sabato 31 gennaio 2015

Forte è la fiducia vulnerabile




Far crescere alternative generative alle logiche di casta

di Luigino Bruni

Communitas è l’insieme di persone unite non da una “proprietà”, ma da un dovere o da un debito. Non da un “più”, ma da un “meno”, da una mancanza, da un limite che si configura come un onere, o addirittura come una modalità difettiva per colui che ne è “affetto”, a differenza di colui che ne è invece “esente” o “esentato
(Roberto Esposito, Communitas).
Le comunità e le organizzazioni che si sono mantenute nel tempo creative e feconde hanno saputo convivere con la vulnerabilità; non l’hanno eliminata interamente dai loro territori ma l’hanno accudita. La vulnerabilità (da vulnus: ferita), come molte altre parole vere dell’umano, è ambivalente, perché la buona vulnerabilità convive accanto alla cattiva vulnerabilità, e spesso le due sono intrecciate tra di loro. La vulnerabilità buona è quella iscritta in tutte le relazioni umane generative, dove se non metto l’altro nella possibilità di ‘ferirmi’, la relazione non raggiunge la profondità per essere feconda.
La buona vulnerabilità è quella che viviamo dentro le relazioni d’amore, con i figli, nell’amicizia, dentro le comunità primarie della nostra vita. Oggi sappiamo che i team di lavoro più creativi sono quelli dove le persone ricevono un’ autentica, quindi rischiosa, apertura di credito. La generatività in tutti gli ambiti ha un bisogno vitale di libertà, di fiducia, di rischio, tutti elementi che rendono vulnerabile chi concede queste libertà e questa fiducia. La vita è generata da rapporti aperti alla possibilità della ferita relazionale. Non aiuteremmo nessun bambino a diventare una persona libera senza concedergli una fiducia vulnerabile, nelle famiglie, nelle scuole, nei molti luoghi educativi. E da adulti non riusciamo a fiorire nei luoghi di lavoro senza ricevere e dare fiducia rischiosa e vulnerabile.
Ma la cultura delle grandi imprese globali oggi cerca l’impossibile: vuole la creatività dai loro lavoratori senza accogliere la vulnerabilità delle relazioni. Pensiamo al crescente fenomeno della cosiddetta ‘sussidiarietà manageriale’, secondo la quale il manager deve intervenire nelle decisioni di un gruppo che coordina soltanto per quelle attività che risulterebbero peggiori senza il suo intervento di ‘sussidio’. Le grandi imprese si stanno, infatti, accorgendo che per avere il meglio dai loro lavoratori devono metterli nelle condizioni di sentirsi liberi e protagonisti del proprio lavoro. Non si dà altra creatività al di fuori della libertà, ma affinché la sussidiarietà funzioni è indispensabile che i lavoratori e i gruppi di lavoro sperimentino fiducia genuina nei loro confronti, e quindi possano anche abusarne. Ci sono poche cose sulla terra che danno gioia come la partecipazione all’azione collettiva libera tra pari.
Perché questa bella e antica idea di sussidiarietà non resti solo un principio da scrivere nei bilanci sociali, c’è allora un bisogno essenziale che il management si fidi veramente del gruppo di lavoro, e non voglia controllare tutto il processo per evitare abusi di fiducia e ‘ferite’. Se, invece, chi riceve ‘la delega’ percepisce che in realtà quella ‘fiducia’ è solo strumentale, una tecnica per fare più profitti, la sussidiarietà smette di produrre i suoi effetti. Ecco perché la sussidiarietà nelle imprese avrebbe bisogno di assetti proprietari non capitalisti, dove la delega non procede dall’alto verso i lavoratori, ma nella direzione opposta (come avviene in politica, dove il principio di sussidiarietà è nato). Quando, invece, la sussidiarietà discende dall’alto diventa un’altra cosa, che funziona solo quando e se i proprietari decidono che conviene, e che quindi è poco resiliente di fronte ai fallimenti della sussidiarietà. Solo le motivazioni intrinseche associate ad adeguate istituzioni consentono alla sussidiarietà e alle forme partecipative di sopravvivere dopo le crisi dovute a gravi abusi della fiducia. In realtà, le istituzioni naturalmente sussidiarie sarebbero le imprese democratiche e partecipative (come le cooperative), dove veramente la ‘sovranità appartiene al popolo”, cioè ai lavoratori-soci, che la concedono verso l’alto a manager e direttori.
