domenica 28 dicembre 2014

Quell’ecumenismo del sangue...



Il patriarca Twal alla messa nella basilica della Natività. Non basta parlare di pace

«Ebrei, musulmani e cristiani dovrebbero vivere insieme, nell’uguaglianza e nel rispetto reciproco. Gerusalemme ha una vocazione universale alla pace e alla felicità. Invece, questa Terra santa è diventata terra di conflitto». Il patriarca di Gerusalemme dei Latini, Fouad Twal, ha colto l’occasione della messa natalizia di mezzanotte celebrata a Betlemme, nella basilica della Natività, alla presenza delle autorità palestinesi, per compiere una nuova disamina della grave situazione in cui versano i luoghi santi.«Abbiamo vissuto, quattro mesi fa — ha detto nell’omelia — la terza guerra consecutiva su Gaza che ha lasciato, sui due lati, migliaia di vittime. Peggio ancora, tutti questi sacrifici sembrano inutili: nel fondo del problema non è cambiato nulla. Il popolo israeliano continua a vivere nella paura e nella insicurezza, mentre il popolo palestinese continua a reclamare la propria indipendenza e la propria libertà e Gaza attende di essere ricostruita per la terza volta». Peggio ancora, «questa guerra ha approfondito l’odio e il sospetto tra i due popoli e li ha fatti entrare in una spirale di violenza e di rappresaglie. Ultimamente, la violenza ha colpito i luoghi di culto. Il gorgo della morte continua a travolgere e schiacciare».
In questa prospettiva, Twal ha lanciato due appelli. Il primo per «la ricostruzione di Gaza e l’umanizzazione delle condizioni di vita dei suoi abitanti». Il secondo, per la valle di Cremisan, «minacciata di essere inghiottita dal tracciato del muro che rischia di separare 58 famiglie cristiane di Beit Jala dai loro campi». Secondo il patriarca, «queste famiglie perderebbero l’accesso alle loro proprietà. In nome della giustizia e della morale, domando ai responsabili politici di impedire questo muro». Muro sul quale, ha ricordato il presule, Papa Francesco, in occasione del suo pellegrinaggio in Giordania, Territori Palestinesi e Israele del maggio scorso, «si è fermato, vi si è inchinato e ha pregato. Il mondo potrebbe anche dimenticare tutti i discorsi di Sua Santità durante la sua permanenza tra noi, ma non potrà dimenticare la sua breve sosta davanti al muro. Con la sua preghiera, Sua Santità ha chiesto di far crollare anche i muri immateriali, incancreniti nei cuori e nelle anime: i muri dell’odio, del timore e dell’arroganza». Per questo, ha aggiunto, «in questa notte di Natale, non basta parlare di pace è necessario soprattutto pregare per la pace. Preghiamo, dunque, per la pace del mondo intero, per la riconciliazione in Medio oriente, per i prigionieri politici e i detenuti, preghiamo per i rifugiati accolti nei Paesi vicini, in Giordania e in Libano. Preghiamo per i poveri e i perseguitati a causa della loro fede e della loro razza. Preghiamo infine per i nostri capi politici perché il Signore accordi loro la saggezza e la forza. Preghiamo gli uni per gli altri».


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 Quell’ecumenismo del sangue...
Nella lettera ai cristiani del Medio oriente. 

