martedì 30 dicembre 2014

Bilancio ecumenico 2014



Bilancio e prospettive del dialogo tra le religioni. Stella nel cielo tempestoso
L'Osservatore Romano

(Jean Louis Tauran - Cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso) Non c’è dubbio che il momento che stiamo vivendo sia uno dei più bui della storia dell’umanità. Non passa giorno senza che abbiano luogo degli avvenimenti tragici in vari Paesi, avvenimenti che non risparmiano nessuno: bambini, anziani, donne, civili, persone di altre religioni ma anche correligionari. Ad aggravare e complicare la situazione il fatto che viene invocato il nome di Dio o quello di una religione per giustificare tale violenza.
Davanti a queste gravi offese a Dio, a una insensata e disonesta strumentalizzazione della religione e, naturalmente, alla violazione del sacro diritto di ogni persona alla vita e alla sicurezza nel rispetto dei suoi diritti fondamentali, non si può non interrogarsi: le religioni sono credibili? Lo sono i loro seguaci? Sarebbe credibile il dialogo interreligioso, in particolare quello cristiano-islamico?

*

 Il cammino continua

Popoli

Trattandosi dell’articolo con cui anch’io mi congedo dai lettori di Popoli, mi sia concesso di dare un taglio maggiormente personale all’ormai consueto bilancio di un’annata di ecumenismo. 

Lo scorso anno scrivevo queste note al rientro da Costantinopoli, dopo aver partecipato alle celebrazioni della festa di Sant’Andrea presso il Patriarcato ecumenico e aver sostato in preghiera presso la tomba del patriarca Athenagoras. Oggi lo faccio in due tempi, prima e dopo la festa di Sant’Andrea cui papa Francesco ha voluto essere presente per incontrare nuovamente il patriarca ecumenico Bartholomeos. E le giornate del 29 e 30 novembre scorso conferiscono una luce particolare al bilancio che traccio qui di seguito: a Costantinopoli, nel corso della Divina Liturgia celebrata in cattedrale, due segnali, due gesti apparentemente marginali hanno conferito una portata storica all’evento, caricando di profezia le parole pronunciate. 

Innanzitutto il gesto della pace, che solitamente il patriarca ecumenico scambiava con il vescovo di Roma dopo la celebrazione della Divina Liturgia, questa volta è stato collocato all’interno della medesima: segno esplicito di comunione, avvicina ancor di più il giorno in cui si potrà bere allo stesso calice. E nella stessa direzione va l’inedito e non programmato invito che papa Francesco ha rivolto al patriarca Bartholomeos al termine della celebrazione e del suo discorso: “Le chiedo di benedire me e tutta la Chiesa di Roma!”. Invito ribadito chinando per due volte il capo fino a ricevere la benedizione: le mani imposte sul capo e il fraterno bacio di Bartholomeos sono state la risposta che ha dilatato l’abbraccio all’intera Chiesa sorella di Roma, “che presiede nella carità”.

Nel 2014, papa Francesco e il patriarca Bartholomeos si sono così incontrati ben quattro volte. E se l’incontro a Roma in occasione del decennale dell’inaugurazione della chiesa concessa in uso al patriarcato ecumenico e il recente abbraccio a Costantinopoli appartengono agli eventi significativi ma in un certo senso “annunciati” (anche se, come abbiamo visto, per nulla scontati nella loro portata), il comune pellegrinaggio a Gerusalemme e la partecipazione congiunta al momento di preghiera per la pace in Terrasanta svoltosi in Vaticano costituiscono segni forti e inequivocabili posti non solo nel cammino ecumenico ma nella comune testimonianza offerta dalle chiese cristiane al mondo contemporaneo. 

A cinquant’anni dallo storico incontro a Gerusalemme tra papa Paolo VI e il patriarca Athenagoras, il ritrovarsi del vescovo di Roma e del patriarca di Costantinopoli – successori dei fratelli Pietro e Andrea – nella terra dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione dell’unico Signore non è stata una semplice commemorazione, bensì un abbraccio fortemente voluto tra fratelli, consapevoli della responsabilità affidata loro dal Signore: “dall’amore che avrete gli uni per gli altri riconosceranno che siete miei discepoli”. 

Sì, dall’unità dei cristiani dipende l’efficacia dell’annuncio evangelico agli uomini e alle donne di oggi. Ed è la consapevolezza di questo segno grande che ha condotto successivamente Francesco e Bartholomeos a osare l’audacia di un gesto inaudito: riunire israeliani e palestinesi, ebrei e musulmani, uomini di fede e uomini di stato per invocare dall’unico Dio pace per quel Medioriente così travagliato.