In altre parole, la sussidiarietà e la fiducia funzionano veramente quando sono Vulnerabilita ridrischiosi e vulnerabili. Se dovessimo disegnare una moneta delle relazioni umane a tutto tondo, su un lato rappresenteremo le gioie dell’incontro libero tra gratuità, dall’altra le tante immagini delle nostre ferite che hanno generato quelle gioie.
Ma – e qui sta un altro paradosso del nostro sistema capitalistico – la cultura che si insegna in tutte le business school, odia la vulnerabilità, la considera il suo grande nemico. E per molte ragioni. La civiltà occidentale ha operato attraverso i secoli una netta separazione tra i luoghi della buona e quelli della cattiva vulnerabilità. Non ne ha accettato l’ambivalenza e così ha creato la dicotomia. La buona vulnerabilità capace di generare benedizione l’ha invece associata alla vita privata, alla famiglia e alla donna, che è la prima immagine della ferita generativa. Nella sfera pubblica, interamente costruita sul registro maschile, la vulnerabilità è sempre cattiva. Così anche la vita economia e organizzativa si sono fondate sulla invulnerabilità. Mostrare ferite e fragilità nei luoghi di lavoro è solo e sempre un disvalore, inefficienza, demerito. Gli ultimi decenni di capitalismo finanziario hanno accelerato la natura invulnerabile della cultura lavorativa nelle grandi impresi globali, dove ogni vulnerabilità deve allora essere espulsa.
Il grande mezzo per eliminare la vulnerabilità nelle comunità è sempre stata l’immunità. L’immunità è oggi la nota principale delle grandi imprese capitalistiche. Ogni cultura invulnerabile è anche una cultura immunitaria: se non voglio essere ferito dalla relazione con te, devo impedirti di toccarmi, costruendo un sistema di relazioni che eviti ogni forma di contaminazione. L’immunità è l’assenza di esposizione al tocco dell’altro. L’immunitas è la negazione dellacommunitas: l’anima della communitas è il munus (dono e obbligo) reciproco, quella dell’immunitas è l’ingratitudine reciproca, l’assenza e l’opposto del dono (in-munus, immune).
Tutte le società immunitarie sono radicalmente gerarchiche, perché aumentano le distanze verticali e orizzontali tra le persone per non farle toccare, e così poterle gestire e orientarle ai loro fini. La prima funzione della gerarchia è quella di non far mescolare le persone tra di loro (è questa l’origine della parola portoghese casta: non contaminata), di non far toccare tra di loro i diversi ma solo i simili. In tutte le società castali-immunitarie è severamente vietato toccare i diversi perché solo gli appartenenti alla stessa casta possono e devono toccarsi tra di loro. Per questa ragione, le società castali conoscono poca creatività e innovazione, perché è sempre la biodiversità ad essere generativa.
