essere uomo se Dio stesso si è fatto uomo, ritrova la speranza e la gioia di sentirsi fratello tra fratelli.
In questo presepe c’è il Figlio di Dio. Senza Gesù il presepe è poca cosa: una stalla con delle bestie, che scaldano una povera coppia di genitori di un misero neonato. Senza che vi fosse il Figlio di Dio, il Re dei re, i Re Magi non sarebbero entrati in una stalla. Questi, come i pastori, videro, credettero, si inginocchiarono e adorarono. Facciamo altrettanto.
Videro paglia e letame veri, sentirono l’odore di stalla, ma, soprattutto videro la Parola di Dio fatta carne, e furono stupefatti dall’Amore, la cui potenza non ha bisogno della forza violenta per manifestarsi. Si “servì” di un Bambino.
Lo stupore dei pastori, dei Re Magi, di Giuseppe e di Maria non fu suscitato dal loro essere impressionati - come succede nelle occasioni di meraviglia, per qualche cosa bella o eccezionale o straordinaria o maestosa e in genere impressionante - ma dalla presenza del Principe della Pace, Gesù bambino, da cui traspariva un che di speciale se tutti si misero in ginocchia davanti a Lui, che era deposto su della paglia in una stalla.
2) Madre di tutti, per tutti i giorni dell’anno.
E Maria? Come ha vissuto la Madonna il primo Natale? Anche Maria sentì le parole, che spiegavano l’evento che ella stessa vide e visse. Parole e fatti che Lei custodì2nel suo cuore, dentro di sé, in un ascolto consapevole, pensoso e intelligente: il cuore indica tutto questo. L’ascolto interiore di Maria è prolungato, non di un solo momento. La frase evangelica ‘custodisce tutto, meditandolo nel suo cuore’ dice che il custodire di Maria non fu un conservare passivo, inerte, bensì un custodire attivo e vivo, che collega e confronta una cosa con l’altra, cercando di comprendere la logica profonda, la direzione e la verità di cose che possono sembrare slegate o addirittura in contrasto fra loro. Ed è appunto ciò che fece Maria sentendo, da una parte, le parole che proclamavano la gloria del Bambino (parole da lei stessa sentite dall'angelo nell'annunciazione) e, dall’altra, vedendo “un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia”. È la solita tensione fra grandezza e piccolezza, gloria e povertà che costituisce l’ossatura dell’evento cristiano. L’ascolto di Maria diventa dunque un’interpretazione vera e propria che fa luce sul mistero di Gesù.
Maria non è solamente la Madre di Gesù, ne è anche la più profonda interprete. Lei ci spiega il Natale, perché non è facile da capire il Natale. Dunque, facciamoci guidare da Maria, che custodiva e meditava tutte queste cose nel suo cuore. Il suo cuore e la sua mente cercavano il filo d’oro che tenesse insieme gli opposti: una stalla e «una moltitudine di angeli», una mangiatoia e un “Regno che non avrà fine”. Come lei, come i pastori e i Re Magi, anche noi salviamo almeno lo stupore: a Natale il Verbo è un neonato che non sa parlare, l’Eterno è appena il mattino di una vita, l’Onnipotente è un bimbo capace solo di piangere. Dio ricomincia sempre così, con piccole cose e in profondo silenzio.
Dio ha deciso di rivelarsi nascendo bambino. Questa è la profondità del mistero del Natale raccontato dal Presepe di Betlemme, delle nostre Chiese e delle nostre case.
Per trent’anni Cristo continuò a vivere questa vita umile e semplice per salvarci. Questa vita Sua Madre abbracciò. Questa vita di nascondimento è abbracciata oggi, quotidianamente, dalle Vergini Consacrate nel mondo. Collocando la loro speranza nella Beata Vergine Maria, le Vergini Consacrate nel mondo guardano a Maria come “il prototipo della Vita Consacrata perché è la Madre che accoglie, ascolta, intercede e contempla il suo Signore con la lode del cuore" (Messaggio del Sinodo sulla Vita Consacrata). Maria è modello, guida e Madre in tutti gli elementi fondamentali della vita consacrata: nella sequela evangelica, a modo di sposalizio con Cristo (Gv 2,4-5. 11 12), con “cuore indiviso” (1Cor 7,32s); nella povertà evangelica secondo la vita a Betlemme e a Nazareth (Lc 1-2; Mt 1-2); nell’obbedienza ai disegni salvifici di Dio (Lc 1,38); nella verginità spiritualmente feconda, sotto l’azione della Spirito Santo, per essere “la Donna” associata a Cristo (Lc 1, 35; Gv 2, 4); nella disponibilità per il servizio e missione della Chiesa per una nuova maternità (Gv 19, 25 27; Apoc 12, 1ss); nella vita della Chiesa fraterna come vincolo di comunione e di aiuto per la vita spirituale, apostolica, intellettuale e umana (At 1, 14).

