venerdì 31 gennaio 2014

Avanza la dittatura. Nel silenzio

Parlamento europeo

di Luigi Negri*

Martedì prossimo il Parlamento europeo voterà un progetto (la Relazione Lunacek, ndr) teso ad obbligare tutti gli Stati membri dell’Unione a riconoscere i matrimoni omosessuali e qualsiasi altra forma di coppia, nonché ad iniziare i bambini e i giovani a una visione pansessualistica della realtà sociale. Una visione in cui di fatto vengono riconosciute alle devianze, anche le più patologiche, il valore di diritti, personali e sociali.
E’ un segnale sinistro di un coagularsi della mentalità laicista anticattolica - anzi più decisamente antiumana - in modo che essa sia imposta senza colpo ferire, e in cui anche il minimo riferimento dialettico sembra essere considerato quasi come un delitto di lesa maestà.
Maestà di chi? La maestà risiede nei popoli dell’Unione ed essi devono essere messi in grado di valutare con realismo e responsabilità le proposte che, appunto, dovrebbero permanere come proposte su questi temi di così grande rilievo per la vita dei popoli e delle nazioni.
Pertanto per la responsabilità che ho nei confronti della comunità cristiana - ma aldilà di essa, nei confronti di tantissimi uomini di buona volontà che incontro nel mio quotidiano impegno pastorale - sono cordialmente e ammiratamente d’accordo con le iniziative che Manif pour Tous in Europa e in Italia sta mettendo in atto (domenica 2 febbraio è prevista una manifestazione anche a Roma, ndr) per iniziare almeno un’opera di grande sensibilizzazione nei confronti di queste vicende di carattere etico sociale e dei tentativi ideologici che si stanno compiendo. Mi sembra l’espressione di una laicità sana, di una laicità che per protestare contro posizioni che si rivelano in effetti violente non fa riferimento ad altro che alla propria libera coscienza, alla propria capacità di responsabilità, alla volontà di servire il bene comune del popolo e della nazione.
Ma oltre che questo clima di caccia alle streghe per cui in Europa si cominciano ad arrestare cittadini rei soltanto di portare una maglietta che porta l’immagine di una famiglia normale, tradizionale; oltre questo clima di pressione impositiva, colpisce gravemente e stupisce il silenzio reiterato di tutte quelle realtà istituzionali che a vari livelli e nei vari ambiti della vita sociale sarebbero tenuti a una presa di posizione significativamente dialettica nei confronti di quello che si sta sostanzialmente imponendo.
Questo silenzio non impedirà alla storia di giudicarlo come una debolezza imperdonabile, che diviene di fatto collusione e quindi corresponsabilità. Ben altri furono gli atteggiamenti che, soprattutto da parte del popolo cattolico, si tennero in momenti gravi per la democrazia del paese.
In questa prospettiva un altro fattore mi ha colpito. Ho partecipato in qualità di arcivescovo di una diocesi italiana, alla serie di manifestazioni che si sono tenute in occasione della Giornata della memoria delle ingiustizie e dei delitti compiuti nei confronti della presenza ebraica nel nostro paese. Non ho potuto evitare un certo disagio quando soprattutto nella presentazione storica degli avvenimenti – non da parte delle istituzioni, ma da parte di partecipanti a titolo di impegno culturale - si è corso il rischio di ricostruzioni parziali in cui certi fattori degli eventi così tragici erano minimizzati. Ad esempio la grande presenza della Chiesa in Italia, la difesa di migliaia e migliaia di ebrei che per questo aiuto poterono sfuggire a destini terribili. Ma aldilà di questo mi ha colpito l’esilità della speranza che si voleva costruire su questa memoria, dove spesso prevaleva un atteggiamento di rivalsa.
Su che cosa si costruisce la speranza dei giovani, un futuro buono per la nostra società?
Si costruisce sulla memoria di un passato ignobile che certo non è da dimenticare, non può essere dimenticato, ma che non costituisce una base solida su cui porre quella speranza affidabile, umanamente affidabile, di cui ha parlato il grande papa Benedetto XVI nella sua enciclica Spe Salvi?

Ho pensato amaramente in questi giorni che se il marchingegno diabolico delle ideologie e dei sistemi totalitari è stato brutalmente imposto a popoli come la maggior parte di quelli europei, che erano stati maturati da secoli di una autentica e profonda educazione cristiana e umana; che se nonostante questo i popoli subirono questa violenza, resistendo molte volte nella loro coscienza e in moltissimi altri casi anche nella espressione della loro vita culturale e sociale. Allora, se certi sistemi sono stati imposti a quel tempo, quale resistenza potrà esserci alla dittatura che si sta preparando?

Essa è una dittatura del massmediatico, del politicamente e del culturalmente corretto, che trova una tradizione cattolica ignorata dalla maggior parte dei giovani, ignorata perché la maggior parte di quelli che doveva parlargliene non gliene ha parlato in modo adeguato; trova una trama di vita sociale debolissima sul piano personale, sul piano della coscienza umana, sul piano della consapevolezza dei valori etici fondamentali; insomma trova un popolo disintegrato, che rischia di subire una dittatura senza neanche la nobiltà dell’opposizione.
Non sono riuscito a uscire da queste manifestazioni, che hanno avuto per me personalmente il valore di una grande testimonianza, con una speranza sul presente e sul futuro, se non una sola: quella di non demordere quotidianamente dal mio impegno di essere educatore del popolo cristiano alla fede, e del popolo umano con l’esperienza del fascino del vero, del bene, del bello e del giusto. Ma l’amarezza è che forse si riducono ogni giorno di più le fila di coloro che si assumono questa responsabilità. E anche qui tanto silenzio incomprensibile non potrà che essere giudicato anch’esso a suo tempo se non come un tradimento.
* Arcivescovo di Ferrara e Comacchio

Sabato della III settimana del Tempo Ordinario



L'anima che ha conosciuto il Signore non teme nulla,
eccetto il peccato,
e sopratutto il peccato di superbia.
Sa che il Signore ci ama.
E se ci ama, cosa possiamo temere ?

Silvano del Monte Athos





Dal Vangelo secondo Marco 4,35-41.

In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: «Passiamo all'altra riva». E lasciata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che moriamo?». Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?». 


Il commento

"Passiamo all'altra riva!". Una parola perentoria, una chiamata e sorge la Chiesa. Essa, nuovo Israele, nasce dalla Pasqua, dal passaggio dalle tenebre alla luce, dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita. E' sera, incede la notte, Gesù chiama a raccolta i suoi e li invita ad entrare nella barca, a sciogliere gli ormeggi, e a inoltrarsi nel mare e nell'oscurità. Notte e mare, mondo e morte, e la barca della Chiesa a solcarne le onde. Tutto si fonda sulla Parola di Gesù. Lui dice di passare all'altra riva, ed è la Verità, la roccia su cui aggrapparsi. Nel Vangelo, la Parola di Gesù manifesta la sua autorità, diversa da quella degli scribi, perchè è sempre parola che si compie. E' Parola di Dio, creatrice, che realizza quello che dice. Ma i discepoli devono imparare a conoscere il Signore. Infatti avevano preso Gesù così com'era, ma non sapevano "chi" egli fosse, come appare nella domanda che si pongono a chiusura del brano. E' Dio, e non lo sanno; è un Dio che si fa seme gettato a morire in terra, e se ne scandalizzeranno. Per questo Gesù intima ai discepoli di passare all'altra riva, perchè proprio attraverso il compimento di una parola che sembra diventare assurda e irrealizzabile, imparino a conoscerlo. Senza la conoscenza di Lui la Chiesa non esiste; gli aspetti organizzativi e giuridici, i criteri mondani ne fanno una caricatura, un'associazione filantropica tra le altre, una ONG del tutto identica alle tante, con gli stessi problemi, con le stesse preoccupazioni, le stesse perversioni che utilizzano il bene da fare per le proprie bramosie: "Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c'è spazio per lo Spirito, tanto meno c'è spazio per il Signore, e tanto meno c'è libertà(J. Ratzinger, La Chiesa, una compagnia sempre reformanda, intervento tento al Meeting di Rimini del 1990). La paradossale estraneità di Cristo dalla sua Chiesa sarà evidente quando i due fratelli Giacomo e Giovanni chiederanno al Signore di sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel Regno incipiente. Non avevano capito nulla, guardavano Gesù con gli occhi della carne, con i loro pre-giudizi, e così guardavano anche a se stessi e al loro essere con Lui. La Chiesa che dimentica la natura del suo Signore, che perde la fede nella sua risurrezione diviene come il sale che a nulla serve se non a essere gettato e calpestato. Per questo la Chiesa, appoggiata alla Parola del Signore, è costantemente in cammino, verso una conoscenza più profonda e piena del Signore, come scrive San Paolo: "Io penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve... Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana(J. Ratzinger,Ibid).