È questa mancanza di contatti tra diversi una causa radicale di decadimento delle elites nelle società castali, comprese le nostre imprese globali. I movimenti mendicanti del duecento e trecento furono fattore di grandi innovazioni e generatività economica, sociale, politica e spirituale, scardinando l’ordine castale e immunitario del primo medioevo delle loro società, perché accolsero negli stessi conventi poveri e ricchi, persone di varie regioni e paesi. Quelle nuove comunità furono capaci di enormi innovazioni perché misero insieme mercanti e poveri, banchieri e artigiani, artisti e mistici. Quella biodiversità divenne creatività e innovazione, una innovazione che nacque dalla non aver paura delle ferite, delle stigmate della fraternità. La fraternità è anti-immunitaria, come ci ha detto Francesco d’Assisi abbracciando e baciando il lebbroso – la solidarietà-filantropia è quasi sempre immune, la fraternità mai.
La radice di ogni civiltà immunitaria-castale è la gestione della distinzione fondamentale tra puro e impuro: ci sono attività, persone, cose che sono pure e possono essere toccate, e altre che sono impure e possono essere toccate solo dalle caste più infime. Ma in tutte le società castali-immunitari c’è anche una profonda interdipendenza tra le caste. Anche i bramini hanno bisogno dei paria (e viceversa), proprio perché a causa dell’immunità in queste società la divisione del lavoro è radicale. Ecco allora che è indispensabile la presenza di mediatori, che hanno la speciale funzione di mettere in contatto coloro che non possono toccarsi tra di loro.
Si comprende, allora, perché le grandi imprese capitalistiche sono oggi l’immagine più nitida di società immunitarie-castali, e che i manager sono questi mediatori che mettono in contatto le varie ‘caste’ dell’impresa senza che nessuno tocchi i diversi, gli impuri.  Ci si tocca solo tra uguali (a volte troppo e male tra colleghi-e). I membri dei ranghi ‘inferiori’ possono essere toccati dai superiori solo con strumenti e tecniche, non direttamente. Le grandi imprese sono sempre meno mescolate, anche quando le persone lavorano negli open space (dove restano ben separate nel potere e negli stipendi).
Smettiamo di essere generativi, in tutti gli ambiti, quando smettiamo di incontrarci e di abbracciarci, soprattutto con i poveri.  Le persone perdono creatività quando col passare degli anni riducono contatti con i diversi. Qualcosa di simile sta accadendo anche per le elites delle organizzazioni, delle istituzioni e quindi anche delle imprese: la cultura immunitaria che le porta a non contaminarsi ne determina la sterilità e la decadenza. Molta parte della nostra generatività, energia, forza, dipendono dal contatto con altre umanità, culture, vite, corpi. La speranza e l’eccellenza nascono e rinascono dai luoghi promiscui del vivere, dall’incontro di umanità intere, dall’essere nutriti dai tanti cibi del villaggio.
È all’orizzonte una profonda crisi del capitalismo, generata dal decadimento delle elites impoverite dall’immunità e non fecondate dalla buona vulnerabilità delle relazioni interamente umane. La paura delle ferite relazionali sta creando una cultura globale immunitaria, di cui le grandi imprese sono i grandi vettori globali. Per questa ragione, una grande sfida dei prossimi anni sarà allora la sopravvivenza stessa delle organizzazioni. L’apoteosi della cultura immunitaria-invulnerabile sarà infatti l’eliminazione delle organizzazioni, la scomparsa dei luoghi dove si con-vive e co-lavora, per creare al loro posto produzioni decentrate dove ciascuno lavora a casa propria grazie a tecnologie sempre più sofisticate. Consumatori senza negozi, banking senza banche, scuole online senza docenti e studenti, e magari ospedali senza infermieri e medici popolati da efficientissimi robot e telecamere. Sarà così raggiunta l‘eliminazione definitiva della vulnerabilità, avremo finalmente trovato l’albero della vita, ma sarà un albero senza frutti, o con frutti senza sapore. E sarà la fame di frutti saporiti che ci farà ancora incontrare, abbracciare, vivere.

