domenica 31 agosto 2014

Un’avidità che fa scempio dell’ambiente




Parole del Santo Padre dopo l'Angelus. Francesco ricorda la Giornata per la custodia del creato che si celebra domani in Italia

Cari fratelli e sorelle,
domani, in Italia, si celebra la Giornata per la custodia del creato, promossa dalla Conferenza Episcopale. Il tema di quest’anno è molto importante: «Educare alla custodia del creato, per la salute dei nostri paesi e delle nostre città». Auspico che si rafforzi l’impegno di tutti, istituzioni, associazioni e cittadini, affinché sia salvaguardata la vita e la salute delle persone anche rispettando l’ambiente e la natura.

*

In Italia nona Giornata per la custodia del creato.

(Donatella Coalova) La nona Giornata per la custodia del creato sul tema «Educare alla custodia del creato, per la salute dei nostri paesi e delle nostre città», dà voce al grido di dolore di quanti hanno avuto l’esistenza spezzata a causa dei disastri ecologici, dei mutamenti climatici, della terra desertificata, dei tumori causati dall’inquinamento. L’iniziativa è fissata per il 1° settembre ma, di fatto, in diverse località prosegue con degli appuntamenti lungo tutto il mese, in sintonia con la proposta avanzata dal Consiglio ecumenico delle Chiese di considerare “Tempo per il creato” il periodo dal 1° settembre al 4 ottobre, giorno in cui ricorre la festa di san Francesco d’Assisi.Il sussidio, preparato congiuntamente dalla Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace e dalla Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, evidenzia, col coraggio della parresia, colpe e latitanze, condannando con fermezza l’esecranda fame dell’oro (auri sacra fames, diceva già Virgilio nell’Eneide), che spinge a compiere scempio su scempio, devastazione su devastazione. Il testo si propone di diffondere su vasta scala la conoscenza di questi problemi e di farlo in modo ecumenico, per una testimonianza più incisiva. Appassionato è l’invito a farsi servi della Parola che illumina e dà vita, e a metterla in pratica curando con amore le ferite dell’umanità e dell’ambiente.
«Con stupore — scrivono le due Commissioni episcopali — abbiamo ascoltato alcuni protagonisti di gravi fenomeni di inquinamento giustificarsi dicendo che non è possibile produrre senza inquinare. Con dolore abbiamo assistito al conflitto drammatico dei lavoratori delle acciaierie di Taranto che preferivano rischiare la salute propria e delle proprie famiglie per non cadere nella certezza della disoccupazione e della povertà, costretti da un odioso ricatto a rinunciare al diritto a un lavoro sano e sicuro».
Il testo affronta problemi che devastano l’Italia, dal sud al nord del Paese: «Abbiamo sentito di imprese che per risparmiare sui costi di smaltimento hanno affidato i loro rifiuti tossici a mani criminali e di agricoltori che in Campania hanno accettato il patto scellerato di guadagnare in pochi giorni il reddito di diversi anni, consentendo di nascondere sotto la loro terra questi veleni. E lo stesso è accaduto in Abruzzo, dove l’impianto chimico di Bussi sul Tirino ha inquinato le acque distribuite a centinaia di migliaia di persone. E ancora abbiamo sentito della centrale a carbone di Vado Ligure che oltre all’energia ha distribuito tumori e morte. E tanti, tantissimi sono i casi di discariche abusive di sostanze tossiche e di impianti inquinanti disseminati da nord a sud, che non sono ancora emersi pubblicamente».
La denuncia è ferma e accorata: «Tante sono state le connivenze e i silenzi di autorità che avrebbero avuto il compito di vigilare sul rispetto delle leggi e sulla salute dei cittadini. Tanti sono stati complici in cerca di facili guadagni, colpevoli per azioni e omissioni della morte e della malattia di tanti, della sofferenza di tante madri che hanno visto spegnersi in pochi mesi i loro bambini. Tutti costoro hanno portato sulla tavola dei propri cari un pane avvelenato, frutto della disonestà e del tradimento delle loro responsabilità, causa della corruzione dell’anima che non può portare se non una effimera illusione di ricchezza e di benessere».
Significativamente, la celebrazione nazionale della IX Giornata per la custodia del creato, promossa dalla Conferenza episcopale italiana, avrà luogo nella cattedrale di Aversa alle ore 11 del 28 settembre. A cura della Conferenza episcopale campana, il 27 settembre, nel teatro Metropolitan di Aversa, a partire dalle ore 10, si terrà il convegno sul tema «Ricostruire la città» a cui seguirà alle 16.30 un incontro di riflessione e preghiera nel santuario «Mia Madonna mia salvezza» di Casapesenna. Per un esplicito indirizzo assunto dalla Conferenza episcopale campana, le diocesi della regione intendono avviare, per l’intero prossimo anno pastorale, «in comunione d’impegno, un percorso di crescita di consapevolezza e di relazioni, per la salute dei nostri paesi e delle nostre città». Di fatto, questa decisa presa di posizione della Chiesa viene vissuta dalle comunità locali più colpite come unico vero fattore di speranza.
In tale contesto si inserisce il documento «Chiamati a custodire la vita. Linee di indirizzo pastorale, proposte e iniziative di impegno comune per la custodia del creato nell’anno 2014-2015» della diocesi di Aversa. In esso il vescovo, monsignor Angelo Spinillo, scrive: «Il concetto di salute non rimane limitato al solo benessere fisico o all’assenza di elementi inquinanti nell’ambiente in cui viviamo. Il concetto di salute qui indica la nostra capacità di un positivo livello di partecipazione civile, di un corresponsabile protagonismo, di un premuroso rispetto e di protezione per ogni persona umana e per ogni forma di vita presente nel creato». Aggiunge monsignor Spinillo: «Non solo vogliamo educarci a custodire la natura e il creato pulito e libero da ogni inquinamento, ma soprattutto vogliamo imparare a vivere come umanità capace di respingere l’egoismo che inquina pensieri e sentimenti, che chiude il cuore all’attenzione alla vita, che rifiuta di dialogare con il Creatore e con gli altri uomini». Il testo contiene inoltre un ricco elenco di iniziative sia a livello diocesano sia, capillarmente, a livello parrocchiale foraniale.
In varie altre diocesi italiane si tengono manifestazioni per celebrare localmente la Giornata per la custodia del creato. Molto ricca l’iniziativa «Ecohappening. Alleati per la custodia del creato» che si tiene a Reggio Emilia dal 31 agosto al 14 settembre. Il vescovo, monsignor Massimo Camisasca, il 31 agosto presiede una concelebrazione eucaristica nei giardini pubblici della città. Il 1° settembre monsignor Armando Trasarti, vescovo di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola, guida una passeggiata nella natura, poi presiede una celebrazione ecumenica cui seguirà un momento conviviale all’aperto. Il 7 settembre il vescovo di Susa, monsignor Alfonso Badini Confalonieri, presiederà la concelebrazione eucaristica per la Giornata del creato; sarà presente padre Ionut Olenici, della comunità ortodossa romena. Il 13 settembre la diocesi di Susa organizzerà inoltre una tavola rotonda sul tema e una passeggiata pomeridiana all’Orrido di Foresto. Una camminata notturna, fra arte, musica e poesia, si terrà anche nella diocesi di Concordia-Pordenone, nel parco delle Fonti di Torrate, il 7 settembre. Sempre il 7 settembre, l’arcidiocesi di Milano organizza un giro in bicicletta con pause per preghiere ecumeniche e momenti di riflessione.
L'Osservatore Romano

L'Angelus di Papa Francesco. "Noi cristiani viviamo nel mondo, ma questo comporta il rischio che diventiamo “mondani”...