La storia stessa è il luogo dove la Chiesa viene formata e riformata, attraverso l'esperienza quotidiana della presenza viva e reale del Signore risorto. Una parola dunque, e la Chiesa si trova in mare aperto, nella notte, quando non si riesce a vedere, e le certezze umane si fanno precarie, e l'angoscia e la paura sembrano prendere il sopravvento, come le onde della tempesta improvvisa, tanto frequente sul lago di Tiberiade. I discepoli fanno l'esperienza del caos primordiale, e non comprendono d'essere dentro l'opera di Dio, la più grande, quella che crea la vita laddove regna la morte. Non comprendono che quella tempesta fa parte dell'opera divina, non è un incidente a cui porre rimedio. Le onde nella Scrittura sono sempre segno di morte. Essa è entrata nel mondo per invidia del demonio, e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono. Dio, che ha creato tutto per l'esistenza e senza veleno di morte, non ha abbandonato il mondo in preda al maligno. La storia della salvezza è la storia della fedeltà ad una promessa di riscatto e vita eterna. La barca è il Popolo nuovo della nuova ed eterna Alleanza, il suo cammino descrive l'incedere inesorabile della misericordia di DioI discepoli sono ora dentro questa promessa, ma l'hanno dimenticata. La carne preme sul loro cuore, e lo soffoca e li riempie d'angoscia. Gesù è con loro ma dorme. Ecco com'è quel profeta che li aveva chiamati alla traversata! Un uomo che dorme profondamente, reclinato sul cuscino. Lui c'è ma non fa nulla. Se è davvero il Figlio di Dio, se davvero ha il potere che dice di avere, se è stato Lui a moltiplicare pani e pesci e a guarire infermi e a scacciare i demoni, se può far miracoli e dorme, allora significa che non gli importa nulla di noi. Ecco il pensiero di chi non conosce il Signore. Gli occhi del cuore e della mente sono accecati, e non possono comprendere che proprio quel sonno è la loro salvezza, la loro assicurazione sulla vitaFinchè Lui dorme la morte non può raggiungerli, perchè si è infranta proprio nel sonno della morte del Signore, come l'onda più alta e il flutto più rabbioso, si sciolgono come burro infrangendosi sugli scogli. La morte è stata ricacciata indietro per sempre. Il sonno di Gesù strapperà il mondo dall'inferno, e la morte non avrà più potere su di loro, come non l'ha più su di Lui. Ma ora i discepoli non comprendono, e svegliano Gesù. E lo rimproverano, e desiderano credere che Lui possa fare qualcosa; lo avevano visto, e ora ne sono scandalizzati: a Lui non importa della loro sorte. Quante volte sorge in noi la stessa domanda, che diventa la preghiera di chi non conosce veramente il Signore. Nei templi pagani davanti all'immagine della divinità vi è una grande campana. I fedeli che desiderano pregare si avvicinano e cominciano a scuoterla, per svegliare il loro dio, per attirarne l'attenzione. E' la religiosità naturale, quella che tutti portiamo dentro, che appare evidente nelle parole e nell'attegggiamento dei discepoli impauriti. Quando le onde riempiono la barca e ormai si affonda e sembra che Dio non intervenga, che dorma, allora moltiplichiamo preghiere, sacrifici, offerte, perché Egli si svegli e si accorga di noi, e cambi il corso della storia secondo i nostri progetti.

E, sorprendentemente, è quello che farà il Signore. Si sveglierà e comanderà ai flutti, e ritornerà la bonaccia. Il Signore ha avuto misericordia dei suoi discepoli ed è andato incontro alla loro poca fede, come tante volte fa anche con noi. L'amore di Dio si piega alla nostra volontà, e così ci aiuta a sperimentare la nostra debolezza e incredulità, ed accende così la domanda decisiva: chi è costui? E' Dio, se anche la natura gli obbedisce, se mio figlio è stato guarito, se ho conservato il lavoro, se ho trovato casa. Ma rimane l'incertezza di quello che è solo un abbozzo di fede, quella comune a tutte le religioni. La fede adulta è ben altro. E' conoscenza, e confidenza. E' addormentarsi con Lui anche nella tempesta, anche quando la nostra vita sembra affondare. E' reclinare il capo e riposare sul legno della Croce che segna le nostre esistenze, come bimbi divezzati in braccio alla propria madre. E' l'àncora piantata dentro, lo Spirito Santo che ci testimonia d'essere figli di Dio, e quindi figli della risurrezione, coeredi della vittoria di Cristo. Tutti noi, dobbiamo imparare la fede, nella barca, attraverso le mille tempeste dei progetti naufragati, dei criteri sommersi dalle onde; la fede è un cammino sino alla piscina del battesimo dove le acque devono seppellire completamente l'uomo vecchio, prigioniero della carne e del peccato. I discepoli non erano ancora pronti a scendere nel fonte battesimale, e il Signore li ha presi per mano. Altre tempeste, altri terremoti verranno prima di ricevere il battesimo del fuoco che li renderà apostoli apostoli; altre traversate sino al buio calato su tutta la terra quel pomeriggio sul Golgota, dove vedranno il Signore crocifisso, e poi nel sonno della tomba, all'alba del suo risveglio, e al mattino della Pentecoste zampillante lo Spirito Santo. E' Lui, il Consolatore, che sigillerà indubitabilmente che Gesù Nazareno, crocifisso e sepolto, è davvero risorto ed è il Signore; è lo Spirito Santo che ricorderà loro la Verità tutta intera, le Parole di Gesù, svelando loro quel comando di passare all'altra riva come una Parola profetica compiuta nel suo Mistero PasqualeCosì, dal giorno di Pentecoste, la Chiesa potrà finalmente compiere la traversata, la Pasqua che attirerà a sé, lungo i secoli, tutte le altre barche che già nella notte del brano odierno, erano con quella dei discepoli, immagine delle Nazioni della terra. Così la Chiesa, appoggiata sulla Parola del Signore e certa dell'approdo all'altra riva, solcherà i mari di ogni generazione, discernendo con uno sguardo soprannaturale ogni evento, riconoscendo nelle onde del martirio e delle difficoltà una parte integrante e imprescindibile della sua missione. La Chiesa, come il suo Signore, deve partecipare in tutto dei destini del mondo, dei suoi fallimenti, sin dentro la morte. Così è anche per ciascuno di noi. Gli eventi che ci incalzano e che sembra ci facciano affondare non sono il segno dell'abbandono di Dio. Sono invece il luogo dove conoscere più intimamente il Signore, il paradosso del letto d'amore dove si rinnovano le nozze con il nostro Sposo. Il cristianesimo non è una religione naturale, nella quale svegliare la divinità e pregarla perchè plachi il vento e riconduca la vita alla calma che agognamo. Il cristianesimo è Cristo stesso che ha vinto la morte, e i cristiani, con Lui, entrano ogni giorno nel mare in tempesta, addormentati, abbandonati nella volontà di Dio, certi del fatto che essa è sempre per il bene di ciascuno di noi, della Chiesa, dell'evangelizzazione, e del mondo; possiamo anche noi, nella forza dello Spirito Santo e nella fede della Chiesa, sperimentare come Gesù sulla Croce, l'abbandono apparente di Dio, la sua lontananza, per farne il nostro stesso abbandono alla sua fedeltà. La notte oscura, che ha caratterizzato la storia di tanti santi, è il momento più fecondo della vita; così è stato per Gesù e per la Chiesa; così è per ciascuno di noi. E' l'amore puro, crudo, inossidabile, quello della sposa del Cantico dei Cantici che si getta alla ricerca del suo Amato che sembra essersi nascosto dopo averle rapito il cuore. E' il passaggio verso l'incontro definitivo, alla fine della traversata, sulla sponda del Cielo, dove trovare in pienezza lo Sposo, ed abbracciarlo, e non lasciarlo più: ogni giorno mossi da una Parola che ci scuote, appoggiati ad essa come al Signore stesso, sempre più intimi, più crocifissi con Lui, attraversare il mare, tra le onde, verso il porto sospirato, il destino eterno d'amore che ci attende in Cristo Gesù.

Un profeta del nichilismo


Per capire la radice di quella rivoluzione culturale che sta divorando l’Occidente può essere utile conoscere la figura e gli scritti di Aldous Huxley, il celebre nipote di Thomas Huxley, noto come “il mastino di Darwin”.
Aldous nacque nel 1894 a Lelamind, da una famiglia agiata e molto conosciuta. Suo fratello Julian sarà nientemeno che il primo direttore generale dell’Unesco. Una delle prime opere di Aldous fu il romanzo Antic Hay, che “gli procurò la fama di ateo e nichilista e fece di lui l’eroe culturale della sua generazione. Nonostante ciò, sviluppò un profondo interesse per gli argomenti spirituali. L’uomo, sosteneva, può fondersi estaticamente col Tutto meditando, alterando la respirazione e la coscienza con le droghe. La religione, nella sua componente devozionale, nell’adorazione di un Dio personale era, secondo lui, la misera copertura di queste tecniche e null’altro” (Mario Arturo Iannaccone, La rivoluzione psichedelica, Sugarco).
Le idee di Huxley, fondate appunto sul binomio religiosità orientale-esaltazione dell’uso conoscitivo delle droghe, possono essere tranquillamente considerate fondamentali per la nascita della controcultura degli anni Sessanta. Sempre Iannaccone, nel suo documentatissimo libro, scrive: “morta Maria (sua moglie), Huxley si sentì ancora più impegnato nella sua nuova passione. In un’intervista del 1955 definì l’America una nazione ‘dove la gioventù era ben nutrita ma affamata metafisicamente’, capace di raggiungere le visioni beatifiche ‘nel solo modo che conosceva’, cioè con le droghe. La profezia di Huxley sembra singolarmente preveggente, tanto preveggente che ha sollevato, in alcuni, il sospetto che le potenti elites di cui lo scrittore era espressione abbiano favorito la diffusione della droga”.
Certo è che egli fu uno dei maggiori propagandisti di quella cultura della droga che, nei versi del suo amico Osmond, permette di “sentire la profondità dell’inferno o parlare l’idioma angelico”.

Il romanzo più famoso di Huxley è senza dubbio “Brave new world”, del 1932: una descrizione avvincente di un mondo futuro in cui la riproduzione è sottoposta ad un controllo centralizzato: gli ovuli fecondati in vitro vengono conservati artificialmente, la nascita è quindi anonima (non esiste più la famiglia), e può essere plurigemina, con la capacità di ottenere fino a novantasei gemelli identici da un solo uovo. Le conoscenze genetiche permettono di studiare la riproduzione a tavolino e di creare caste di uomini superiori, fisicamente e intellettualmente, e, agendo sulla ossigenazione del cervello durante il processo di sviluppo dell’embrione, di uomini inferiori, pronti ad obbedire ed eseguire i lavori più umili. Il numero dei cittadini è fisso. L’intensità demografica viene controllata attraverso: la sterilizzazione forzata di un numero consistente di donne; le cosiddette “cinture malthusiane”, contenenti mezzi contraccettivi; un “centro di aborti” la cui attività appare alacre, visto che la castità è considerata una perversione; una sorta di eutanasia e di altri provvedimenti analoghi. La base ideologica è fornita dalla educazione sessuale nelle scuole, che elimina ogni “tentazione” alla famiglia promuovendo rapporti precoci, occasionali e continui.
Un altro romanzo meno conosciuto di Huxley è “Brave New World Revisited”, in cui tornano alcune fissazioni che lo scrittore si porterà dietro tutta la vita: il controllo demografico e l’eugenetica. In un capitolo intitolato “Qualità, quantità, moralità”, Huxley si domanda se i “mezzi buoni” dell’igiene e della medicina, portando alla salvezza di persone che altrimenti potrebbero morire, non raggiungano in fondo un “fine cattivo”, un male quale è il sovrappopolamento e “la progressiva contaminazione del fondo genetico a cui dovranno attingere i membri della nostra specie…”. “Ogni progresso della medicina- continua- sarà frustrato da un corrispondente aumento del tasso di sopravvivenza degli individui che dalla nascita portano con sé una qualche insufficienza genetica… E che dire degli organismi insufficienti per condizioni congenite, che la medicina e i servizi sociali oggi salvano e lasciano proliferare?
Sul controllo demografico Huxley torna anche nell’ultimo capitolo, dove si arriva ad auspicare l’invenzione della pillola: “La pillola non è stata ancora inventata. Quando e se la inventeremo, come si potrà distribuirla alle centinaia di milioni di madri in potenza le quali dovranno ingerirla se vogliamo ridurre il tasso di natalità della nostra stirpe?