Ma questi incontri così eloquenti non sono stati gli unici eventi nel faticoso ma risoluto cammino verso l’unità: tra difficoltà, incomprensioni e pazienti ricuciture, è proseguito il confronto della Commissione teologica cattolica-ortodossa, riunitasi ad Amman: se non è stato possibile nemmeno questa volta giungere all’approvazione di un documento comune sul primato petrino, si è tuttavia deciso di proseguire il dialogo, di scavare nelle convergenze e e di guardare in faccia le divergenze, facendo comune obbedienza alla volontà del Signore. E il ritrovarsi in Giordania, a pochi chilometri dalla martoriata Siria e dall’Iraq stravolto dalla guerra ha ribadito una verità riaffermata a più riprese anche da papa Francesco: l’ “ecumenismo del sangue” ci unisce già perché nei paesi in cui i cristiani patiscono violenza e sono vittime di persecuzioni, la loro sofferenza oggi come sempre non conosce divisioni confessionali. I nostri fratelli e le nostre sorelle sono colpiti in quanto cristiani, discepoli di Cristo, indipendentemente dall’appartenenza all’una o all’altra chiesa: i persecutori ci considerano quello che noi siamo chiamati a essere, una sola cosa in Cristo.

E questo ecumenismo della vita e della morte, dell’ingiustizia patita e del perdono offerto non riguarda solo Roma e Costantinopoli: è un appello esigente che risuona per le chiese presenti in Egitto – dove il patriarca copto Tawadros II ha lavorato alacremente e con successo per la costituzione del Consiglio delle chiese cristiane – come per quelle di antichissima tradizione nei paesi del Medioriente che si ritrovano a rischio di estinzione a causa della guerra e della conseguente emigrazione. E come dimenticare la sfida che da mesi affrontano le chiese in Ucraina, dove forze politiche opposte cercano di trascinare i cristiani di diverse confessioni in conflitti fratricidi e contraddire così il faticoso cammino di riconciliazione intrapreso in quelle terre?

Per quanto concerne poi i rapporti con le chiese nate dalla Riforma, l’orizzonte del 2017 – cinquecentesimo anniversario dell’affissione delle 95 tesi di Lutero a Wittemberg, convenzionalmente considerata data di nascita del protestantesimo – sta già coagulando iniziative pubbliche, occasioni di dialogo e di riflessione: è di poche settimane fa l’invito ufficiale  rivolto a papa Francesco da parte della Federazione Luterana Mondiale a partecipare a un evento che non vorrà essere memoria di una divisione bensì riaffermazione del desiderio di riforma evangelica della chiesa tutta, chiamata ogni giorno a ritornare al suo Signore e a essere sempre più fedele all’unica Buona notizia annunciata da Gesù.

A questo fervore di iniziative si affianca come sempre l’ecumenismo quotidiano: la testimonianza sovente nascosta di tanti “oscuri testimoni della speranza” che non cessano di battersi fianco a fianco per la pace, la giustizia, il rispetto della dignità di ogni essere umano e la custodia del creato. In particolare quest’anno la chiesa cattolica e la comunione anglicana si sono fatti congiuntamente promotrici di una lotta alla tratta degli esseri umani, soprattutto i più indifesi, come i bambini e le donne. Le moderne schiavitù non sono meno orribili di quelle che credevamo appartenere al passato, così come l’ipocrisia di chi finge di non vedere è causa di devastazioni nel corpo, nella mente e nello spirito di tanti nostri fratelli e sorelle in umanità.

A conclusione di queste note e aprendo una finestra su quanto ci attende per il prossimo anno in campo ecumenico, vorrei esprimere un auspicio, emerso durante l’ormai tradizione Convegno di spiritualità ortodossa che si è tenuto come ogni anno al Monastero di Bose, con la partecipazione di cristiani di tutte le chiese. L’8 dicembre 2015 segnerà il 50° anniversario della chiusura del concilio Vaticano II, alla quale hanno partecipato per la prima volta dopo secoli anche degli “osservatori non cattolici”, che negli anni a venire sarebbero diventati “delegati fraterni”. Il giorno prima, il 7 dicembre 1965, Roma e Costantinopoli avevano solennemente cancellato le reciproche scomuniche comminate nel 1054. Possiamo immaginare di celebrare insieme quel fausto giorno di riconciliazione con la simultanea proclamazione della santità dei due “uomini di Dio” che avevano osato l’abbraccio dell’amore fraterno: Paolo VI e Athenagoras? Possiamo sentirli come ferventi intercessori presso Dio perché si affretti il giorno in cui i cristiani potranno di nuovo bere insieme alla o stesso calice?

Guido Dotti
Monaco di Bose