L'Angelus di Papa Francesco. "Noi cristiani viviamo nel mondo, pienamente inseriti nella realtà sociale e culturale del nostro tempo, ed è giusto così; ma questo comporta il rischio che diventiamo “mondani”, che “il sale perda il sapore”, come direbbe Gesù"

Cari fratelli e sorelle, buon giorno!
nell’itinerario domenicale con il Vangelo di Matteo, arriviamo oggi al punto cruciale in cui Gesù, dopo aver verificato che Pietro e gli altri undici avevano creduto in Lui come Messia e Figlio di Dio, «cominciò a spiegare [loro] che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto … , venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (16,21). E’ un momento critico in cui emerge il contrasto tra il modo di pensare di Gesù e quello dei discepoli. Pietro addirittura si sente in dovere di rimproverare il Maestro, perché non può attribuire al Messia una fine così ignobile. 

Allora Gesù, a sua volta, rimprovera duramente Pietro, lo rimette “in riga”, perché non pensa «secondo Dio, ma secondo gli uomini» (v. 23) e senza accorgersene fa la parte di satana, il tentatore.
Su questo punto insiste, nella liturgia di questa domenica, anche l’apostolo Paolo, il quale, scrivendo ai cristiani di Roma, dice loro: «Non conformatevi a questo mondo, 
(...) ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio» (Rm 12,2).
In effetti, noi cristiani viviamo nel mondo, pienamente inseriti nella realtà sociale e culturale del nostro tempo, ed è giusto così; ma questo comporta il rischio che diventiamo “mondani”, il rischio che “il sale perda il sapore”, come direbbe Gesù (cfr Mt 5,13), cioè che il cristiano si “annacqui”, perda la carica di novità che gli viene dal Signore e dallo Spirito Santo. Invece dovrebbe essere il contrario: quando nei cristiani rimane viva la forza del Vangelo, essa può trasformare «i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita» (PAOLO VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 19). 
(...)  
Perciò è necessario rinnovarsi continuamente attingendo la linfa dal Vangelo. E come si può fare questo in pratica? Anzitutto proprio leggendo e meditando il Vangelo ogni giorno, così che la parola di Gesù sia sempre presente nella nostra vita (...); inoltre partecipando alla Messa domenicale, dove incontriamo il Signore nella comunità, ascoltiamo la sua Parola e riceviamo l’Eucaristia che ci unisce a Lui e tra noi; e poi sono molto importanti per il rinnovamento spirituale le giornate di ritiro e di esercizi spirituali. Vangelo, Eucaristia, preghiera: (...) grazie a questi doni del Signore possiamo conformarci non al mondo, ma a Cristo, e seguirlo sulla sua via, la via del “perdere la propria vita” per ritrovarla (v. 25). “Perderla” nel senso di donarla, offrirla per amore e nell’amore – e questo comporta il sacrificio, anche la croce – per  riceverla nuovamente purificata, liberata dall’egoismo e dall’ipoteca della morte, piena di eternità.
La Vergine Maria ci precede sempre in questo cammino; lasciamoci guidare e accompagnare da lei.

Perché entrare in clausura quando si può fare tanto bene nel mondo?





Al Meeting di Rimini il racconto di una suora trappista

Madre Cristiana Piccardo, monaca cistercense della stretta osservanza, è l’autrice del libro presentato al Meeting di Rimini dal titolo “La storia, maestra di Fede, di Speranza, di Carità (edizioni Lindau). Racconta in soli quattro capitoli tutto quanto ha visto e vissuto quando era badessa a Vitorchiano, monastero trappista in Lazio, e in seguito a Humocaro in Venezuela, partendo dagli anni che precedono il Concilio Vaticano II. A presentare il volume è stato chiamato don Gianluca Attanasio della Fraternità dei Missionari di San Carlo Borromeo. Attanasio è un prete milanese inviato come missionario a Torino e conosce il monastero di Vitorchiano ormai da più di venticinque anni.

Così racconta la sua esperienza: “Sono andato la prima volta a Vitorchiano quando avevo vent’anni, avevo già sentito la chiamata a essere prete. Eppure la clausura mi sembrava assurda. Questo pregiudizio mi ha impedito di incontrare le monache. Perché entrare in clausura oggi quando si può fare tanto bene nel mondo?” Gianluca diventa prete e con don Massimo Camisasca, fondatore della Fraternità, ritorna a Vitorchiano: “Sono rimasto folgorato dalla letizia e dalla gioia che splendeva sul loro volto. Sono più contente di me, mi sono detto, anche se la loro vita è lavoro e preghiera restando sempre nello stesso posto, in un mondo in cui viaggiare è quasi un obbligo”. In seguito incontra più volte le monache: ragazze belle, che hanno studiato, che avevano una carriera. “Ma che cosa vivono queste donne?” si chiede padre Attanasio. E la risposta: “Guardano e cercano il volto di Cristo che dà loro la felicità”.

Il libro è un racconto di madre Cristiana alle novizie. La monaca parla del cammino di Vitorchiano, monastero dal quale sono partite in diversi tempi monache che hanno fondato altri monasteri nel mondo: in Venezuela, in Perù, in Argentina, nelle Filippine (da cui è sorto un monastero a Macao, in Cina). Il libro, spiega don Gianluca, può essere letto tenendo conto di alcune parole che ne rappresentano la chiave di lettura. “La prima parola è esperienza, perché il rapporto con Cristo di queste monache è un’esperienza reale”. La seconda è tradizione, anzi “tradizione viva”. Madre Cristiana racconta il suo primo incontro con madre Pia, la badessa di allora, monaca fedele alle regole e appassionata a Cristo. È stata lei a insegnarle che la vita religiosa è una vita a due, la monaca e Gesù Cristo, contraria in radice alla solitudine.

La monaca nel suo racconto rievoca i tempi precedenti al Concilio Vaticano II, in cui la vita monastica era silenzio, preghiera, digiuno, ma anche individualismo. “Il Concilio ha fatto irruzione segnando un passaggio da un’osservanza delle regole a una vita di comunione”, commenta don Attanasio, che prosegue: “Si scopre la sorella e il volto della sorella diventa un bisogno, la comunione investe tutta la vita”. L’incontro di madre Cristiana con don Luigi Giussani provoca un cambiamento enorme a Vitorchiano. Con l’ingresso in monastero di molte ragazze di Gs e poi di Cl, si incontrano due generazioni di monache: le vecchie contadine con le giovani che venivano dalla scuola. Eppure la comunione è totale. Com’è stato possibile? “Basta uno sguardo”, dicono.

La terza chiave di lettura del libro è la missione. Notevole l’esempio del monastero sorto nella Repubblica Ceca. In una nazione atea e da molto tempo senza religione, le nove monache partite da Vitorchiano in tre anni sono diventate diciotto.
Il libro è scritto con un linguaggio poetico e in un mondo spesso segnato da divisioni e disumanità fa conoscere un esempio di vita di pace e di comunione. Perché, osserva don Gianluca, “se non esistono luoghi dove diventano vita quotidiana, come si fa a predicare la pace e la fratellanza?”

Chiude l’incontro il moderatore Camillo Fornasieri, direttore del Centro culturale di Milano: “Il cuore con cui vivono queste suore è lo stesso cuore dei preti delle baraccopoli, genera comunione e costruisce un luogo in cui è possibile vivere”.