Pillole psichedeliche, dunque, per annullare l’io, per trascendere la realtà negativa di questo mondo, e altre pillole per fermare la proliferazione cancerosa dell’uomo, rendendolo contemporaneamente libero sessualmente, gnosticamente indipendente dalla sua stessa natura . Così rivoluzione psichedelica e rivoluzione sessuale, si saldano nel pensiero di Huxley, insieme al rifiuto del cristianesimo e alla contemporanea valorizzazione della religiosità immanentistica orientale. L’opera in cui questi concetti sono ancora più chiaramente espressi è però sicuramente la meno nota: “L’isola”. Questo romanzo utopico è scritto pochi mesi prima di morire ed è quindi il suo testamento spirituale, in cui “suggerisce la ricetta per un modo migliore, una società fondata sulla droga”. “Il racconto prende l’avvio dall’approdo sull’isola di Pala del cinico giornalista Will Farnaby”, che scopre che a Pala “vige una società modello che è il risultato di una rivoluzione psichedelica, opera di uno scienziato scozzese ateo e un rajà buddista” alla metà del Diciannovesimo secolo (Iannaccone).
Vediamo allora cosa accade e come si vive su quest’isola.
Su Pala nessuno crede in Dio. Anzi non è neppure riscontrabile l’idea di un Creatore personale e trascendente. Le concezioni religiose diffuse si richiamano nei nomi e nelle simbologie all’induismo e al buddismo, ma sembra chiaro anche alle persone più semplici che si tratta soltanto di simboli emotivi atti ad esprimere l’idea di un divino immanente al mondo e all’uomo stesso. Il peccato, la sopravvivenza individuale, il Giudizio non esistono: si tratta di superstizioni proprie di concezioni monoteistiche che vedono Dio come l’Assolutamente Altro, cosa che non è affatto.
Su Pala non esistono dogmi, né una Chiesa ufficiale, né si accolgono in alcun modo missionari; “siamo…tutelati dalle calamità del papismo da un lato e del revivalismo fondamentalista dall’altro”. Non si accolgono “assurdità metafisiche da Roma o da Mosca”; anzi, viene coltivato “sistematicamente lo scetticismo”.
Nei campi di Pala sono posti, a scopo pedagogico, degli spaventapasseri raffiguranti Buddha o Dio Padre come lo si vede nella Cappella Sistina. In questo modo i bambini, che giocano a strattonare e a far muovere gli spaventapasseri con dei fili, imparano a non prendere la religione sul serio: “E’ stata un’idea del vecchio Raià… Voleva far capire ai bambini che tutti gli dei sono immaginati dall’uomo e che siamo noi a tirare i fili e ad attribuire loro il potere di tirare i nostri”. Mentre i bambini giocano, Will sente una loro canzone: “Tira, strappa, nessuno si commuove; gli dei sussultano, ma il cielo non si muove”.
Un riferimento di Will Farnaby al Sangue redentore di Cristo viene accolto da Susila tappandosi le orecchie ed esclamando: “E’ davvero osceno”. Le concezioni cristiane sul peccato, l’espiazione ecc. sono viste come “puro sadismo”. Infatti, “grazie al cielo non c’è mai stato sangue nel buddismo (…)”. Susila rabbrividisce al ricordo di un corso di storia del cristianesimo che ha frequentato: “Quale orrore! E tutto perché quel poveruomo ignorante [cioè Cristo, ndr] non seppe come attuare le sue buone intenzioni”. Negli Appunti sul bene e sul male, testo sacro dell’isola, è scritto: “A Pala (…) non esiste nulla di simile a greggi di pecore, né esistono Buoni Pastori che tosano e castrano” ; non esistono nemmeno “superstizioni che generano il senso di colpa e incitano al delitto”.
Quanto ai simboli, si tollerano quelli buddisti o induisti-shivaisti. Le cerimonie di iniziazione dei ragazzini al consumo di droga avvengono in un tempio dedicato a Shiva, offrendo canti e preghiere ad una sua statua che lo raffigura danzante. Questo avviene dopo una scalata: “i giovani scalatori offriranno la loro impresa a Shiva: in altre parole a se stessi veduti come Dio. Dopodiché, inizieranno la seconda parte della loro iniziazione: l’esperienza di essere liberati dal proprio io”, tramite, appunto, la droga. L’uso di essa conduce ad essere “inequivocabilmente se stessi, ma al contempo inequivocabilmente Dio” e a percepire “la divina vita del mondo”; nonché a scorgere “il paradosso degli opposti indissolubilmente uniti, della luce irradiata dalle tenebre, delle tenebre nel cuore stesso della luce”. I moribondi vengono “aiutati” ad essere consapevoli anche nei loro estremi momenti dell’identità profonda di tutto; la prospettiva di una sopravvivenza individuale dell’io è considerata, come già detto, una superstizione. Nel libro non si fa parola di tecniche eutanasiche, benché si dica un po’ equivocamente che i malati vengono “aiutati a morire” nel senso di accompagnati nella presa di coscienza; sembra implicito, conoscendo Huxley, che l’eutanasia sia ampiamente diffusa.
Su Pala il sesso è praticato in modo assolutamente promiscuo. L’omosessualità, i rapporti precoci, i rapporti occasionali, i rapporti con una persona diversa dal proprio partner non sono condannati, ma considerati assolutamente normali (“un tipo d’amore non esclude l’altro”, dice ad es. Rahda riferendosi all’omosessualità e all’eterosessualità). L’abbigliamento di ragazzi e ragazze è discinto e le nudità sono ostentate senza pudori. Il sesso, oltre alla funzione riproduttiva, che è peraltro non centrale, ha una funzione ludica ed edonistica: sembra finalizzato al benessere psicofisico individuale.
Il sesso ha inoltre una funzione “mistica”. Esiste una disciplina, lo “yoga del sesso” o maithuna, il cui insegnamento è di prassi in ogni scuola fin dai quindici anni, che insegna tecniche amatorie particolari. Lo scopo è fare dell’amplesso un’esperienza “contemplativa” oltreché ancora più piacevole ed appagante: “quando si applica il maithuna, l’amore profano diviene amore sacro”. Allo yoga dell’amore è intrinsecamente connesso il coitus reservatus (o “controllo delle nascite senza antifecondativi”) e l’idea di una sessualità (come quella dei bambini secondo Freud) che è diffusa in tutto l’organismo: “questo è il paradiso che ereditiamo. Ma il paradiso si perde non appena il bambino cresce. Il maithuna è il tentativo organizzato di riconquistare quel paradiso”. Come ogni altro yoga, anche lo yoga dell’amore conduce alla consapevolezza dell’identità ultima di tutto: il maithuna è contemplazione, grazie alla quale si giunge alla percezione del proprio non-io e al non-io degli altri, oltre l’individualità personale.
Poiché l’idea stessa di peccato originale è sconosciuta o considerata ridicola, nessuno vede nulla di male in tutte le espressioni della corporeità: le persone, che sanno di essere buone per natura, non hanno remore morali o sensi di colpa di alcun tipo.
Un’ulteriore funzione del sesso è quella medica: le varie tecniche amatorie sono tra l’altro studiate dai medici di Pala in un’ottica terapeutica.
Un punto fondamentale del programma politico-sociale di Pala è il controllo delle nascite. Tutti gli abitanti lo danno assolutamente per scontato. Per chi non pratica il maithuna (che implica il coitus reservatus), gli antifecondativi sono distribuiti gratuitamente dal governo: “il postino ne consegna un quantitativo sufficiente per trenta notti all’inizio di ogni mese”. Nessuno ha più di tre bambini; quasi tutte le coppie si fermano anzi a due. La popolazione aumenta dunque ad un ritmo bassissimo.
Afferma Will Farnaby: “Mantenere in vita i fanciulli, guarire gli infermi, impedire che gli scarichi delle fognature contaminino l’acqua potabile… si incomincia con il fare cose che sono ovviamente e intrinsecamente buone. E come si finisce? Si finisce con l’accrescere la somma delle miserie umane e con il porre a repentaglio la civiltà”.
La fortuna di Pala, spiega l’isolana Ranga, è di non essere stata colonizzata, come alcune isole vicine, dagli arabi musulmani nel medioevo o dai portoghesi cattolici in seguito; così la popolazione è rimasta buddista, o seguace di Shiva, quando non agnostica tantrica: “Niente porti, niente portoghesi. E di conseguenza, nessuna empia assurdità secondo la quale sarebbe la volontà di Dio che gli uomini si moltiplichino fino a precipitare in una miseria animalesca, nessuna resistenza organizzata al controllo delle nascite”.