Still Alice



Nel film diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland, una donna, Alice, afflitta dal morbo di Alzheimer, è sostenuta dai suoi familiari e la tentazione dell'eutanasia viene superata


Alice ha 50 anni, svolge una professione che le dà piena soddisfazione (è professoressa di Linguistica presso la Columbia University) e vive in una famiglia a cui dà e riceve molto affetto (è sposata con tre figli ormai grandi). Dopo alcune analisi le viene diagnosticato il morbo di Alzheimer. I suoi familiari la colmano di attenzioni ma Alice ha davanti a se un lungo cammino in discesa: dovrà abbandonare la sua professione e alla fine non sarà più in grado di riconoscere chi le sta davanti…
Nel recente La teoria del tutto abbiamo visto come la malattia, gravemente limitante nel fisico, di Stephen Hawking, il celebre scienziato inglese, sia stata combattuta e gestita nel migliore dei modi. Il suo libro più famoso fu scritto proprio quando lui ormai poteva muovere un solo dito.
Per l’Alzheimer, la malattia che ha colpito Alice in modo precoce a cinquant’anni, la situazione è in qualche modo più drammatica: il fisico non viene intacomportano come ci si dovrebbe aspettare. Il marito è premuroso, anche se, per i suoi numerosi impegni di lavoro, finirà per ingaggiare una badante che possa stare in casa con Alice nei periodi in cui lui è via. Delle figlie, solo la più piccola si mostra più premurosa. Senza impegni sentimentali e con un lavoro precario (sta cercando di affermarsi come attrice di teatro) passa più tempo con lei, a volte litigando, poi chiedendo scusa oppure leggendole qualche brano di drammaturgia.
Lo sconforto non viene mai a galla in modo palese ma prende la via di azioni concrete. In due momenti viene presa in considerazione l’eutanasia. Alice registra sul suo PC un promemoria per se stessa indicando dove ha nascosto in casa certe pillole letali. Il progetto non avrà seguito per l’incapacità cronica di Alice, mesi dopo, di seguire quelle semplici istruzioni. Il marito, in un momento in cui si trova da solo con Alice, le chiede se si è stancata di quella vita. Alice non comprende la domanda e il marito non insiste.
Il film cerca di distinguersi dai tanti già realizzati su questa malattia cercando di coinvolgere lo spettatore in questo progressivo viaggio verso il vuoto. E’ un intento riuscito solo in parte. Il film può contare sulla recitazione strabiliante di Julianne Moore, che ha la capacità di trasferire sul suo volto la progressiva invasività della malattia. Meno curata invece l’interazione fra lei e gli altri componenti della famiglia. La figura del marito è la meno sviluppata (eppure si tratta di Alec Baldwin), preso in conflitto irrisolto fra l’attenzione verso la moglie e la necessità di non ridurre i suoi impegni di lavoro. Lo stile narrativo è complessivamente discreto, quasi pudico e ci mostra un lento avanzare, senza strappi, verso ciò che deve inesorabilmente accadere. Ma Alice sembra più circondata di gentilezza che di affetto. E’ vero che l’ultima parola che Alice riesce a proferire coscientemente è “amore” rivolta a Lydia (Kristen Stewart), ma è la mente che perde progressivamente le sue capacità cognitive e la persona colpita, finché riesce ad essere cosciente a se stessa, si accorge del suo inesorabile procedere verso l’inutilità e del peso crescente che arreca alle persone che le stanno intorno.
Questo film è un modo di vivere “dentro” la malattia: è la cronaca, mese per mese di ciò che accade ad Alice, visto con i suoi stessi occhi. Le sue visite al dottore, i suoi piccoli trucchi per mantenere sempre attiva la memoria. Nella prima fase Alice si rivela ancora combattiva e accetta la sfida di parlare a una conferenza sulla sua malattia. Intorno a lei tutti si cl’unica figlia che l’ha realmente accudita, a sottolineare la vittoria del prendersi cura rispetto ad altre soluzioni più sbrigative ed egoiste, ma sembra quasi che ogni familiare abbia fatto, per Alice, quello che era giusto aspettarsi da loro, evitando accuratamente di venir coinvolti emotivamente. Sorgono inoltre dei dubbi sulla rappresentazione di un decorso così progressivo e “dolce” della malattia. In altri film, come Una sconfinata giovinezza del nostro Pupi Avati, è stato ricordato come sia possibile aspettarsi, dal malato, anche fasi di reazione violenta.
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Titolo Originale: Still AlicePaese: USA
Anno: 2014
Regia: Richard Glatzer, Wash Westmoreland
Sceneggiatura: Richard Glatzer, Wash Westmoreland
Produzione: KILLER FILMS, BIG INDIE PICTURES, SHRIVER FILMS
Durata: 99
Interpreti: Julianne Moore, Kristen Stewart, Alec Baldwin, Kate Bosworth
Per ogni approfondimento: http://www.familycinematv.it