*

Al Meeting di Rimini le periferie della Chiesa di papa Francesco

Ultime battute al Meeting di Rimini e molta attenzione alle nuove sfide che la Chiesa deve affrontare nei prossimi anni studiando i documenti del continente di papa Francesco, cominciando da una lettura attenta dell’Esortazione apostolica ‘Evangelii Gaudium’: ‘Cosa chiede Francesco alla sua Chiesa?’, a cui hanno risposto il vescovo di Perugia, card. Gualtiero Bassetti, e il segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina, Guzmán Carriquiry, che ha affermato:
“Quella che un tempo era considerata una periferia ha fatto irruzione nella cattolicità… E’ un’occasione storica che non si può ignorare con papa Francesco stiamo vivendo una rivoluzione evangelica che passa anche da una visione politica del vangelo che possa aiutare i popoli ad incamminarsi verso democrazie più mature”.
Il card. Bassetti ha iniziato il proprio intervento partendo dalla citazione di ‘Tracce d’esperienza cristiana’, in cui don Giussani raccolse le sue catechesi a Gioventù Studentesca: ‘E’ stato per l’uomo. L’uomo con i suoi interrogativi, la sua solitudine, i suoi desideri, i bisogni che nessuno gli ha mai potuto né per intero spiegare né risolvere, per quest’uomo è vissuta una persona che all’umanità tutta ha preteso dare se stessa come risposta. Tale persona è Gesù Cristo, e Gesù Cristo vive ancora’.
Tale prospettiva aperta dalla carne di Cristo può cambiare la vita del cristiano: “Per prima cosa, ci dobbiamo domandare: qual è l’uomo verso cui andare? Di quali uomini e di quali donne ci parla l’Esortazione Apostolica di Francesco? Porsi questa domanda è fondamentale e la risposta è tanto semplice, quanto impegnativa. Le periferie esistenziali e materiali sono luoghi abitati dall’uomo così ‘come è’ (nel bene e nel male), non ‘in astratto’, cioè dall’ ‘uomo come dovrebbe essere’. Noi non dobbiamo cercare la compagnia dell’uomo ‘come dovrebbe essere’, ma dell’uomo e della donna così come essi sono, anche quando non condividono le nostre posizioni”.
Di seguito ha enucleato le sfide a cui l’Esortazione Apostolica ci chiama: “Oggi, sul soglio di Pietro, siede un figlio prediletto dell’America Latina. Un figlio di quel ‘continente della Speranza’, come lo definì San Giovanni Paolo II, che fu evangelizzato attraverso una ‘straordinaria epopea missionaria’, come evidenziò Benedetto XVI, e che oggi con le sue contraddizioni, i suoi colori, la sua povertà e le sue speranze, ‘guida’ la Chiesa e si fa portatrice di un nuovo annuncio. Un annuncio in cui non si può non ravvisare il ‘segno indelebile di Maria’ e l’eredità  spirituale della Vergin Morena e di Nostra Signora de Aparecida.
Un annuncio, che proprio per questo particolare profilo genetico, non può non essere gaudioso, materno, sapiente, pieno di comprensione verso i ‘piccoli’ e intimamente caratterizzato dalla sobrietà. Una sobrietà che, a me pare, la società europea sembra aver smarrito a favore di uno stile di vita in cui l’essere umano assume, sempre più spesso, le sembianze di un individuo che vive per se stesso, costretto a godere’ come se fosse preda di una sorta di schiavitù consumistica, dei beni che vorticosamente egli stesso produce”.
Tali sfide della Chiesa latino-americana devono essere da sprone per i cristiani europei, chiamati ad una nuova missione evangelizzatrice nella strada del Concilio Vaticano II: “La presente fase di ricezione del Concilio Vaticano II è marcata da questo pontificato che porta al centro il respiro delle periferie. Non a caso i cardinali sono andati a scegliere il papa ‘dalla fine del mondo’:
portando le periferie al centro è come se la Chiesa si fosse dotata di una lente di ingrandimento attraverso la quale tutti possono contemplare e lasciarsi sorprendere da ciò che il Signore ha seminato durante 50 anni nel cammino delle Chiese e nella vita di tanti ‘discepoli-missionari’: frutti che ora vanno raccolti in una sorta di ‘sinfonia sinodale’, fra centro e periferie, fra Chiesa Universale e Chiese locali! Ebbene, il dono-impegno che il Signore fece alla Chiesa attraverso il Concilio Vaticano II si chiama ‘Conversione pastorale’…
Sulla conversione pastorale vorrei ricordare che ‘pastorale’ non è altra cosa che l’esercizio della maternità della Chiesa. Essa genera, allatta, fa crescere, corregge, alimenta, conduce per mano. Serve, allora, una Chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c’è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di ‘feriti’, che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore”.
Però per comprendere il magistero di papa Francesco non si può ignorare il documento della conferenza di Aparecida (svoltasi dal 13 al 31 maggio 2007), letto attraverso la testimonianza di mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, che collaborò col cardinale Jorge Mario Bergoglio nella commissione incaricata di redigere il documento finale dal titolo ‘Discepoli e Missionari di Gesù Cristo, affinché in Lui abbiano vita’:
“Parlare di Aparecida, oggi, in una fase non più eurocentrica, assume un significato particolare. I lavori di questa Conferenza sono stati affrontati con un approccio che ha ribaltato l’impostazione di tipo sociologico tradizionale e ha introdotto un nuovo metodo di riflessione pastorale basato sulla tripartizione vedere, giudicare, agire”.
Attrazione, missionarietà e bellezza sono state alcune delle parole chiave dell’intervento del vescovo di Taranto, “perché la Chiesa si sviluppa non per proselitismo, ma per attrazione… Anche noi, oggi, dobbiamo rivivere l’esperienza che ha generato Aparecida, scoprire la bellezza della reale vicinanza dei pastori al proprio gregge, e non solo riprendere in modo intellettualistico alcuni temi”.
Però l’attrazione si esercita attraverso una presenza nella realtà delle 20 ‘villas miserias’, le grandi baraccopoli alla periferia di Baires, dove nel 1974 padre Mugica fu assassinato dalla delinquenza organizzata che attanaglia le vite di tanti disperati, pregando e lavorando con gli ultimi. La loro  storia è raccontata dal libro ‘Preti dalla fine del mondo. Viaggio tra i curas villeros di Bergoglio’,  scritto da Silvina Premat, giornalista de La Nacion di Buenos Aires.
Nate dalla grande crisi degli anni Trenta, le villas a lungo sono state trascurate dalla stessa Chiesa fino a quando, racconta nel libro il primo ‘curato’ padre Botan, “ci andammo a vivere per una questione di fede. Ai villeros non avremmo dato istruzioni ma li avremmo resi protagonisti”. Nel 1969, i sacerdoti che si erano uniti a padre Botan si diedero uno statuto e nel 2009 il cardinal Bergoglio li costituì in vicariato:  “Questi sacerdoti sono una risposta ai problemi di quella gente attraverso la luce del Signore e la fede della Chiesa”.
I curas aprono la porta a tutti, così come chiese loro Bergoglio: “Accogliete tutte le vite così come vengono” e da lì sono nate così scuole, asili, orfanatrofi, laboratori per insegnare un mestiere, scuole di calcio e di baseball, gruppi di esploratori. Spostandoci di qualche migliaia di chilometri più a Nord l’impegno dei cristiani non cambia, come ha ben evidenziato il documentario ‘Las Patronas’, girato da Javier Garcìa, raccontando la storia di un gruppo di donne messicane, contadine, che non hanno fatto finta di niente davanti al treno merci che passa dal loro villaggio e porta migliaia di persone dai Paesi del CentroAmerica fino al confine con gli Stati Uniti.
In uno spezzone del documentario così ha raccontato Norma Romero, anima delle Las Patronas: “Un giorno ci siamo avvicinate al treno e gli uomini ci gridavano: ‘Madre abbiamo fame’. Sono tornata a casa e ho detto: ‘Dobbiamo dargli del cibo’. Non sapevamo chi fossero”. Erano migrantes che affrontavano un viaggio di venti giorni sotto il sole, la pioggia, verso la speranza.
Alcuni non mangiavano da cinque giorni, erano stanchi, affamati. La famiglia di Norma si mette all’opera: vengono preparate bottiglie d’acqua, riso, tortillas. Cuociono i fagioli con il pomodoro ‘per farli migliori’. Poi vanno ai binari: “Quando il macchinista ci ha viste e il treno ha iniziato a fischiare la gente si è affacciata. Abbiamo iniziato a lanciare il cibo e l’acqua”. Era il 1995. Dopo tanti anni i migrantes sanno che sul loro cammino ci sono ancora Las Patronas.