In seguito alla fondazione della Stazione Sperimentale, voluta dal “Raià della Riforma” e da Andrew MacPhail, tra i fondatori dell’isola, nell’Ottocento, su Pala la gente cominciò a morire meno e si rischiava di avere un eccesso di popolazione: “Pala si sarebbe trasformata in quella sorta di putrida suburra che è attualmente Rendang”. Così Andrew MacPhail, che aveva letto Malthus, decise di fare qualcosa. Malthus riteneva che ci fossero due modi per ridurre la popolazione: i freni morali all’esercizio della sessualità e le grandi catastrofi naturali. Andrew MacPhail propugnò “metodi migliori, più soddisfacenti e più umani” di quelli di Malthus: gli antifecondativi, seppure ancora rudimentali. La popolazione accettò la cosa perché era buddista, “e ogni buon buddista sa che la procreazione non è altro se non un assassinio differito” (“Fa’ del tuo meglio per sottrarti alla Ruota della nascita e della morte e, per amor del cielo, non disseminare vittime superflue della ruota. Per il buon buddista il controllo delle nascite è giustificato dal punto di vista metafisico”). Agli antifecondativi si aggiunse lo “yoga dell’amore”, costitutivamente infecondo, che il “Raià della Riforma” cominciò a propagandare. Tutta la popolazione iniziò entusiasticamente a sperimentare questi metodi. “In ultimo [fu deciso] che gli antifecondativi dovevano essere come l’istruzione… gratuiti, pagati dalle tasse e, anche se non proprio obbligatori, diffusi quanto più possibile. Per coloro che sentivano la necessità di qualcosa di più raffinato, vi sarebbero state lezioni sullo yoga dell’amore” (che tra l’altro “offriva la possibilità di entrare a far parte degli eletti imparando qualcosa di esoterico”).
Lo yoga dell’amore fu accolto entusiasticamente soprattutto dalle donne, da tutte le donne, per le quali esso “significa perfezione, significa essere trasformate e liberate da se stesse [=dalla gnostica maledizione della generazione?] e completate”.
A Pala sono state sviluppate, con vent’anni di anticipo sull’occidente, le tecniche di fecondazione artificiale, applicate tuttora “su vasta scala”. “In pratica tutte le coppie le quali decidono di avere un terzo figlio ricorrono ormai alla fecondazione artificiale. E così fanno moltissimi tra coloro che vogliono fermarsi al numero due”. La fecondazione artificiale è usata non solo per evitare malattie ereditarie, ma anche per motivazioni totalmente voluttuarie: ad esempio la volontà dei coniugi di immettere nella propria famiglia “caratteri” e dunque attitudini nuove. A quanto pare è possibile scegliere di far nascere il proprio figlio con i caratteri del tal o talaltro personaggio famoso, artista, scienziato eccetera palanese. In questo modo, ad esempio, un personaggio del libro ha trentadue fratellastri e ventinove sorellastre, per oltre un terzo di un’intelligenza eccezionale perché derivano tutti geneticamente dalla stessa persona. Will commenta: “Sicché state migliorando la razza”. “Senza dubbio. Ci dia ancora un secolo di tempo e la media del nostro quoziente di intelligenza arriverà a centoquindici”, gli viene risposto. Will, a questo punto, fa un’osservazione molto importante, con tono di rammarico: “Mentre la nostra [ intelligenza media, ndr], stando al ritmo del progresso attuale, scenderà a ottantacinque. Progressi medici… e un maggior numero di deficienze congenite preservate e perpetuate. La situazione diventerà di gran lunga più facile per i futuri dittatori”.
La fecondazione artificiale non solleva alcuno scrupolo morale-religioso. Quasi tutte le coppie sposate ritengono più morale farsi praticare un’iniezione per avere un figlio dalle qualità superiori anziché esporsi al rischio di riprodurre come schiavi nella popolazione: “ tutte quelle caratteristiche spiacevoli e quei difetti che tendono a ripetersi nella famiglia del marito. Nel frattempo, i teologi si sono dati da fare. La FA [Fecondazione Artificiale] è stata giustificata nei termini della reincarnazione e della teoria del karma. I padri virtuosi si sentono ora felici al pensiero che daranno ai figli della loro compagna la possibilità di foggiare un destino migliore per se stessi e per i loro posteri”. “Un destino migliore?”. “Perché tramandano il plasma germinale di una stirpe migliore. E la stirpe è migliore perché si tratta della manifestazione di un miglior karma. Abbiamo una banca centrale di stirpi superiori; stirpi superiori con ogni varietà del fisico e del temperamento (…). E – sia detto per inciso – disponiamo di un’eccellente documentazione genealogica e antropometrica che risale al 1870”.
A partire dall’ottocentesca “Riforma”, su Pala “in una sola generazione l’intero sistema familiare fu completamente mutato”. I matrimoni continuano ad esistere; ma ad es. il termine “madre” è “rigidamente il nome di una funzione. Quando la funzione è stata debitamente assolta, il titolo decade l’ex bambina/o e la donna che veniva chiamata “madre” stabiliscono tra loro un nuovo tipo di rapporto. “Se vanno d’accordo, continuano a frequentarsi molto. Se non vanno d’accordo, si evitano. Nessuno pretende l’attaccamento tra loro, e l’attaccamento non viene posto sullo stesso piano dell’affetto… non è considerato un che di particolarmente stimabile”. “Nei brutti tempi del passato”, racconta Susila, “le famiglie palanesi erano né più né meno capaci di fare vittime, di creare tiranni bugiardi quanto lo sono le vostre oggi”. “In passato una bambina[/o] cresciuta in una simile atmosfera ne sarebbe uscita come un relitto, o come una ribelle, o come una conformista rassegnata e ipocrita. Con il nuovo ordine mi furono risparmiate inutili sofferenze”.
Ogni coppia di genitori fa parte di un CAR, o “Circolo di Adozione Reciproca”: in pratica, si tratta di gruppi di 15-25 coppie molto assortite dal punto di vista sociale-lavorativo-culturale. Quando i figli di una coppia si trovano male nella loro famiglia, è cosa normale e socialmente incoraggiata (“dietro a tale incoraggiamento sta tutto il peso della pubblica opinione”) che fuggano temporaneamente, andando a soggiornare presso un’altra famiglia del medesimo CAR: “tutti coloro che fanno parte del Circolo adottano chiunque altro”. In tal modo, come spiega Susila, “oltre ai nostri veri genitori, ognuno di noi ha la propria quota di vicemadri, vicepadri, vicezii e zie, vicefratelli e sorelle, viceinfanti, bambini e adolescenti”.
Il tipo di famiglia che ne consegue è “non esclusivista, come le famiglie dell’occidente, e non predestinato, non coattivo. Una famiglia aperta, senza predestinazione e volontaria. Venti coppie di padri e madri, e quaranta o cinquanta figlioli assortiti d’ogni età”. Quando un figlio cresce entra a far parte di un altro CAR in veste di genitore, e così via: “ibridizzazione delle microculture, ecco come i nostri sociologhi chiamano il processo. Nella sua sfera, è benefico quanto l’ibridizzazione di diversi tipi di granturco o di diverse razze di galline. Rapporti più sani nell’ambito di gruppi più responsabili, capacità affettive più ampie e comprensione più profonda”. “La famiglia del nostro tipo, quella aperta e volontaria, – spiega Susla a Will- è la famiglia autenticamente sacra. La vostra è una famiglia sacrilega”.
Quando un bambino si scoccia dei suoi genitori e va temporaneamente a stare in un’altra famiglia del suo CAR, “nel frattempo il padre e la madre vengono sottoposti con tatto a qualche terapia da parte degli altri iscritti del Circolo di adozione reciproca”: se il loro bambino è fuggito significa che in loro c’è qualcosa da correggere. Ciò peraltro non implica che i bambini cambino famiglia solo quando si trovano male con i loro genitori biologici: cambiano famiglia “ogni volta che sentono la necessità di un mutamento o di qualche nuova esperienza”, e poi tornano come se nulla fosse. In effetti, a Pala, tutto ciò è assolutamente normale.
Un episodio nel libro esemplifica il funzionamento di un Circolo di Adozione Reciproca: un bimbo di circa cinque anni, Tom Krishna, ha portato per l’ennesima volta una lucertola in casa; sua mamma, che gli aveva detto molte volte di non farlo, si è arrabbiata; Tom Krishna si è risentito e non ha fatto altro che andarsene a pranzo in un’altra famiglia del suo CAR, che ha capito quanto è successo e l’ha accolto senza problemi.
Huxley credeva veramente che Pala- in cui l’uomo ha un ottimo rapporto anche con la natura e i serpenti sono “buoni, buoni, buoni”-, grazie alla droga, all’eugenetica, alle famiglie disgregate ed allargate, eccetera, fosse il migliore dei mondi possibili. E sembra anche che volesse dar vita ad una sorta di comunità con le stesse caratteristiche.
Ma pochi mesi dopo la composizione de L’isola, come si diceva, Huxley muore, nel pomeriggio del 22 novembre 1963. Accanto a sé vuole la moglie Laura, cui chiede, come ultimo desiderio, di iniettargli nel braccio una dose di LSD: l’acido cui aveva affidato, gnosticamente, il compito di liberare l’uomo da Dio, dalla realtà, dall’io, dalla legge morale, e dalla consapevolezza, oltre che della vita, anche della morte.
 Il Foglio