(Manuel Nin) «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio...» (Isaia, 40, 1). Quasi a riecheggiare le parole del profeta e a completarle con quelle dell’apostolo Paolo che chiama in causa il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo... Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazioneà» (2 Corinzi, 1, 3), Papa Francesco, alle porte del Natale 2014 indirizza una lettera ai cristiani che vivono nelle regioni del Medio oriente. Cristiani che da anni, ma specialmente negli ultimi mesi vivono in una situazione di sofferenza, di esilio, di persecuzione, fino alla massima testimonianza, quella di versare il sangue per Cristo.
Cristiani che versano il proprio sangue, la propria storia, la propria cultura cristiana in quelle terre del Medio oriente, terre che sono le loro terre da quasi duemila anni.
Papa Francesco, in modo lucido, coraggioso e allo stesso tempo paterno, si avvicina alla realtà sofferente di quelle terre e di quegli uomini e donne, che dovranno vivere ancora un Natale nella sofferenza e nella persecuzione, purtroppo tante volte ancora ignorata nell’indifferenza dall’Occidente. Francesco comunque annuncia il mistero della consolazione di Dio verso il suo popolo nella nascita del Figlio. E senza mezzi termini né imprecise allusioni, fa riferimento al regime di terrore di portata mai immaginata prima, che si è istallato in quelle terre cristiane popolate lungo i secoli da tanti padri, monaci, cristiani che le avevano coltivate, curate e amate fino all’estremo.
Francesco fa riferimento di seguito alle realtà etniche e religiose non soltanto cristiane che vivono in quelle terre e che sono oggetto di persecuzioni e di atrocità umanamente senza paragone. E la voce del vescovo di Roma si alza per difendere quelli che sono i più deboli di fronte alla sofferenza e per chiedere la solidarietà di tutti verso quelle popolazioni con delle iniziative che portino a quei nostri fratelli la consolazione, il supporto, la libertà di agire, di vivere per quello che sono.
Un paragrafo centrale della lettera diventa il nocciolo di tutto il messaggio, della parola veramente teologica del Papa, cioè quasi la professione di fede di quello che è il fondamento della vita e della testimonianza cristiana: la fedeltà totale e unica a Cristo, e fino al martirio.
I cristiani in Oriente e dovunque, lungo la storia dal I al XX secolo, fino ai nostri giorni del XXI secolo, non hanno sofferto e non soffrono una persecuzione sanguinante a causa di eventuali rivoluzioni o di capovolgimenti sociopolitici, bensì a causa del nome e della persona di Gesù Cristo.
La testimonianza dei martiri: è a Gesù Cristo che viene resa, lui è la loro e la nostra speranza; uniti fedelmente e unicamente a Lui. Il martirio è anche esigenza per gli stessi cristiani di una vita cristiana più profonda, più fraterna e più autentica. E Francesco si ricorda dei fedeli delle diverse Chiese cristiane, vescovi, sacerdoti, uomini e donne, che hanno subito il martirio oppure sequestrati, messi a parte dalla memoria del mondo, quasi a farli cadere nell’oblio da tutto e da tutti.
Viene introdotto quindi il tema dell’ecumenismo del sangue, quasi che il dialogo fraterno tra le diverse Chiese cristiane venisse in qualche modo coagulato dal sangue dei martiri. E il Papa si rallegra della collaborazione tra i pastori delle diverse Chiese Orientali cattoliche e ortodosse, e anche tra i fedeli. «Le sofferenze patite dai cristiani — scrive — portano un contributo inestimabile alla causa dell’unità. È l’ecumenismo del sangue, che richiede fiducioso abbandono all’azione dello Spirito Santo».
E Francesco introduce un altro aspetto della drammatica vicenda, uno forse tra i più difficili da affrontare: il vincere la tentazione di fuggire, di emigrare, cioè l’esortazione del Papa a rimanere in quelle terre martoriate, devastate, ma che sono cristiane da duemila anni; rimanere lì, certo tra le rovine delle case, delle chiese, dei monasteri, ma fermi nella speranza.
Una speranza e un coraggio richiesti malgrado le pietre fumanti ovunque, le icone bruciate, le ceneri delle biblioteche e dei manoscritti che tramandavano il canto di lode e di speranza dei santi Padri.
Francesco ancora esorta al dialogo con tutti, nell’esigenza di una chiara condanna di una violenza ingiustificabile: «La situazione drammatica che vivono i nostri fratelli cristiani in Iraq, ma anche gli yazidi e gli appartenenti ad altre comunità religiose ed etniche, esige una presa di posizione chiara e coraggiosa da parte di tutti i responsabili religiosi, per condannare in modo unanime e senza alcuna ambiguità tali crimini e denunciare la pratica di invocare la religione per giustificarli».
Nell’ultima parte della sua lettera, Francesco esorta i cristiani di quelle terre a evitare la tentazione del disinteresse verso un impegno nella vita pubblica, e a vivere come cristiani nello spirito delle Beatitudini evangeliche.
Il Papa infine si trattiene a elencare tutti coloro che nella Chiesa si impegnano, senza fuggire, nel servizio della carità. E indirizzandosi ai giovani, li incoraggia a non avere paura, ripetendo le belle parole di Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica sul Medio oriente (n. 63).
A conclusione della lettera, e come nei suoi interventi precedenti, Francesco si indirizza anche alla comunità internazionale con una parola coraggiosa e di denuncia: «Ribadisco la più ferma deprecazione dei traffici di armi. Abbiamo piuttosto bisogno di progetti e iniziative di pace, per promuovere una soluzione globale ai problemi della Regione. Per quanto tempo — si domanda — dovrà soffrire ancora il Medio oriente per la mancanza di pace?».
Nei giorni del Natale, tanti cristiani nel Medio oriente, con la lingua dei loro Padri, canteranno con Efrem il Siro, e noi con loro nella solidarietà, nel non oblio e la non indifferenza verso il loro martirio: «Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare Betlemme. Benedetto il bimbo, che oggi ha ringiovanito l’umanità. Benedetto il frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. Benedetto il buono che in un istante ha arricchito la nostra povertà...».
L'Osservatore Romano