sabato 30 agosto 2014

Dove comincia la vera libertà


Le levatrici d’Egitto/4 - Il cielo di Dio e degli uomini è sempre più alto delle piramidi

di Luigino Bruni

“Per tutta la vita, devo confessarlo, sono stato sospinto da due forze che hanno operato assieme. Innanzitutto la collera, l’impossibilità di accogliere il mondo così com’è. … L’altra forza è la luce. Oggi forse parlerei di trasparenza. Potrei dire: è la fede”
(Paolo Dall’Oglio, Collera e luce).
Gli imperi hanno sempre cercato di usare il lavoro per far spegnere nelle anime dei lavoratori i sogni di libertà, di gratuità, di festa. Proprio per il suo essere il principale amico dell’uomo, il lavoro si presta ad essere manipolato e usato contro i lavoratori, diventa facilmente ‘fuoco amico’. Poter lavorare è stata ed è una via di liberazione per tanti, e il non poter lavorare continua ad essere una delle principali illibertà e violenze di massa del nostro tempo. Ma accanto al lavoro che libera e nobilita, c’è sempre stato, e continua ad esserci, un lavoro usato dai faraoni come mezzo di oppressione dei poveri.
Il lavoro apre la nostra costituzione repubblicana ma apriva anche i campi di ‘lavoro’ nazisti: per capire e amare il lavoro dobbiamo tenere assieme questi due ‘ingressi’. Oggi continuiamo a vivere lavorando, e continuiamo a non fiorire e a spegnerci perché non possiamo lavorare; ma non abbiamo smesso di morire e di essere umiliati dal troppo lavoro e dal lavoro sbagliato, quando i nuovi faraoni ci fanno lavorare tutto il giorno e tutti giorni, non ci permettono di pensare, di pregare e far festa, e così ci riportano nelle fabbriche di mattoni dell’Egitto.
Mosè, dopo l’ascolto della Voce presso il roveto, scende dal monte e ha subito un incontro misterioso. Come Giacobbe che fu attaccato da Dio presso lo Yabbok mentre tornava con la sua famiglia nella terra dei padri, anche Mosè viene affrontato da Dio nel viaggio verso l’Egitto con sua moglie e suo figlio. Quel Dio che gli aveva appena rivelato il suo nome (YHWH), ora lo affronta e lo combatte: “E avvenne che lungo il cammino, nel luogo di sosta, YHWH gli venne incontro e cercò di farlo morire” (4,24). Dio che affida un compito al profeta e poi lo combatte, è un tema che attraversa l’intera Bibbia, fino a quel Figlio inviato per svolgere il compito più grande, che si ritrova crocifisso ad un legno, abbandonato da Elohim (Marco 15,34). La voce che ti chiama e ti indica la strada di salvezza da percorrere, diventa chi ti ferma e ti combatte lungo il cammino che ti aveva aperto. La vocazione e la fede-fiducia sono dono; ma sono anche lotta, un combattimento che si svolge ai confini tra la vita e la morte, che conosce e ama solo chi ha ascoltato una voce e l’ha seguita veramente. Diversamente dall’episodio dello Yabbok, che la Genesi descrive con abbondanza di simboli e di dettagli, qui il testo non si sofferma sul combattimento tra Mosè e Dio, ma ci descrive soltanto le azioni di Zippora, la moglie di Mosè. Durante quell’attacco, Zippora circoncide il figlio, e a quel sangue di figlio è misteriosamente legata la salvezza di Mosè (4,25-26). Dopo le levatrici d’Egitto, la madre e la sorella di Mosè, la figlia del faraone, Mosè è di nuovo salvato dalle donne, dalla loro speciale vocazione alla vita, umili mediatrici tra il divino e le nostre carni.
Mosè continua da solo il suo cammino verso l’Egitto. Il suo popolo crede subito alle parole di Aronne, la ‘bocca’ di Mosé (4,27), e tutti “si inginocchiarono e adorarono” (4,30-31). Molto più complicato e fallimentare è invece il dialogo con il faraone: “Mosè e Aronne andarono e dissero al faraone: ‘Così dice YHWH, Dio di Israele: ‘Rilascia il mio popolo, perché celebrino per me una festa nel deserto’. Disse il faraone: ‘Chi è YHWH perché io debba ascoltare la sua voce e rilasciare Israele? Non conosco YHWH né Israele rilascerò’” (5,1-3). Il faraone fa chiamare immediatamente i responsabili dei lavori degli ebrei, e inasprisce subito le loro condizioni di lavoro: “Non continuerete a dare la paglia al popolo per fabbricare i mattoni, come facevate prima; essi andranno a raccogliersi la paglia. Però imporrete loro il medesimo quantitativo di mattoni che facevano finora, senza alcuna riduzione” (5,7-8).
La reazione del faraone di fronte alla richiesta di Mosè ci offre una potente descrizione di che cosa diventa il lavoro sotto gli imperi di ieri e di oggi. La prima risposta del faraone riguarda direttamente Dio: “Chi è YHWH?”, come a dire: ‘Ma chi lo conosce’? Ogni oppressione dei popoli e dei lavoratori inizia dal non ammettere nessun altro dio al di fuori del ‘faraone’, dal non riconoscere che esiste un cielo più alto di quello toccato dalle loro piramidi. In Egitto il faraone era una divinità, l’unico mediatore tra il divino e gli uomini. Riconoscere YHWH e dare ascolto alla sua richiesta, avrebbe significato per il faraone mettere in discussione la sua natura divina e ammettere l’esistenza di altri mediatori (Mosè e Aronne). Gli imperi non sono atei, sono tutti idolatri: non negano Dio, fanno semplicemente diventare dio le persone, le cose (denaro, potere), le idee, producendo dei a loro immagine con cui si trovano molto comodi.
In questo episodio c’è poi un passaggio particolarmente significativo per il lavoro. Al faraone, Mosè e Aronne non hanno chiesto la liberazione definitiva del popolo. In quel primo incontro gli avevano soltanto fatto la richiesta di poter “camminare tre giorni nel deserto” (5,3), per offrire sacrifici al loro Dio, per pregare, per fare una festa. Il faraone la respinge senza appello, perché se li avesse lasciati uscire dai campi di lavoro anche per un solo giorno di festa e di culto avrebbe riconosciuto la loro natura di popolo e non più di schiavi. Si può pregare ovunque, e le preghiere elevate verso il cielo dai campi di prigionia sono le più belle e le più vere. Ma uscire dai campi di lavoro per andare a pregare e far festa insieme non è solo una preghiera, è un atto politico che, ogni tanto, ha innescato il crollo anche degli imperi più grandi. Se il faraone avesse permesso al popolo di celebrare nel deserto, avrebbe riconosciuto non soltanto una religione diversa, ma un diritto a far festa, alla gratuità e al non lavoro, un diritto che solo l’uomo libero ha, non lo schiavo (anche per questo ricordo della schiavitù dell’Egitto, la Legge d’Israele estenderà lo shabbat a tutti gli esseri viventi). Dicendo di no a quella richiesta di YHWH, il faraone ha allora semplicemente ribadito che i figli di Israele erano solo degli schiavi ai lavori forzati. Il primo e più naturale atto con cui gli imperatori ci dicono che siamo solo lavoratori forzati è negarci il tempo per il non-lavoro, per il culto, per la gratuità, per la festa. I popoli hanno iniziato le loro liberazioni pregando, cantando, facendo festa insieme. Agli imperatori le feste fanno più paura dei cortei di protesta, perché contengono la forza infinita della gratuità. E quando sentono ‘aria di festa’ non fanno altro che inasprire i lavori forzati.
Tutte le volte che un imprenditore fa pre-firmare ad una donna il foglio di dimissioni ‘volontarie’ da presentare in caso di maternità, o quando questo capitalismo ci nega il riposo domenicale e il tempo per la festa, torniamo alla logica di quell’antico faraone e di tutti gli imperi. Quando l’impresa ci chiede di lavorare a tutte le ore e tutti i giorni per raggiungere gli obiettivi, o quando ci impone le sue feste aziendali e ci nega le feste di tutti, queste imprese diventano molto simili alla fabbrica di mattoni dell’Egitto; e noi torniamo ad assomigliare  troppo a quegli antichi schiavi, anche se abbiamo firmato liberamente un contratto e siamo ben pagati.
In tutti gli imperi si muore per mancanza di lavoro, ma si muore anche per il troppo e cattivo lavoro, perché il lavoratore-persona si spegne quando diventa solo lavoratore. Il lavoro senza non-lavoro è il lavoro forzato dello schiavo, perché è la libertà di porre un limite al lavoro che genera quello scarto antropologico tra noi e il mondo delle cose, tra Marco e l’ingegner Bianchi, uno scarto essenziale per dare dignità alle cose che produciamo e salvare l’eccedenza spirituale della nostra vita e di quella degli altri. È bene non dimenticarlo proprio in questa stagione di grave crisi del lavoro. Oggi rimpareremo a lavorare e a creare lavoro se saremo capaci di chiedere aglii attuali faraoni del tempo per la gratuità e per la festa, parole che essi non amano perché troppo sovversive e inutili alla produzione dei loro mattoni.
La libertà di culto, di gratuità, di festa è la prima forma di eccedenza antropologica e di dignità etica di ogni civiltà, perché dice ai faraoni e ai loro eredi di oggi: ‘Voi non siete dio per me, per noi, e non lo siete per nessuno, neanche per voi stessi. Le vostre feste orientate ai profitti non ci bastano, vogliamo altri altari dove celebrare la nostra libertà e le nostre liberazioni’.
Quei tre giorni di cammino verso un altare diverso sarebbero stati i primi passi verso la terra promessa, la fine della schiavitù. Il faraone non voleva e non poteva concederli. Ma arrivarono.
I giorni di cammino libero per celebrare e far festa insieme continuano ad accadere lungo la storia, nonostante gli imperatori. Perché le altissime piramidi non riescono a soddisfare il nostro desiderio di cielo, che è sempre più alto.

