venerdì 19 dicembre 2014

In nome dei padri. Abramo e Giuseppe

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di Francesco Agnoli
Natale è la festa di Gesù bambino; dunque è la festa dei bambini, ma anche dei padri e delle madri. Dei padri e delle madri che alla vita dei loro figli dedicano la propria. Il senso della nostra vita è sempre fuori di noi; ed è legato all’amore, come servizio. Padre e madre, non sempre nella storia degli uomini, ma sempre nella storia della salvezza, significa “servitori”. A partire da colui che Dio Padre invita
a lasciare la sua terra, per la Terra promessa: Abramo.
Nella Bibbia, Abramo è l’uomo di fede, colui che ha così tanta fiducia nel Signore Dio suo, da seguire ogni suo comando, anche quando ciò può apparire assurdo, illogico, imprudente. Parte, lascia la sua terra, la sua casa, i suoi genitori, senza fare domande, senza obiezioni, senza volere chiarimenti su quale sarà il suo futuro. Gli è chiesto di lasciare tutto per divenire, non senza una attesa lunga e difficile, padre di Isacco, da una moglie sterile; per divenire, lui capo di un gruppetto di pastori senza fissa dimora, “padre di una moltitudine di nazioni”. Rileggere oggi le promesse che Dio fa ad Abramo, nel Genesi, un testo che ha circa 2500 anni, fa molto riflettere. Perché la promessa di Dio, sarai “padre di una moltitudine di nazioni”, si è avverata. Gli egizi, i mesopotamici, le altre civiltà antiche li studiamo come si fa con popoli estinti, portatori di una religione e di una cultura di cui rimane traccia solo nei libri. O nelle pietre. Anche i coltissimi Greci hanno esaurito da secoli la loro missione. Invece la religione di Abramo, tramite Cristo, ed altri ebrei, gli apostoli, ha conquistato davvero una moltitudine di nazioni. E la Bibbia non è solo un libro di ricordi, ma è stato ed è tutt’ora il riferimento vitale di miliardi di persone. Abramo, guida di un piccolo popolo, marito di una moglie sterile, riceve una Terra che da allora sarà segnata, da andate e ritorni, ma che non perderà più il suo fascino, la sua importanza, la sua centralità, anche dolorosa, anche terribile. Abramo, padre che non riesce ad avere figli, avrà una discendenza fisica e spirituale che non si è mai esaurita.
Da Abramo a Giuseppe. Un altro padre, non di popoli, ma di Dio stesso. Il Dio dell’eternità, che si era rivelato ad Abramo dicendo “Io sono Colui che è”, diventa bambino, figlio di Dio, figlio di Maria, figlio di Giuseppe, figlio di un falegname, figlio degli uomini di cui è Creatore. Anche la figura di Giuseppe è affascinante. Di lui sappiamo molto poco, persino dai Vangeli. Come Maria, maestro di tutti i padri buoni che verranno, Giuseppe scompare, perché suo figlio si manifesti; serve, senza chiedere altro. In ogni momento in cui c’è bisogno, lui c’è. Discreto, puntuale, fedele, roccioso, come un vero padre.
Abramo serviva Dio, il grande Dio dei cieli; Giuseppe serve un Dio piccolino, in carne e ossa, con la stessa dedizione. Lui e Maria, come tutti i genitori, sentono di avere uno scopo: vivere per il figlio. Stare al suo fianco, senza mai chiedere nulla. Fin dal principio, sin da quando viene a sapere che Maria, la sua fidanzata, è incinta, Giuseppe vive questa dedizione e questa discrezione. Maria non è sterile, come Sara; ma neppure lei potrebbe avere un figlio, perché non è mai stata con Giuseppe. E’ lei, una donna, nel Nuovo Testamento, al posto dell’uomo Abramo, nel Vecchio, ad aver detto il primo sì. Ma Giuseppe dice il secondo. Perché Maria, sua promessa sposa, è incinta, di quattro o cinque mesi, e lui “come legittimo marito, avrebbe potuto dimettere Maria consegnandole la scritta di divorzio, il quale provvedimento avrebbe avuto per conseguenza di esporre la ripudiata alla pubblica disistima; ma per evitare ciò Giuseppe pensa di dimetterla segretamente, e prende questa deliberazione” (Giuseppe Ricciotti). Solo dopo gli verrà detto dall’angelo cosa è davvero accaduto. Solo dopo, forse perché Giuseppe era già convinto, nel suo cuore, che qualunque cosa fosse successa, Maria non poteva averlo tradito. Conoscendola, non era possibile. Abramo, padre di popoli e Giuseppe, padre di famiglia: accomunati, entrambi, dalla stessa fede, dalla stessa capacità di essere condottieri e guide, nelle grandi e nelle piccole cose. Entrambi uomini veri, coraggiosi, radicati nella fede, solidi… Condottieri di cui il mondo avrebbe bisogno anche oggi, al posto di non pochi padri disinteressati, assenti, spauriti, senza il senso della propria insostituibile missione di immagini e di vicari del Padre celeste. Il Foglio, 18/12/2014