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LETTURA PATRISTICA
Dalle «Lettere» di sant'Atanasio, vescovo
(Ad Epitetto 5-9; PG 26, 1058. 1062-1066)
Il Verbo ha assunto da Maria la natura umana
Il Verbo di Dio, come dice l'Apostolo, «della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli» (Eb 2, 16. 17) e prendere un corpo simile al nostro. Per questo Maria ebbe la sua esistenza nel mondo, perché da lei Cristo prendesse questo corpo e lo offrisse, in quanto suo, per noi.
Perciò la Scrittura quando parla della nascita del Cristo dice: «Lo avvolse in fasce» (Lc 2, 7). Per questo fu detto beato il seno da cui prese il latte. Quando la madre diede alla luce il Salvatore, egli fu offerto in sacrificio.
Gabriele aveva dato l'annunzio a Maria con cautela e delicatezza. Però non le disse semplicemente «colui che nascerà in te», perché non si pensasse a un corpo estraneo a lei, ma: «da te» (cfr. Lc 1, 35), perché si sapesse che colui che ella dava al mondo aveva origine proprio da lei.
Il Verbo, assunto in sé ciò che era nostro, lo offrì in sacrificio e lo distrusse con la morte. Poi rivestì noi della sua condizione, secondo quanto dice l'Apostolo: «Bisogna che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e che questo corpo mortale si vesta di immortalità» (cfr. 1 Cor 15, 53).
Tuttavia ciò non è certo un mito, come alcuni vanno dicendo. Lungi da noi un tale pensiero. Il nostro Salvatore fu veramente uomo e da ciò venne la salvezza di tutta l'umanità. In nessuna maniera la nostra salvezza si può dire fittizia. Egli salvò tutto l'uomo, corpo e anima. La salvezza si è realizzata nello stesso Verbo.
Veramente umana era la natura che nacque da Maria, secondo le Scritture, e reale, cioè umano, era il corpo del Signore; vero, perché del tutto identico al nostro; infatti Maria è nostra sorella poiché tutti abbiamo origine in Adamo.
Ciò che leggiamo in Giovanni «il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14), ha dunque questo significato, poiché si interpreta come altre parole simili.
Sta scritto infatti in Paolo: «Cristo per noi divenne lui stesso maledizione» (cfr. Gal 3, 13). L'uomo in questa intima unione del Verbo ricevette una ricchezza enorme: dalla condizione di mortalità divenne immortale; mentre era legato alla vita fisica, divenne partecipe dello Spirito; anche se fatto di terra, è entrato nel regno del cielo.
Benché il Verbo abbia preso un corpo mortale da Maria, la Trinità è rimasta in se stessa qual era, senza sorta di aggiunte o sottrazioni. E' rimasta assoluta perfezione: Trinità e unica divinità. E così nella Chiesa si proclama un solo Dio nel Padre e nel Verbo.
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NOTE
1 In questa solennità ci soffermiamo insieme sul mistero di Maria che è madre di Dio. Il Vangelo che ci viene proposto è quello della Messa dell'aurora del giorno di Natale, cioè la visita dei pastori al bambino Gesù. Il brano però ha due piccole variazioni: viene eliminata la menzione degli angeli che si allontanano dopo aver dato l'annuncio ai pastori e al termine viene aggiunto il v. 21, che parla della circoncisione del Bambino e dell'imposizione del nome. I bambini ebrei infatti venivano sottoposti a questa pratica che era il segno della loro appartenenza al popolo di Israele e insieme ricevevano il nome con cui sarebbero stati riconosciuti per tutta la vita. Prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II in questo giorno si celebrava la festa della Circoncisione di Gesù e il Santo Nome, come la Liturgia del Rito Ambrosiano continua ancora oggi a celebrare. Dopo il Concilio Vaticano II, nel Rito Romano si è voluto spostare la festa dedicata a Maria riconosciuta come Madre di Dio, un dogma di fede che era stato affermato nel concilio di Efeso del 431.
2 Il verbo “custodire” – è il solo verbo all'indicativo e che, perciò, regge tutta la frase – non dice semplicemente il ricordare, ma sottolinea la cura e l'attenzione, come quando si ha fra le mani una cosa preziosa.

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Sito della Santa Sede
In occasione, domani 1° gennaio 2015, della Giornata Mondiale della pace, riproponiamo il Messaggio del Papa in diverse lingue, pubblicato lo scorso 8 dicembre. 
1. All’inizio di un nuovo anno, che accogliamo come una grazia e un dono di Dio all’umanità, desidero rivolgere, ad ogni uomo e donna, così come ad ogni popolo e nazione del mondo, ai capi di Stato e di Governo e ai responsabili delle diverse religioni, i miei fervidi auguri di pace, che accompagno con la mia preghiera affinché cessino le guerre, i conflitti e le tante sofferenze provocate sia dalla mano dell’uomo sia da vecchie e nuove epidemie e dagli effetti devastanti delle calamità naturali. Prego in modo particolare perché, rispondendo alla nostra comune vocazione di collaborare con Dio e con tutti gli uomini di buona volontà per la promozione della concordia e della pace nel mondo, sappiamo resistere alla tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità.
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