Francesco come Pio IX: prima gli applausi e poi i fischi?

Un'immagine di Pio IX

di Angela Pellicciari
Il 15 maggio 2013, due mesi dopo l’elezione di papa Francesco, ho scritto sulla Bussola un pezzo dal titolo: Viva Pio IX come Papa Francesco? Avanzavo un possibile paragone fra la storia di papa Mastai e quella di papa Bergoglio. Accomunava la vicenda di entrambi una straordinaria popolarità. Una straordinaria popolarità iniziale. All’epoca di Pio IX tutti, compresi ebrei, atei, mazziniani, rivoluzionari, tutti, parlavano bene di lui. É durato meno di due anni. Il tempo di spacciare il Papa per un papa “liberale”.
Il tempo di sfruttare la popolarità di Pio IX per diffondere nel popolo la bontà della parola “liberale”, fino ad allora sinonimo di rivoluzione e quindi esecrata. E così, tempo due anni, è arrivata a Roma la Repubblica che, definita “romana”, ha portato in città rivoluzionari di tutto il mondo, protestanti e massoni, felici di assistere al sogno di tanti secoli: la fine della Roma pontificia. La fine della Roma cattolica. Il Papa è costretto a fuggire, i beni della Chiesa sono saccheggiati, preti e monache assaliti, incarcerati, uccisi. 
La straordinaria popolarità di papa Bergoglio, esaltato da tutti ma proprio da tutti, mi è sembrata subito sospetta. Anche perché sulla storia del Risorgimento ho passato diversi anni e, quindi, ho imparato bene –e riconosco- le mosse, le dinamiche, delle forze anticattoliche. Nel pezzo del 2013 citavo fra l’altro l’esultanza massonica per l’elezione di Francesco riportata da Statera in un articolo comparso su Repubblica: «i Gran Maestri delle tante massonerie italiane sembrano concordi nell’entusiasmo per l’avvento di Francesco. Uno per tutti: “Con papa Francesco nulla sarà più come prima. Chiara la scelta di fraternità per una Chiesa del dialogo, non contaminata dalle logiche e dalle tentazioni del potere temporale”. Firmato: Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia».
Sul Foglio del 28 agosto Angiolo Bandinelli ha scritto un pezzo dal titolo “Pio IX” in cui fa il paragone papa Mastai-papa Bergoglio, citando l’unanime apprezzamento che circonda entrambi all’indomani dell’elezione. Bandinelli ricorda che Pio IX, da liberale, diventa reazionario, il simbolo stesso della reazione, e scrive: «C’è da sperare che lo stesso destino non debba toccare a Papa Francesco».
Il prossimo autunno si riunisce il Sinodo sulla famiglia. Tutto il mondo progressista ha evidenziato le grandi aperture del papa. Le interviste da lui rilasciate a Scalfari, paragonabili all’amnistia che Pio IX concede all’indomani della sua elezione ai detenuti politici messi così in grado di preparare la rivoluzione, con le falsificazioni delle parole del Papa ammesse solo dopo parecchio tempo, hanno creato un’aspettativa di cambiamento del magistero che non potrà che essere disattesa.  E così Bandinelli, dopo un lungo excursus piuttosto incomprensibile sull’economista Piketty, tracciando il paragone con Pio IX commenta: «Sono poi curioso di vedere se papa Francesco manterrà la barra del timone sulla direzione finora seguita o se dovrà modificare la rotta. Perché allora potrebbe ripetersi quanto accadde, appunto, con Pio IX: all’inizio esaltato, poi esecrato ferocemente».
Dall’elezione di papa Francesco è passato un anno e mezzo: l’articolo di Bandinelli sta a indicare che, proprio come Pio IX dopo nemmeno due anni, le ostilità contro il Papa stanno per cominciare?