Collegialità e comunione



Conclusi i lavori del Consiglio permanente della Cei. 

Promuovere una sempre maggiore partecipazione alla vita della Conferenza episcopale, stimolare la collegialità e favorire la comunione: il percorso indicato ai vescovi italiani da Papa Francesco nel contesto dell’assemblea generale dello scorso maggio ha raggiunto una prima significativa tappa nella sessione invernale del Consiglio episcopale permanente, riunito nei giorni scorsi a Roma.

Durante la conferenza stampa tenuta oggi, venerdì, nella sede di Radio Vaticana dal neo segretario generale «ad interim» monsignor Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all’Jonio, uno degli argomenti più esaminati, insieme a quelli della famiglia e della scuola, è stato proprio lo speciale rapporto tra la Chiesa che è in Italia e il vescovo di Roma.
Monsignor Galantino ha sottolineato come i lavori del Consiglio, anche in vista di una possibile rivisitazione dello Statuto della Cei, si siano basati sul materiale fornito dalle consultazioni delle Conferenze episcopali regionali, in un ascolto del territorio attento a raccogliere la voce di tutti.
Non a caso, il comunicato della Cei afferma come il cambiamento che si intende maturare per rispondere nella maniera più fedele a ciò che in questo tempo il Signore — anche per voce del Santo Padre — chiede alla Chiesa, muova dal riconoscimento di quello che rimane un patrimonio esemplare,
Quattro temi sono stati analizzati in questa sessione invernale: la valorizzazione delle Conferenze episcopale regionali, il ruolo delle commissioni episcopali, le nomine delle figure della presidenza e le procedure di lavoro dell’assemblea generale e dello stesso Consiglio permanente. Insieme, c’è stata una prima valutazione delle risposte già arrivate (circa 170 su 220 attese) da diocesi e movimenti ecclesiali al documento preparatorio della III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi.
I presuli italiani ritengono che il rapporto particolare con il vescovo di Roma vada conservato anche per quanto riguarda la sua nomina dei ruoli dirigenziali, presidente e segretario, della Conferenza episcopale, caso unico, in quanto le altre cariche sono elettive. Ma per rispondere alle sollecitazioni in merito venute dallo stesso Papa Francesco, si sta individuando un percorso di partecipazione collegiale che porti a presentare al Papa una rosa di nomi condivisi dagli episcopati tra i quali scegliere. Questo, ha ricordato monsignor Galantino, appare come un buon punto di equilibrio che tutela sia la libertà del Santo Padre, sia il rapporto particolare del presidente con il segretario generale, sia le istanze di partecipazione del Consiglio permanente e il desiderio del territorio di essere maggiormente ascoltato.
La richiesta di coinvolgimento delle Conferenze regionali porta con sé l’avvertenza da tutti fortemente sottolineata che questo non vada a scapito dell’unità della Conferenza nazionale. A quest’ultima si riconosce un ruolo decisivo, quale punto di riferimento per la comunità ecclesiale e per la società, nel suo servizio alla Chiesa e al Paese. Il Consiglio ha affidato alla segreteria generale il compito di raccogliere le proposte emerse che saranno oggetto di ulteriore approfondimento nella sessione primaverile.
Il Consiglio ha poi messo a punto una lettera-invito, in vista della manifestazione del prossimo 10 maggio in piazza San Pietro con Papa Francesco, per ribadire ancora una volta che la Chiesa in Italia pone la sua attenzione al mondo della scuola pubblica, statale e paritaria, nella sua interezza. Sull’argomento, monsignor Galantino ha voluto sottolineare che, a onta di tanti titoli di stampa, questo non significa chiedere soldi per la scuola paritaria cattolica.
Così come un’attenzione particolare delle istituzioni dello Stato viene sollecitata per la famiglia, dato che — ha detto ancora il vescovo Galantino — a volte sembra che la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (tra l’altro tutelata costituzionalmente) debba scusarsi di esistere.
Ai vescovi è stato anche presentato, per un’ultima approvazione, il testo delle «Linee-guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici» come risultante dalle indicazioni e dai suggerimenti della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Infine, il Consiglio ha proceduto ad alcune nomine tra le quali quella di monsignor Nunzio Galantino a rappresentante della Cei nel Consiglio di amministrazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Monsignor Domenico Pompili è stato confermato come sottosegretario della Cei, donec aliter provideatur.
L'Osservatore Romano

Un frutto e una promessa di fraternità cristiana




Nel documento della Commissione teologica internazionale su monoteismo e violenza. 

(Philippe Vallin)
L’esercizio contemporaneo della riflessione teologica, nella Chiesa cattolica, si trova di fronte a una duplice sfida che illustra bene l’impresa affidata alla nostra sotto-commissione. Da una parte, la mobilità dei fenomeni religiosi e l’inedita pubblicità che i nuovi mezzi di comunicazione apportano loro fanno circolare tra l’opinione pubblica una quantità enorme e allo stesso tempo nebulosa di conoscenze e di emozioni provenienti dal registro delle credenze. Del resto non è facile discernere tra tutte queste espressioni quelle la cui sostanza è autenticamente religiosa e quelle la cui apparenza religiosa potrebbe essere utilizzata, anzi deviata, verso fini non religiosi.Mentre il passato aveva racchiuso in compartimenti più o meno stagni le esperienze vissute in ogni religione e, a partire da qui, le successive riflessioni che le società interessate potevano trarne, soprattutto negli ambienti colti, la situazione attuale offre lo spettacolo di un’abbondante circolazione dei fenomeni religiosi, a volte un po’ selvaggia. Inutile approfondire qui ciò che ognuno può constatare ogni giorno; la giusta interpretazione di questi mille linguaggi di credenze, di status e di autorità variabili oscilla tra la confusione di Babele e la trasparenza di Pentecoste. Ma è indubbio che la posta in gioco del dibattito e del chiarimento razionali condiziona la pace tra gli uomini, la fraternità di tutta la famiglia umana. A quanto pare, più l’informazione circola più porta con sé approssimazioni o controsensi.
Un altro fenomeno ha d’altronde assunto uguale rilievo: lo studio scientifico delle religioni nelle facoltà universitarie che vi si dedicano ha moltiplicato i suoi spartiti, in chiave storica, etnografica, filologica, o secondo i metodi della psicologia e della sociologia religiose. Questo sviluppo, senza alcun dubbio, è stato originato da un rinnovato interesse per un asse organizzativo della vita collettiva e personale, la religione. Le menti meno prevenute capivano bene che la razionalità scientifica, in generale, non avrebbe guadagnato nulla dal ridicolizzare le produzioni simboliche, estetiche e filosofiche della religione. Lo testimonia il considerevole sviluppo della filosofia della religione come riflessione fondamentale dell’antropologia. In molte culture moderne, il cui vigore si era come armato sia nella critica opportuna e inopportuna delle religioni sia nella certezza della secolarizzazione delle società, si è incominciato a produrre un equilibramento che sembra aver avuto come conseguenza semi-felice il fatto che la caricatura, il disprezzo a priori, anzi l’aggressività, hanno disertato l’anfiteatro della cultura colta, per essere questa volta abbandonati agli scenari della sottocultura mediatica.
Non ci si deve sbagliare sulla tonalità d’umore attribuita alla duplice descrizione precedente: anche se la rapidità e talvolta la brutalità della ricomposizione religiosa sulla superficie della terra possono sconcertare i discepoli di Cristo, come d’altronde tutti gli uomini di buona volontà, la Chiesa vuole attingere da qui la speranza gioiosa di un annuncio più “aggiustato”, più specifico, del mistero di salvezza che la Trinità le ha dato come missione da proporre alle nazioni. Poiché essa considera tutto il valore della razionalità nell’atto di fede, non può che rallegrarsi di questa occasione realmente provvidenziale che abbatte le barriere dello spazio delle credenze e che, con un uguale movimento meno percepito, abbatte anche le barriere della successiva riflessione il cui oggetto era stato il fenomeno religioso. Successiva riflessione della teologia delle religioni i cui approfondimenti recenti hanno saputo onorare, con maggiore lucidità antropologica, con più pazienza e più rispetto evangelici, e semplicemente con maggiore realismo storico, l’immensa esperienza religiosa delle comunità umane. Qui, ammettiamolo, il pensiero cristiano si è ricordato meglio del paziente sguardo del suo Signore (Giovanni, 4, 20-26) che al tempo dell’apologetica spicciola contro le idolatrie. Ma, guardandola più da vicino, la successiva riflessione delle scienze religiose avrà dovuto abbattere anche le proprie barriere, per estendere ad altre percezioni il rapporto originario con la credenza che queste avevano ricevuto da un contesto storico troppo particolare: un’intera storia delle religioni, per esempio, nelle facoltà universitarie, era dipesa dalle opzioni della geopolitica coloniale. Ci si può chiedere se lo strano favore che ha riscontrato il fatto politeista in alcune retoriche dell’ideologia contemporanea non risponda a una sorta di reflusso geopolitico mediante il quale si vogliono abbattere i presupposti culturali della superiorità occidentale: questi di fatto erano stati associati alla descrizione estrinseca di un monoteismo di progresso attraverso una razionalità scientifica con fini secolarizzanti. La nostra insistenza sulle conquiste del pensiero filosofico, integrate nella tradizione teologica, mostra come ci si può sempre astrarre da queste interferenze contingenti.
La nostra ricerca si è dunque confrontata con l’amplificarsi di una tematica un po’ invasiva — la violenza del monoteismo in quanto tale — amplificarsi che sembra essere stato prodotto proprio dall’abbattimento delle barriere appena ricordate. La parte relativa alla polemica non era di nostra diretta competenza, se si ammette che i movimenti di opinione sono oggi capaci, specie in questi campi, di pulsazioni erratiche che sfidano l’esame razionale. Dovevamo soprattutto cogliere la grazia di un momento promettente per la Chiesa: poiché per natura integra la razionalità nel percorso di fede, questa è completamente aperta alla conversazione argomentata e contraddittoria che l’espressione della sua dottrina deve intrattenere con i ricercatori di scienze religiose. Non è un male che essi si siano posti, con buon metodo, in una posizione che noi riteniamo estrinseca rispetto all’interiorità della rivelazione sovrannaturale a cui noi aderiamo ab intra. Per la nostra questione, dovrebbe risultare ben chiaro che i concetti estrinsechi di “monoteismo” e di “politeismo”, pur implicando un valore di classificazione concettuale, di tassinomia scientifica, non ricoprono indubbiamente l’intero spazio di comprensione del mistero del Dio unico, del quale l’autorivelazione di Dio e la metafisica a Lui immanente ci hanno aperto la magnifica visione. La conseguenza più importante è: un altro Dio fa un altro uomo di modo che in Gesù, vero Dio e vero uomo, la Trinità, secondo la sua unità consustanziale così misteriosa, inaugura nell’unica famiglia umana la novità di una comunione inaudita.
Attenzione, la conversazione che abbiamo voluto intrattenere con la razionalità estrinseca dello studio scientifico non ci avrà lasciati indenni, come se avessimo posato la nostra Verità sovrannaturale sul tavolo nel suo cofanetto prezioso e chiuso, senza sforzarci di arricchirci ulteriormente nel dibattito. Interrogato dall’esterno, il Vangelo della Santa Trinità mostra in modo nuovo le sue innumerevoli luci e dolcezze, soprattutto per chi ha il compito di annunciarlo dall’interno. Siamo noi, i discepoli del Signore, che per primi non ci rallegriamo abbastanza del nostro Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, e di questo amore di agape che Egli ci spinge a diffondere per l’irrigazione vivificante delle relazioni umane. La vocazione originale della Commissione teologica internazionale, la sua composizione e il suo metodo, hanno accompagnato il lavoro affidato alla nostra sotto-commissione. Si può immaginare come la risonanza stessa dei termini che il soggetto ci aveva obbligato a far circolare tra noi (religione-i, violenze religiose, ateismo, eccetera) sarebbe fortemente contrastata secondo i contesti teologici e accademici di un teologo cinese, di un teologo libanese, di un altro, colombiano, di un esegeta nigeriano che insegna negli Stati Uniti, di due domenicani svizzeri tanto abituati per natura, ma soprattutto linguisticamente, a ordinare l’uno e il multiplo, il monos e il polus. L’italiano ci ha instancabilmente accolti nel suo carisma di comunione semantica, mentre il nostro segretario spagnolo ci ha ricordato l’esigenza di chiarezza, di equilibrio antropologico e di forza evangelizzatrice del documento. Poiché il lavoro della teologia non è solo sincronico, il nostro confratello irlandese si è messo al servizio della memoria degli insegnamenti ecclesiali. In breve, se lo sviluppo storico della rivelazione testimonia chiaramente un’intenzione di poetica concertante, sarebbe vano sperare di riceverla nella fede, per comprenderla e per condividerla, senza la messa in atto di un’ermeneutica concertante.
Invitati a riunirci per un lavoro di fraternità teologica che sappia onorare il «Primogenito di una moltitudine di fratelli», e offrire a tutte le menti le verità della fede nel Dio Trinità, abbiamo iniziato tra fratelli a scambiarcele nel più profondo dei nostri cuori: possano i nostri sforzi di convergenza espletarsi, a beneficio dei nostri lettori e con la grazia di Cristo, fino alla comunione effettiva nella sua Verità!
L'Osservatore Romano