Qualcosa è successo


Bisogna partire dalla fine.
Memoria liturgica di santa Monica, la madre di sant’Agostino: 29 donne, quattro neonati e due bambini assistono alla Santa Messa in uno splendido giardino. C’è raccoglimento, ci sono bei canti, tutte sono in silenzio. L’unica voce che si sente di tanto in tanto proviene dai piccolissimi. C’è un profondo raccoglimento. Il sacerdote esordisce dicendo che proprio quel sacrificio eucaristico è il legante che ci tiene insieme. Qualcuna poi confesserà di aver provato il desiderio di fare tre tende, non far finire mai quel momento. Tutte riconosceranno di aver provato lo stesso sentimento. Quella Messa è stata il culmine e la fonte di tutto.
Il 27 agosto 2014 è davvero successo “qualcosa”.
Ma torniamo indietro di qualche tempo.
Un gruppo di donne si incontrano sui social network: facebook, blog, anche qualche amicizia nel “mondo reale”. Partono le chiacchiere, un po’ serie, un po’ facete, si commenta l’attualità, si prega le une per le altre, si raccontano quotidianità fatte di mariti, figli (complessivamente ne totalizziamo 87), lavoro, smalti, vacanze, fede, borse, io ho letto questo libro, lei ha visto quel film… Essendo donne, ovviamente, lo spazio di un social network o di un blog sta stretto: iniziano a partire le prime telefonate-fiume.
La voglia di incontrarsi intanto cresce, ma come si fa? Siamo sparse in tutta Italia, ognuna a seguire la trama della propria vita. A coppie, a piccoli gruppi, ci si inizia a conoscere. Alcune famiglie diventano amiche, i figli si conoscono: si fa insieme una veglia delle Sentinelle in Piedi, un pellegrinaggio, i figli vanno agli stessi campi estivi, si cerca di passare qualche giorno in compagnia, qualche famiglia trascorre una breve vacanza insieme.
Io scrivo in un post la convinzione che le famiglie siano i nuovi monasteri del futuro, i luoghi dove si coltiva un’umanità nuova, dove può rinascere la vita buona, come dice Cristina. Ogni tanto si butta lì che bisognerebbe vederci tutte, ma come si fa?
Fino a che un giorno una dice seriamente: “Troviamo il posto, stabiliamo la data”.
Ci vuole qualche mese per incastrare tutto come si deve.  Una mette a disposizione il luogo, l’altra trova un sacerdote, un paio si occupano dei canti, molte portano cibo e doni, offrono passaggi e posti letto a chi viene da più lontano.
Alla fine ce l’abbiamo fatta.
Ci siamo abbracciate, guardate negli occhi, abbiamo urgenza di conoscerci meglio, ci siamo commosse, è scappata qualche lacrima, abbiamo giocato, riso, parlato a ruota libera, mangiato e bevuto più che bene, ci siamo scambiate doni e richieste di preghiera.
Qualcuno può vederla come una banale riunione di bigotte ma, pur senza rappresentare ufficialmente nessuno, tra di noi si trovano esperienze e sensibilità ecclesiali molto disparate: veniamo da Comunione e Liberazione, Opus Dei, Cammino Neocatecumenale, Rinnovamento nello Spirito, Alleanza Cattolica, Movimento Liturgico Giovanile, Movimento per la vita, Sentinelle in Piedi, oblate benedettine, semplice impegno “di parrocchia”. Soprattutto, ognuna di noi testimonia un’amicizia in Cristo.
La fede è per certi versi assolutamente individuale, sta al fondo dell’anima di ognuna di noi, ma per diventare vita vissuta deve incarnarsi in famiglie, gruppi umani, amicizie concrete. Solo così si diventa strumenti della regalità sociale di Cristo, nuclei di umanità nuova che attraggono in forza della bellezza che lasciano intravvedere. Credo che abbiamo fatto un passo in questa direzione.
La parola che è si è sentita di più è stata “grazie”.  Grazie le une alle altre e grazie a Dio. Grazie per averci permesso di intrecciare i fili un po’ contorti, doloranti, faticosi, incompleti, delle nostre vite, ricavandone un arazzo meraviglioso.
Una domanda rimane nell’aria: “Quando lo rifacciamo?”.
Vedi anche: Accade inaspettato

Ordinazione Presbiterali in Terra Santa



image
NAZARETH – sabato 14 giugno, quattro nuovi presbiteri diocesani e missionari del Patriarcato Latino di Gerusalemme sono stati ordinati nella Basilica dell’Annunciazione.
Passa ancora per Nazareth, dove Gesù è cresciuto alla scuola di Maria e Giuseppe, la missione che si estende fino ai confini della terra. Così è avvenuto sabato 14 giugno per quattro diaconi, formatisi nel seminario Redemptoris Mater della Galilea, che sono stati ordinati presbiteri nella Basilica dell’Annunciazione, nella Solennità della SS. Trinità.
La celebrazione è stata presieduta dal patriarca di Gerusalemme dei latini monsignor Fouad Twal. Ha concelebrato il vescovo ausiliare e vicario patriarcale per Israele, residente a Nazareth, monsignor Giacinto-Boulos Marcuzzo.
I quattro sacerdoti diocesani, che hanno ricevuto la loro vocazione nel Cammino Neocatecumenale, sono incardinati nel Patriarcato latino di Gerusalemme e nel contempo missionari, pronti a essere inviati in qualunque parte del mondo, in particolare nel Medio Oriente, a servizio della nuova evangelizzazione. image
Già nella strada che li ha condotti a questa tappa decisiva è possibile rintracciare i segni della missione. Davide Meli, trent’anni, primo di undici figli, architetto, fin da piccolo ha vissuto negli Stati Uniti, perché la sua famiglia era lì in missione. In quest’ultimo anno di formazione ha servito la parrocchia di Al Huson in Giordania. Il ventinovenne Paolo Alfieri, proveniente da Nettuno (Italia), laureato in lettere classiche, ha esercitato invece la sua diaconia nella parrocchia di Shefa‘amr, in Galilea. Coetanei sono i due ordinandi provenienti dall’America Latina: Juan David Aragón Bueno, colombiano, e Leandro Setuval, brasiliano. Hanno esercitato il loro diaconato rispettivamente nella parrocchia di Smakie in Giordania e di Bir Zeit in Palestina.
Un ultimo importante momento di formazione è stato il pellegrinaggio di Papa Francesco in Terra Santa. I neo-sacerdoti non dimenticheranno certo che a meno di venti giorni dalla loro ordinazione hanno avuto l’onore di servire come diaconi nelle liturgie presiedute dal Papa ad Amman e a Betlemme. image




La liturgia dell’ordinazione è stata una grande festa non solo per la Galilea. Vi hanno partecipato, oltre ai 35 seminaristi del Redemptoris Mater e ai familiari e alle comunità dei candidati, una quarantina di presbiteri e numerosi religiosi e religiose della Terra Santa, i fratelli e le sorelle in missione della Domus Galilaeae (il cui direttore, don Rino Rossi, ha concelebrato), circa 500 neocatecumenali e molti fedeli delle parrocchie provenienti dalle comunità della Galilea, della Palestina, della Giordania e di Gerusalemme. image
All’inizio della celebrazione, il rettore del Seminario, don Francesco Giosuè Voltaggio, ha menzionato l’enorme grazia concessa da Dio agli ordinandi di pronunciare il loro “Eccomi!” nello stesso luogo ove l’ha pronunciato la Santa Vergine Maria, l’umile di Nazaret. image
Il Patriarca, rivolgendo la sua parola di augurio ai neo-ordinati, ha ripreso le parole di Papa Francesco nell’incontro con i sacerdoti, i religiosi e i seminaristi di Terra Santa, che ha avuto luogo nella Basilica del Getsemani, ove il Santo Padre ha rimarcato la sproporzione fra la grandezza della vocazione e la nostra fragilità. Di seguito, il Patriarca ha invitato con forza i novelli sacerdoti a non avere paura: non saranno mai soli, poiché il Signore sarà con loro, così come le loro comunità e la chiesa in Terra Santa. image
Un festoso banchetto ha seguito la celebrazione, allietato dalla presenza di monsignor Marcuzzo, che ha voluto offrire un dono ai presbiteri e un affettuoso augurio alle loro famiglie, e da canti in arabo e in varie lingue del mondo.
Gli ultimi trenta giorni, benedetti dalla visita del Papa in Terra Santa, sono stati un tempo straordinario per il Redemptoris Mater, che accoglie anche seminaristi provenienti dalle chiese cattoliche orientali. Il 18 maggio, in una liturgia presieduta da monsignor Joseph Jules Zrey, vescovo greco-cattolico di Gerusalemme, e alla presenza di monsignor Moussa El-Hage, arcivescovo maronita di Haifa e della Terra Santa, è stato conferito a due seminaristi provenienti dalla Galilea, Shadi Jozen di Me‘elia e Rami Dakwar di Fassuta, il lettorato nel rito greco-cattolico, mentre un giovane di origine libanese e residente in Israele, Rodi Noura, è stato ordinato cantore e lettore secondo il rito maronita.
FONTE: http://it.lpj.org/2014/06/17/radici-in-terra-santa-missionari-per-il-mondo/