Don Bosco per amico



Messa del vescovo Vérgez Alzaga per L’Osservatore Romano e la Tipografia Vaticana nella festa del fondatore dei salesiani.

Redattori, grafici, fotografi, tipografi — ciascuno con le proprie competenze — lavorano «al servizio del Papa e della Chiesa». E con la loro opera possono rendersi «benemeriti della società, della religione, e far bene all’anima», specialmente quando offrono a Dio «le quotidiane occupazioni».
Ha usato le stesse parole di san Giovanni Bosco, il vescovo Fernando Vérgez Alzaga, segretario generale del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, nel rivolgersi ai responsabili e ai dipendenti della Tipografia Vaticana e dell’Osservatore Romano presenti alla celebrazione eucaristica, presieduta venerdì mattina, 31 gennaio, memoria liturgica del fondatore dei salesiani, nella chiesa di Maria Madre della famiglia, nel palazzo del Governatorato.
I ricordi personali si sono intrecciati con il commento della liturgia della Parola. Il presule ha ricordato infatti che, quando era segretario del cardinale Eduardo Francisco Pironio, frequentava spesso la comunità salesiana, con la quale il porporato argentino aveva un vincolo di ammirazione e affetto. Ha anche confidato di essere personalmente legato a don Bosco fin dall’infanzia, in quanto i suoi fratelli maggiori sono stati alunni dei collegi salesiani. Proprio grazie a loro ha iniziato a conoscere don Bosco. «La sua vita e la sua testimonianza — ha detto — continuano ad affascinarmi e in lui ho sempre trovato un padre, un maestro, ma anche un amico».
Monsignor Vérgez Alzaga ha sottolineato poi come la parola di Dio metta in risalto il messaggio che il santo dei giovani ha vissuto, predicato e testimoniato. In primo luogo «la gioia e l’affabilità che devono caratterizzare il servizio della Chiesa e di ogni cristiano verso tutti gli uomini». Per questo, la festa di don Bosco è «un soffio di aria pura e di slancio apostolico, perché egli ispira e comunica la gioia». Una gioia che nasce «da un cuore carico di amore per Cristo e per ogni persona, che trova in don Bosco un modello di vita». Siamo chiamati — ha detto il presule — «ad accogliere con serietà, vigore spirituale e pedagogico l’esempio di vita e di missione di san Giovanni Bosco, ognuno nel proprio lavoro, nello svolgimento dei propri compiti». Allo stesso tempo, ha aggiunto, «dobbiamo essere consapevoli che dobbiamo estendere la luce ricevuta con la nostra personale testimonianza».
Don Bosco, ha sottolineato monsignor Vérgez Alzaga, «in ognuno ha saputo sempre scorgere quel bene che c’era nel cuore, non valutando soltanto i comportamenti esterni, ma facendo leva su quell’appello interiore che esiste nell’animo di tutti». Purtroppo, ha aggiunto, «la nostra vita, oggi, è spesso priva dei veri valori di riferimento, di forza di testimonianza coerente, di ideali per cui impegnare la vita». Ma l’esempio di Papa Francesco, che come don Bosco, «invita tutti noi a sentirci capaci di fare cose grandi e meravigliose», permette di renderci «protagonisti in prima persona della nostra crescita nella gioia e nel costante rinnovamento della vita». Senza dimenticare l’amore verso i poveri, i quali venivano accolti dal santo piemontese nei suoi oratori, dove egli, «spinto dalla sua carità instancabile e senza esclusione di persone, curava non solo i corpi, ma anche le anime».
All’inizio della messa, don Sergio Pellini, direttore della Tipografia Vaticana Editrice L’Osservatore Romano, ha rivolto ai presenti un breve saluto, ricordando la ricorrenza del bicentenario della nascita di don Bosco, che si celebrerà il 16 agosto 2015, e affidando al santo le preoccupazioni, le fatiche e le speranze di quanti lavorano nella Tipografia Vaticana e nell’Osservatore Romano, così come quelle dei salesiani che festeggiano il 76° anniversario della loro presenza in Vaticano al servizio del successore di Pietro.
Insieme con il vescovo Vérgez Alzaga e con don Pellini hanno concelebrato i salesiani Marek Kaczmarczyk, direttore commerciale della Tipografia, e Pierantonio Polledro, e il gesuita Władisław Gryzło, incaricato dell’edizione polacca del nostro giornale. Erano presenti, tra gli altri, Giovanni Battista Dadda, Livio Gualerzi e Giuseppe Mascarucci, del Consiglio di sovrintendenza; Luciano La Camera, Francesco Perrotta e Giorgio Ciccioriccio, del Collegio dei revisori dei conti; Domenico Nguyên Duc Nam, direttore tecnico, e Antonio Pacella, direttore amministrativo; Domenico Giani, comandante della Gendarmeria Vaticana; il vice direttore e il direttore del nostro giornale. Ha animato la liturgia il coro del Vicariato vaticano, diretto da Temistocle Capone.
L'Osservatore Romano

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Le intuizioni educative ed evangelizzatrici di Don Bosco

Intervento del rettore della PUL al Simposio "Educazione e la nuova evangelizzazione

Di seguito la parte iniziale dell’intervento pronunciato venerdì 31 gennaio 2014 dal Rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense, monsignor Enrico dal Covolo, al Simposio “Educazione e nuova evangelizzazione”, che si conclude oggi a Roma.
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Il tema che mi è stato assegnato – proprio oggi, nella memoria del Padre e maestro dei giovani: perché così Don Bosco fu solennemente definito dal santo Papa Giovanni Paolo II – è senz’altro un tema molto bello, ma assai ampio da trattare. E noi non abbiamo troppo tempo a disposizione…
Del resto, con estrema onestà, conviene subito precisare che Don Bosco non fu un pedagogista nel senso scientifico di questo termine. Voglio dire, egli non elaborò dei trattati di pedagogia. 
Sì – come tutti sanno – egli scrisse nel 1877 quello che viene chiamato comunemente il trattatello su Il sistema preventivo nella educazione della gioventù. Il suo esordio è illuminante: «Più volte – scrive Don Bosco – fui richiesto di esprimere verbalmente o per iscritto alcuni pensieri intorno al così detto sistema preventivo, che si vuole usare nelle nostre case. Per mancanza di tempo non ho potuto finora appagare questo desiderio, e presentemente volendo stampare il regolamento che finora si è quasi sempre usato tradizionalmente, credo opportuno darne qui un cenno che però sarà come l’indice di un’operetta che vo preparando se Dio mi darà tanto di vita da poterlo terminare».
Tale operetta, purtroppo, non fu mai pubblicata, e perciò dobbiamo accontentarci di quest decina di pagine premesse al Regolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales (Torino, Tipografia Salesiana 1877, pp. 3-13 [Opere Edite 29, 99-109]).
Personalmente, dopo tanti anni di vita salesiana, sono convinto che l’approccio più plausibile a Don Bosco educatore vada condotto non tanto sulla sua  teoria pedagogica, bensì sulla sua prassi esistenziale. 
Così preferisco affrontare due argomenti precisi, che toccano più da vicino Don Bosco come testimone vivente di intuizioni educative ed evangelizzatrici. 
Il primo argomento riguarda l’amorevolezza salesiana, “punta di diamante” del metodo educativo (o sistema preventivo) di Don Bosco; il secondo riguarda invece la storia stessa della vocazione di Don Bosco, una via di santificazione per ogni educatore.
1. L'amorevolezza salesiana
Mi introduco a questo tema con un riferimento alla situazione del nostro tempo, richiamando quei «segni dei tempi», a cui, come educatori, dovremmo essere sempre attenti, nell'esercizio della nostra missione.
L'amore figura come «la punta emergente» nella graduatoria dei valori espressa da un campione di 1000 giovani italiani. Alla domanda: «Quale valore ritieni in assoluto il più importante?», il 99% dei mille ragazzi intervistati ha risposto: «L'amore. L'amore è quel valore che, unico, mi ripaga della fatica del vivere».
Sergio Zavoli commentava che questa generazione è, probabilmente, la più «amorevole» che sia mai esistita. Ma poi, da persona intelligente, avanzava un dubbio: chissà se con la parola amore tutti questi giovani intendono alludere alla medesima realtà? Amore è parola abusata, persino logora...
Che cos'è in profondità questo amore, di cui i giovani di sempre (e non solo loro) sono assetati, e quelli di oggi sembrano esserlo in maniera particolare?
E' certo che chi intende raccogliere la missione educativa di Don Bosco, e in particolare l'eredità della sua amorevolezza, non può rimanere indifferente di fronte a questa domanda d'amore dei giovani d'oggi.
D'altra parte, è questo uno di quegli interrogativi (che cos'è l'amore) dinanzi ai quali chi tenta una risposta si sente subito inadeguato. Quasi gli sembra presuntuoso e ridicolo qualsiasi tentativo.
Tuttavia cercheremo di dire qualcosa, prendendo come punto di partenza qualche riflessione di E. Fromm. 
(...)
Per leggere il testo completo dell’intervento di mons. Enrico dal Covolo si può cliccare qui.