"Solo Dio può riprendere la vera via della rivoluzione"



Un intenso colloquio intorno alla 'Evangelii Gaudium' è andato in scena al Meeting di Rimini. Protagonisti il card. Bassetti e il prof. Carriquiry

Al centro del Meeting di Rimini ci sono anche le sfide dell’Evangelii Gaudium. Venerdì mattina l’Arcivescovo di Perugia e Vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, il card. Gualtiero Bassetti, e il Segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina, Guzmán Carriquiry, hanno messo a tema quello che, come ha ricordato introducendo Roberto Fontolan, può essere definito il manifesto della lettura che l’attuale pontefice dà della fede. “L’Evangelii Gaudium è la riproposizione missionaria di Cristo verso l’uomo. Ma qual è l’uomo verso cui andare?”, si è domandato il card. Bassetti. “È l’uomo così com’è e non come dovrebbe essere”.
Un documento quindi in cui traspare la centralità autentica del soggetto, ben diversa da quella portata avanti dall’umanesimo laico e profano, che alla religione di un Dio che si fa uomo aveva opposto  un uomo che si fa Dio. Questa concezione aveva rappresentato una sfida importante per il Concilio, di cui Bassetti ha più volte ricordato l’importanza, indicando il Pontificato di Francesco come testimonianza viva dei frutti maturati durante i cinquant’anni che ci separano da quell’evento capitale per la storia della Chiesa. “Se noi ci allontaniamo da Cristo ci allontaniamo dal nostro destino”, ha continuato Bassetti, e il rapporto con il prossimo non è altro che segno di questo rapporto con Dio. Per questo ha invitato a “non voltarci dall’altra parte di fronte alla sconfitta dell’uomo”, di fronte ai più poveri, ai più deboli. Di fronte a quelle periferie esistenziali verso le quali il Papa invita ad andare e che il titolo del Meeting di quest’anno ha voluto riprendere.
E, come già aveva sottolineato padre Pizzaballa nell’incontro di apertura della manifestazione, anche Bassetti ha voluto ricordare che il cristiano può guardare senza paura a questa sconfitta, a queste periferie, grazie alla consapevolezza che viene dalla fede. “Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede”. E questa è la sfida che porta con sé l’Evangelii Gaudium, all’interno della quale emerge la coscienza dei “tempi delicati che si stanno vivendo e con i quali non si può far a meno di confrontarsi”.  Grandi sono anche le provocazioni che in questo pontificato giungono dall’America Latina: l’elezione al soglio di Pietro di “questo suo figlio prediletto ha portato la periferia al centro”.  San Giovanni Paolo II l’aveva chiamato il “continente della speranza” e anche oggi esso si presenta a noi uomini dell’Europa come segno di speranza. Cosa è rimasto dell’Europa di San Paolo e di Sant’Agostino, di San Benedetto e di San Francesco? La testimonianza di fede che arriva con forza dall’America Latina esorta noi, abitanti del continente che è stato la culla del pensiero cristiano e occidentale, a riscoprirci alla luce del vangelo.
Dopo aver posto in evidenza i tre punti su cui oggi l’uomo e la società sono chiamati a misurarsi con serietà, la famiglia, il lavoro e la migrazione, Bassetti ha sottolineato che “la missione della Chiesa coincide con la conversione pastorale, che altro non è se non l’esercizio materno della Chiesa stessa”. Il Cardinale ha voluto concludere con un messaggio ai giovani, riprendendo quanto il Papa aveva pronunciato in occasione del suo ultimo viaggio in Corea: “costruite una Chiesa versatile e creativa. Giovani guardate lontano, non fermatevi a razzolare nei pollai, come la gallina che si fa grande della conquista di un verme”. “Cosa sta dicendo lo Spirito di Dio alle Chiese attraverso la testimonianza del Papa?”, Guzmán Carriquiry afferma che per rispondere a questa domanda bisogna lasciarsi guidare proprio dalle parole dell’Evangelii Gaudium. Con un riferimento particolare all’America Latina, Carriquiry ha sottolineato che ogni suo abitante dovrebbe sentirsi interpellato dalle prime parole di questo documento, dove Francesco invita tutti, qualsiasi sia la situazione in cui si ci si trovi, a rinnovare il proprio incontro con Cristo. “Anche quando si rivolge ai vescovi il Papa comincia col domandarsi cosa ne sia oggi della fede. Tutti noi battezzati siamo chiamati a ricominciare da Cristo ed occorre prima di tutto una conversione personale”.
Accanto a questa conversione personale, come già il cardinal Bassetti anche il professor Carriquiry ha richiamato  alla necessità di una conversione pastorale, cioè di “una Chiesa che da conservatrice diventi missionaria, che esca verso le periferie geografiche ed esistenziali”.  La Chiesa oggi pare l’unica che possa rispondere al bisogno degli ultimi, perché “dopo il fallimento della rivoluzione senza Dio, solo Dio può riprendere la vera via della rivoluzione”. Una realtà che spaventa in quanto talvolta, ha concluso Carriquiry, “Dio ci mette davanti a delle sfide che sembrano sproporzionate. Tuttavia, Egli  non ci lascia mai senza strumenti”.
A. Minghetti

*

Cristiani e musulmani: un incontro che è molto più di un "dialogo"

La testimonianza del professore egiziano Wael Farouq, uno dei volti più noti del Meeting di Rimini