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C'è del buono a questo mondo...
di Marco Pappalardo | 31 gennaio 2014 
Don Bosco scelse di puntare sul buono che c'era nei ragazzi, partendo proprio dagli ultimi e incontrandoli con il volto del Risorto

Sam: «È come nelle grandi storie, padron Frodo, quelle che contano davvero, erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi sapere il finale, perché come poteva esserci un finale allegro, come poteva il mondo tornare com'era dopo che erano successe tante cose brutte; ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest'ombra, anche l'oscurità deve passare, arriverà un nuovo giorno, e quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, anche se eri troppo piccolo per capire il perché, ma credo, padron Frodo, di capire ora, adesso so: le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l'hanno fatto; andavano avanti, perché loro erano aggrappati a qualcosa».
Frodo: «Noi a cosa siamo aggrappati Sam?».

Sam: «C'è del buono in questo mondo, padron Frodo: è giusto combattere per questo!».
(Dal film "Il Signore degli anelli - Le due torri").
Chi educa non può che crederci: "C'è del buono a questo a mondo"! Crederci è combattere nelle "Terre dell'educazione", tutti i giorni, la buona battaglia per ogni giovane che viene posto sulla propria strada:
Stefania che a 20 anni è morta di leucemia, ma qualche giorno prima ha voluto salutare tutte le persone che le erano state vicine. Sul letto della sua stanza, consumata dalla malattia nel fisico, non ha mai smesso di sorridere e ha fatto al suo prof. la domanda più difficile che abbia mai ricevuto: «Prof, ma in Paradiso soffrirò ancora?»;
Giada che, facendo una sera - come ogni lunedì - volontariato con gli immigrati e i senza dimora, riceve 5 euro da un povero anziano contento a cui aveva dato un po' di sollievo, quasi fosse sua nipote. Da allora quella banconota è incorniciata e appesa nella sua camera per ricordarle ciò per cui è importante vivere;
Gianni che a scuola il suo prof. ogni giorno trovava a fumare nascosto nei bagni e da allora non smette di telefonargli in tutte le feste per fargli gli auguri;
Milena che, dopo una giornata difficile a scuola con una classe, raggiunge in corridoio la prof., le dà una pacca sulla spalla e dice con un gran sorriso: «Stia serena»;
Gigi che, una mattina al campo estivo dell'oratorio, vedendo il don preoccupato poiché la giornata era piovosa, gli dice: «Don, di che ti preoccupi? L'importante è che il sole ce l'abbiamo dentro»;
Rosario, detto Saro, che tutti gli animatori rimproveravano all'oratorio, ma nessuno per mesi e mesi gli aveva mai chiesto come si chiamasse;
Chiara che non si sente voluta bene da nessuno, vomita ciò che mangia e questo riesce a raccontarlo solo in chat a suor Agnese per lunghe ore la sera;
Giuseppe, orfano di padre, che oggi è laureato e ha pubblicato una raccolta di poesia realizzando un suo piccolo sogno e chissà quante soddisfazioni lo aspettano ancora.
Allora ogni vita è una storia grande, di quelle che contano davvero e per poter vivere è necessario essere aggrappati a qualcosa, a Qualcuno. In questo mondo, nonostante tutto, c'è qualcosa di buono per cui vale la pena impegnarsi! Don Bosco scelse di puntare sul buono che c'era nei ragazzi, partendo proprio dagli ultimi e incontrandoli con il volto del Risorto, che è un volto che manifesta bontà e gioia. E gli educatori possono solo restare a guardare o ammirare quanto fatto da altri?
Certo ad alcune situazioni dovrebbero pensarci le istituzioni, ma non è forse vero che la prima "istituzione" è proprio l'uomo e che non saranno certo le istituzioni ad andare in Paradiso o da qualche altra parte più giù? Nei luoghi in cui non si è presenti educativamente, ci saranno altri pronti a rubare il cuore e la serenità ai giovani, offrendo il marcio a buon mercato e travestito di buono. In ognuna delle "Terre dell'educazione" si è chiamati a stare con uno sguardo da "risorti", con la gioia di chi ha incontrato Gesù Cristo, perché - se si è tristi - vuol dire che si è incontrato qualcun altro! Gesù poteva mai essere un uomo triste? Chi avrebbe mai seguito un giovane con il muso lungo, chi avrebbe mai passato del tempo con lui? E come educatori che sguardo c'è sulla realtà? C'è la certezza che il bene è più contagioso del male? Si crede che una foresta intera che cresce possa fare più rumore di un albero che cade? Si sogna che chi nasce tondo possa morire quadrato al di là di tutte le leggi della geometria? Ci s'impegna affinché da ogni sogno possa nascere un progetto di vita?

Non si andrà in Paradiso perché papa Francesco testimonia e vive la povertà e l'attenzione agli ultimi, non ci basterà dire a San Pietro: «Siamo amici di papa Francesco». Funzionerà forse un po' come in certe discoteche o locali dove si entra solo se accompagnati, dove la ragazza entra gratis in coppia! L'educatore entrerà in Paradiso solo accompagnato dai giovani cui avrà voluto bene; saranno loro il pass, saranno loro il biglietto di ingresso.
Vino Nuovo

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Don Bosco non è solo dei salesiani: è un cittadino d'Italia e del mondo

In una conferenza internazionale sarà discussa la figura del santo piemontese in vista del bicentenario della nascita

"Don Bosco appartiene a tutti, dobbiamo rilanciare il suo messaggio al mondo”. Con questa frase don Claudio Belfiore, presidente  del Cnos (Centro Nazionale Opere Salesiane per lo sport), vuole invitare i  giornalisti alla conferenza stampa internazionale sul bicentenario della nascita del santo piemontese (1815-2015), in programma giovedì 6 febbraio alle 11.30 presso la sede della Stampa estera (via dell’Umiltà 83) a Roma.
Il bicentenario della nascita del santo “è una ricorrenza che, noi salesiani stiamo preparando da circa tre anni – afferma Don Claudio - ed è l’occasione per ripresentare la figura di Don Bosco, come personaggio che ha cambiato il mondo attraverso l’opera educativa. I salesiani sono infatti presenti in 140 nazioni del mondo, anzi forse di più”.
“Siamo una realtà molto consistente e diffusa - continua Belfiore -. Se poi consideriamo tutti coloro che sono stati coinvolti dal messaggio di don Bosco, parliamo di milioni di persone sparse nel mondo e nei cinque continenti (cito, ad esempio, le Figlie di Maria Ausiliatrice, gli ex allievi). Per tutti questi motivi riteniamo che Don Bosco non sia un ‘personaggio nostro’, pur essendo il nostro fondatore: è un personaggio della Chiesa ed è un cittadino d’Italia e del mondo, che attraverso l’educazione e l’aiuto ai più deboli si è avvicinato a culture molto diverse”.
“Abbiamo pensato di organizzare la Conferenza nella sede della stampa estera perché volevamo favorire una grande apertura internazionale - continua il sacerdote -. Il motivo della partecipazione di un giornalista, lo dice la sua nazione stessa e cioè se nel suo stato è presente l’opera salesiana”.
Oggi c’è più che mai bisogno di rilanciare l’opera di Don Bosco: “È necessaria che un’attenzione educativa a tutti i livelli venga svegliata, sia in famiglia che nelle istituzioni. Attenzione educativa - secondo Belfiore - vuol dire educazione alla Persona. Senza questa non avremo futuro: dobbiamo preoccuparci di come gli individui maturano, si relazionano e costituiscono la società civile. L’opera salesiana dà importanza ai giovani, quella parte di umanità, che don Bosco definiva la porzione più preziosa e più delicata dell’umana società, da cui dipende il futuro di una società stessa”.
“L’esperienza odierna ci fa pensare che l’attenzione ai più giovani è in continuo ribasso. Qual è il futuro della gioventù e quindi quello dell’umanità? Papa Francesco ha più volte ricordato che la cura dei giovani e degli anziani determina il valore che diamo al futuro e al passato della nostra società. Gli anziani sono la memoria, la tradizione, i giovani sono il futuro. E in questo momento tali categorie sono, come dice papa Francesco, “alle periferie”. Il teologo Dietrich Bonhoeffer ha poi affermato: "Il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini", ha concluso il salesiano.
È stato invitato a moderare la conferenza stampa, Antonio Preziosi, direttore del Giornale Radio Rai e Radio 1. Don Pascual Chávez, nono successore di don Bosco e Rettor Maggiore dei Salesiani, presenterà le iniziative e gli avvenimenti più importanti che contrassegneranno l’Anno del Bicentenario. Si segnala la presenza di monsignor Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Cristina Chiabotto, Miss Italia nel 2004 porterà la sua esperienza di ex allieva salesiana, e Flavio Insinna, parlerà infine della figura di Don Bosco, dopo l’interpretazione dell’omonima miniserie televisiva nel 2004.
Giorgia Innocenti

La République contro il cristianesimo



“In Francia c’è una guerra civile, République contro cristianesimo”

Di Giulio Meotti – Il Foglio, 31 Gennaio 2014
Parla Pierre Manent. Filosofo, cofondatore di Commentaire: “L’avanguardia dei diritti mira solo a
promuovere una nuova innocenza”

“Quella che chiamano laïcité è la formulazione giuridica di una guerra civile vinta da una
parte e persa dall’altra. La Francia repubblicana ha soggiogato la Francia cattolica e la Francia
cattolica lo ha accettato. Oggi viviamo il seguito di quella guerra civile”. Nessuno meglio di Pierre
Manent, cofondatore della rivista Commentaire, animatore del Centre Raymond Aron in boulevard
Raspail, autore di saggi chiave sul liberalismo, studioso versatile in grado di commentare il “De
Officiis” di Cicerone o la “Teoria dei sentimenti morali” di Adam Smith, passando per la “Summa
Theologiae” di Tommaso, può avere un punto di vista adeguato per analizzare quello che ormai
appare come uno scisma nel liberalismo occidentale che risale alle due rivoluzioni fondatrici. In
Francia gli illuministi detestavano Dio, mentre i Padri fondatori americani divisero la chiesa dallo
stato per proteggere la prima dal secondo. In Francia si vuole fare il contrario.