Da alcuni anni è uno dei volti più noti ed apprezzati del Meeting di Rimini. Docente presso l’Università Americana del Cairo e visiting professor di lingua araba presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Wael Farouq è stato uno dei fondatori del Meeting del Cairo, di cui è vicepresidente.
A Milano, Farouq anima il progetto SWAP (Share With All People), un think tank di giovani italo-egiziani, con cui quest’anno ha dato vita alla mostra Egitto. Quando i valori prendono vita, conclusasi oggi al Meeting di Rimini, che documenta le storie degli eroi della “primavera” di piazza Tahrir.
Quel processo iniziato quasi quattro anni fa, passando per la breve e controversa parentesi del governo dei Fratelli Musulmani, sta iniziando soltanto adesso a dare i suoi frutti. C’è tuttavia ancora molto da fare, ha dichiarato il professor Farouq a ZENIT, ricordando che l’aspetto più luminoso di questi anni in Egitto non è il cambiamento politico ma il cambiamento dei cuori.
Professor Farouq, come ha conosciuto la realtà del Meeting di Rimini e qual è il più grande insegnamento che ne ha tratto?
Conobbi il Meeting svariati anni fa grazie a uno studente che faceva il dottorato con me all’Università del Cairo. Lo trovai da subito un’iniziativa straordinaria e mi colpì in particolare la grande generosità di queste migliaia di giovani volontari che ogni estate sacrificano parte del tempo delle loro vacanze, pagandosi viaggio, vitto e alloggio per svolgere un servizio molto bello ma anche molto impegnativo, in cui non chiedono nulla per se stessi ma danno l’anima per gli altri. Se parli di questa realtà a chi non è mai venuto in Fiera non ti crede nessuno! È stato anche l’esempio di questi ragazzi che mi ha spinto a tornare più volte negli anni successivi. Così nacque la mia amicizia con queste persone meravigliose che, per amore, fanno cose grandi.
Come è nata l’idea della mostra che avete allestito quest’anno al Meeting?
All’università si è formato un gruppo di studenti di origine egiziana ma tutti nati in Italia: la prima di loro mi aveva seguito al Meeting del 2011, poi, iscrivendosi alla Cattolica, aveva scoperto che ero tra i suoi professori e volle conoscermi. Era rimasta colpita dall’idea di un Egitto unito: musulmani, cattolici, ortodossi, tutti a cooperare per il futuro del loro paese. Alcune di quelle ragazze avevano il velo e si erano sempre sentite isolate rispetto alla società italiana: spiegai loro che ciò che indossavano non doveva essere un ostacolo ma un vantaggio, di cui loro non si erano accorte perché avevano paura.
Un giorno una di loro rimase sconvolta dall’immagine di una bambina di 8-10 crivellata dai proiettili durante la persecuzione anticristiana da parte dei Fratelli Musulmani. Questo episodio ci spinse a cercare l’amicizia e la testimonianza dei cristiani egiziani che avevano subito quegli attacchi. Sono venute fuori, dunque, straordinarie testimonianze di solidarietà reciproca, con famiglie musulmane che avevano ospitato e protetto in casa loro dei cristiani nel momento più drammatico della repressione.
Non voglio negare che la persecuzione dei cristiani esista ma solo sottolineare che c’è dell’altro: nel nostro mondo c’è anche il bene e c’è la nostra amicizia che diventa ogni giorno più forte. La mostra quindi, il cui scopo originario era quello di condannare il male, ha avuto come obiettivo quello di raccontare il bene che è stato fatto, con le storie di personaggi sconosciuti ma eroici, tra cui Gika, morto a soli 16 anni: la sua ed altre testimonianze vale la pena che siano conosciute.
Questa testimonianza è possibile non attraverso il “dialogo” ma attraverso l’incontro. La differenza tra i due concetti è notevole. Io, francamente, non credo nel “dialogo interreligioso”: se un sacerdote e un imam si parlano senza la consapevolezza che dobbiamo amarci reciprocamente è un disastro. Nella realtà dell’incontro, invece, non c’è un dialogo ma un unico racconto che proviene da diverse voci, non due racconti che esprimono due differenti posizioni. Non è così: siamo uniti perché siamo umani. E la presenza di Dio nella vita di un cristiano, di un musulmano o persino di un ateo fa parte della nostra realtà. E i veri credenti devono fare testimonianza di questa presenza di Dio e del bene nella loro vita. Dialogare sulla natura di Dio non serve a nessuno: ciò che conta è testimoniare il bene che vedo nella mia vita e nelle vite degli altri.
A distanza di quasi quattro anni, cosa rimane delle primavere arabe?
Premesso che non amo il termine “primavera” (la primavera da noi non è una bella stagione, arrivano il caldo e le tempeste di sabbia), gli eventi capitati nel nostro paese rappresentano una grandissima novità, un grande cambiamento che però non riguarda il potere. È la persona che cambia. Prima era impossibile per un non musulmano o una donna diventare presidente. Invece 300mila giovani, per lo più musulmani e maschi hanno scelto una donna cristiana come presidente del loro partito: questo è il vero cambiamento, non un cambiamento nel pensiero ma un cambiamento della realtà concreta.
Penso anche a quanto sta succedendo in Iraq, dove migliaia di musulmani hanno cambiato la loro immagine nel profilo di Facebook con la lettera N di Nazareno in segno di solidarietà con i cristiani perseguitati. Non era mai successo nulla del genere nella storia araba.
La nostra vera storia non è la storia del potere ma la storia del cuore. Quando pensiamo all’umanità non pensiamo al presidente o all’esercito ma al vero significato dell’essere umano: questa è la nostra vera storia, che sta capitando ora in Egitto ma alla stampa non interessa…
Ritiene che l’Egitto, anche alla luce dei cambiamenti più recenti, possa diventare un esempio per l’intera regione mediorientale?
Dal punto di vista politico non sono soddisfatto: la nostra speranza è ancora lungi dall’essere realizzata. La cosa più grande che ci ha portato la rivoluzione di piazza Tahrir, comunque, non è stato l’avvento di un nuovo pensiero ma la possibilità di incontrare l’altro, vivere fianco a fianco, proteggersi a vicenda, cristiani e musulmani. Parlare con le persone che abitavano nel tuo palazzo e che per anni avevi ignorato. Questo è il dono che abbiamo ricevuto da questa rivoluzione in cui tanti stereotipi sono falliti.
Anche in Iraq i protagonisti non sono i criminali: ci sono centinaia di migliaia di persone ordinarie e sconosciute che hanno fatto una scelta, la scelta della loro fede. Sanno bene che senza la loro fede, la loro vita non ha significato. Pertanto hanno scelto di lasciare la loro casa, di rischiare la vita, pur di non perdere la fede.
Personalmente la mia vocazione è testimoniare questo bene e questa bellezza che fa parte della nostra realtà. Vediamo solo il male ma io voglio prestare attenzione sopratutto al bene, non perché sia idealista e creda che il male non esista. Però capisco che senza la testimonianza del bene questa sofferenza diventa un sacrificio e dà alla nostra vita un significato.

*

"Di che è questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?"

La prossima edizione del Meeting dell'Amicizia fra i Popoli si terrà a Riminifiera dal 23 al 29 agosto 2015


In tempi di crisi una realtà che continua a reggere è il Meeting di Rimini. A conclusione della XXXV edizione, inaugurata lo scorso 24 agosto e conclusasi oggi sul tema: "Verso le periferie del mondo e dell'esistenza: il destino non ha lasciato solo l'uomo", la presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, ha espresso soddisfazione per i risultati dell'evento.
Nel corso di questa settimana presso Riminifiera si sono tenuti 110 incontri, 14 mostre, 21 spettacoli e 16 manifestazioni sportive. I relatori che hanno presenziato alle tavole rotonde sono stati 280, mentre circa 3600 sono stati i volontari (provenienti da 46 paesi del mondo) che hanno reso concretamente possibile l'evento. Un notevole apporto alla promozione dell'evento è stato svolto dai social network, ha sottolineato il portavoce del Meeting, Stefano Pichi Sermolli. Nel corso della conferenza stampa finale la professoressa Guarnieri ha evidenziato tre punti chiave dell'evento.
In primo luogo il messaggio di papa Francesco, con il suo richiamo alla "realtà dell'essenziale". Significativo anche il messaggio del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha rimarcato la coincidenza dell'evento con la "drammaticità del contesto internazionale". Intervenuto stamattina, nel penultimo incontro del Meeting, l'amministratore delegato di FIAT, Sergio Marchionne, ha infine esortato l'uditorio e gli italiani tutti ad un "richiamo alla realtà" per quanti si ostinano a rimanere "chiusi nelle bolle delle proprie idee". Solo così, ha osservato Marchionne, sarà possibile infondere nuovamente fiducia ai giovani e a migliorare la vita di ciascuno.
Anche quest'anno, ha affermato Guarnieri, il Meeting di Rimini ha saputo "parlare al cuore dell'uomo" e a ricordare che la vera essenza di tutte le convinzioni religiose, ovvero il "bisogno di felicità". È solo continuando ad insistere sull'"essenziale" che può "far interessare tutto a tutti e renderci amici". A conclusione della conferenza stampa, la presidente del Meeting ha annunciato il tema della prossima edizione, ispirato ad una frase del poeta Mario Luzi : "Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?". L'appuntamento è a Riminifiera dal 23 al 29 agosto 2015.
L.Marcolivio