Abbecedari laicisti affissi sulla facciata di tutte le scuole, corsi obbligatori di educazione
sessuale per bambini di sei anni, progetti di riforma del calendario con l’introduzione di giornate
secolariste al posto di festività cattoliche, leggi che imbavagliano la libertà d’espressione
sull’aborto, militanti della Manif pour Tous arrestati perché protestano in silenzio: la Francia freme
di una “laïcité” combattente. Anne Coffinier, direttore generale della Fondazione per la scuola, ha
dichiarato che la Francia sta tornando a una sorta di petainismo dello “stato educatore”. L’appello
“Un giorno al mese senza scuola” sta causando molte assenze nelle scuole e prende di mira il
progetto sperimentale contro il sessismo a scuola del ministero dell’Istruzione, accusato di voler
imporre la “teoria dei generi sessuali” sin dalla materna. Un’accusa che per il ministro
dell’Istruzione Vincent Peillon “è completamente falsa”.

“Il governo socialista ha dato vita a una nuova ideologia progressista”, dice al Foglio Pierre
Manent: “Una ideologia in cui la democrazia è stata completamente svuotata di significato e ridotta
a una sequela di diritti individuali. Si è persa ogni idea del reale. Si tratta di una visione aggressiva
dell’uguaglianza e della libertà, l’idea di una vita senza più legami con il bene pubblico. Contano
soltanto i diritti individuali, il desiderio. Alcuni socialisti pensano di essere l’avanguardia civile e
morale.

Questi poteri parlano per conto di un uomo nuovo, che non vuole avere niente a che fare con
la vera storia d’Europa, la lunga battaglia tra le nazioni, le religioni e le dottrine filosofiche. Il suo
unico programma è quello di preservare e promuovere la sua nuova innocenza. Questo ha portato a
una disperazione nella vita pubblica francese e a un odio per la chiesa cattolica e il suo messaggio di
unione del paese. C’è ansia nelle strade e nelle famiglie, c’è rabbia, sconforto”. Prendiamo le
Femen, che irrompono anche nelle chiese francesi col loro messaggio iconoclastico e anticristiano.
“Perché non sono state perseguite da polizia e magistratura? La Francia è tornata a essere
ferocemente anticristiana”. Secondo Manent, non è in gioco la “laïcité positive” della religione
civile americana, né la “laïcité identitaire” dei conservatori europei, ma la “laïcité d’opposition”,
militante e aggressiva. “La laïcité francese è sempre stata l’espulsione della chiesa dallo spazio
pubblico, un progetto che ha avuto successo offrendo ai cittadini un nuovo codice morale”, dice
Manent. “E in questo progetto, la chiesa è concepita come nemica della République”.
Il monito tradito di Montesquieu 

In “La Cité de l’homme” (ed. Fayard), il sociologo francese ha già spiegato il paradosso 
dell’occidente, dove il rifiuto della religione e della legge naturale in nome dell’autonomia statale 
porta a smarrire il senso stesso dell’umano. “Tenere la religione fuori dalla sfera pubblica 
indebolisce la nazione e la sua coscienza”, ci dice Manent. “La democrazia non è più una polis, ma 
una mera rivendicazione di nuovi diritti. Lo ha detto chiaramente il ministro Peillon, un filosofo 
professionale prima di salire al governo: ‘La Rivoluzione francese non è finita’. 
La laicità deve diventare una religione che prenda il posto dell’oscurantismo cattolico, Peillon dice 
che è come ‘una nuova nascita, una transustanziazione che opera nella scuola e per la scuola, la 
nuova chiesa con i suoi nuovi ministri, la sua nuova liturgia e le sue nuove tavole della legge’. In 
nessun altro paese d’Europa il secolarismo si era mai posto l’obiettivo di spazzare via la religione e 
imporre ai cittadini l’obbligo di aderire alla laicità. E’ un progetto pericoloso, perché come diceva 
Montesquieu, l’uniformità è sorella del dispotismo”.

Il dilemma del cattolicesimo latino americano


Leggere oggi, nell’Occidente che ha vissuto il dramma del comunismo e certo pauperismo “cristiano”, alcuni passaggi dei padri della Chiesa, potrebbe risultare ingannevole e fuorviante. Se non si inquadrano bene senso e contesto. Siamo in un impero, quello romano, in disfacimento morale, dove il divario tra ricchi e poveri è incredibile e l’ingiustizia sociale raggiunge picchi mostruosi. Troviamo persone che non hanno da mangiare, ed altre che vivono di bagordi, di divertimenti, con migliaia di schiavi a disposizione. In questo contesto possiamo capire meglio l’insistenza continua dei primi cristiani sull’importanza dell’aiuto ai poveri: persino frasi come “di ciò che tu possiedi, nulla è tuo” e gesti eclatanti, come quello del vescovo sant’Ambrogio, il quale, al pari di altri confratelli, fonde i vasi sacri della Chiesa per riscattare dei prigionieri. E spiega, a chi lo critica, che “se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno”, perché è “meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo”. Similmente, san Giovanni Cristostomo può scrivere: “Il sacramento non ha bisogno di preziosi metalli, quanto piuttosto di anime pure. Viceversa, i poveri sì che richiedono molta cura. Impariamo dunque…a onorare Cristo come egli vuole essere onorato…perché Dio non ha necessità di coppe d’oro, ma di anime d’oro…Che vantaggio ne deriva al Signore dal fatto che la sua mensa sia piena di coppe d’oro, se egli si consuma per la fame?”.
Queste frasi, lo ripeto, vanno comprese nel loro significato profondo: non vanno lette alla luce di dottrine allora inesistenti, come il marxismo, o la teologia della liberazione, e neppure vogliono essere un invito alla sciatteria liturgica e al disprezzo dell’arte come nutrimento, anch’essa, dello spirito. Conclude il Crisostomo: “Saziate prima la sua fame (la fame di Cristo, impersonato dal povero, ndr), e solo poi, se avanza, adornate la sua mensa”.
Questa breve introduzione per inquadrare un fatto e un problema tipico del cristianesimo latino americano. Spesso, a noi occidentali, abituati da tempo a tanta ricchezza materiale e ad altrettanta povertà spirituale, può apparire difficile il linguaggio di uomini di Chiesa che provengono dall’America latina, anche quando non siano tra coloro che hanno fatto il possibile per mescolare Cristo, Ambrogio e Crisostomo con Marx, Lenin e Castro.
Eppure, per evitare semplificazioni (chi parla molto di poveri “è un comunista”) può essere interessante andare alle origini della Chiesa del sud America. Per renderci conto che la lotta per la difesa dei deboli, dei poveri, dei sottomessi, è, lì in quel continente, una esigenza importante, come lo fu per i padri della Chiesa delle origini.
Scorrendo la storia di tanti vescovi e santi latini si scorge infatti che essi si sono trovati dal principio tra due fuochi: l’asservimento degli indigeni, oltre che a feroci superstizioni pagane, ad altre popolazioni indigene dominanti (vedi il feroce schiavismo azteco), e l’asservimento portato avanti da non pochi conquistatori europei. In mezzo, appunto, non solo i Bartolomè de las Casas, ma anche Antonio de Valdivieso, Cristòbal de Pedraza, Pablo de Torres, Juan del Valle, Tomàs Casillas… tutti vescovi che “misero a repentaglio la propria vita senza riserve, impegnandosi sino all’espulsione dalle loro diocesi, alla prigionia, all’espatrio e alla morte per i loro indios maltrattati violentemente dai coloni”. Tanti missionari subirono violenza solo per aver letto in pubblico le bolle papali contro lo schiavismo e per essersi schiarati, anche dal pulpito, dalla parte dei deboli. Prendiamo il del Valle, definito da un suo biografo “accerrimo lottatore per l’indio americano e per le dottrine cristiane”: professore universitario a Salamanca, lascia la Spagna per diventare vescovo di Popayàn, diocesi non facile, in cui i conquistadores si sono macchiati di gravi delitti. Qui conduce le visite pastorali impugnando una lancia, per difendersi, quando occorre, dagli attacchi dei coloni. Ad un certo punto della sua vita parte con una mula piena di fascicoli e carte, per portare la situazione degli indios al Concilio di Trento. Ma muore lungo il cammino… Al Concilio di Lima del 1582-1583 i vescovi rinnovano il loro impegno ad essere i “protettori degli indios”, a dedicarsi alla loro “cura temporale e spirituale”.
E’ in una situazione analoga di povertà e di sottosviluppo – figlia di secoli di domini per nulla illuminati (Aztechi, Maya ecc); di uno sviluppo, quello portato, nonostante tutto, dagli spagnoli, comunque embrionale ed incerto; del colonialismo nord americano, sostituitosi a quello spagnolo e certo assai predatorio-, che continua la vita della Chiesa dell’America latina. Con un impegno inderogabile: continuare a stare accanto a chi soffre, ai poveri e ai derelitti; e un inganno in agguato: l’idea che impugnare il mitra sia meglio che impugnare il crocifisso; che i dittatori possano più dei pastori; che il messaggio che viene dall’utopia comunista, dalla politica, sia più efficace della “buona novella” che trasforma i cuori.
Francesco Agnoli
 Il Foglio, 30 gennaio 2014