Lo sguardo nello sguardo del prossimo


Papa Francesco e la vita consacrata: l'influsso di Romano Guardini


Per comprendere l’insegnamento di papa Francesco circa la vita consacrata importante è l’intervento che fece al Sinodo del 1994 – ripreso nella Lettera Apostolica a tutti i consacrati in occasione dell'Anno della Vita Consacrata – in cui afferma: «Non si può riflettere sulla vita consacrata se non all'interno della Chiesa. Mi piace pensare queste relazioni in termini di tensione, per cui la cornice sarà cornice di tensioni. Così va inteso, perché è una cornice di vita. Ogni tensione si realizza fra polarità; quindi, come si risolve? Una tensione non si può risolvere per assimilazione di uno dei poli, e neppure per sintesi (di tipo hegeliano) che annulli le polarità. La tensione (e in questo caso la tensione ecclesiale) deve risolversi in un piano superiore, che non sia sintesi, ma che la soluzione contenga virtualmente le polarità che producono le tensioni» (riportato integralmente qui). Tale attenzione alla “tensione tra polarità” è una reminiscenza dell’opera di Romano Guardini, L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente. Questo scritto del teologo italo tedesco risulta quindi fondamentale per comprendere il modo con cui papa Francesco si approccia alla realtà, compresa quella della vita consacrata, come evidenza il gesuita argentino Diego Javier Fares in una prefazione alla suddetta opera di Guardini pubblicata da L’Osservatore Romano il 22 agosto 2014.
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L’affinità di Papa Francesco con Romano Guardini è – lo dico con gioia – esistenziale, perché è molto più grande e intensa di una semplice affinità intellettuale. L’occhio che ascolta – titolo di un’opera di Paul Claudel – è la qualità che von Balthasar individua nella visione di Guardini: il suo occhio ascolta, si mette a disposizione totale di colui che sta guardando (il concreto vivente, cioè l’altro, e quindi in definitiva Gesù Cristo, perché è Lui il Concreto Vivente). Questo occhio che ascolta, con attenzione e amore, è «l’elemento essenziale dell’incontro»: lo sguardo nello sguardo del prossimo. Credo che sia una bella immagine per rappresentare l’affinità fra Papa Francesco e Romano Guardini: entrambi guardano con occhi che ascoltano.
Nel libro L’opposizione polare, scritto in gioventù, Guardini sviluppò un suo metodo per realizzare una visione che lasciasse spazio all’oggetto, in modo tale che l’oggetto stesso potesse essere il fulcro da cui far partire la riflessione. «La visione che lascia spazio a ciò che si mostra è possibile solo con la disciplina e un impegno faticoso che ha lo scopo di superare se stessi». Guardini afferma che «la vita umana in generale, sia nella sua totalità che nei suoi aspetti particolari, è strutturata in forma oppositiva». Per questo motivo «la verità è il risultato delle opposizioni polari, in cui una volta può prevalere la rinuncia del soggetto che in questo modo non dà più valore a se stesso, e permette all’oggetto di guadagnare spazio; al contrario in un’altra occasione può prevalere lo sforzo di applicazione del soggetto fuori da se stesso, all’interno dell’oggetto, per guadagnare più comprensione».
Guardini si rese subito conto della ricchezza e duttilità del suo metodo e avrebbe preferito aspettare di svilupparlo più in profondità, prima di pubblicarlo, ma così non accadde. Anche dopo la pubblicazione Guardini perfezionò il suo metodo di osservazione, mantenendo le tensioni polari e applicandolo a temi e figure concrete. Per questo motivo credo fermamente che L’opposizione polare sia un’opera magistrale, da tenere accanto e da consultare mentre si leggono altre opere di Guardini. Per esempio Il Signore, dello stesso autore, potrà essere affrontata con maggiore chiarezza e precisione di analisi tenendo presente la visione più ampia e originale sul tema offerta dall’Opposizione polare.
Consideriamo, infatti, il prologo al Signore: qui Guardini afferma che «chiunque decida di parlare della vita e della personalità di Gesù Cristo, deve prendere coscienza in modo chiaro e perfetto di ciò che si accinge a fare e deve altresì prendere coscienza dei “limiti” che tale argomento gli impone». Ma qual è il modo giusto per operare questa presa di coscienza? A mio parere, è sfogliare L’opposizione polare, lettura che sola consente di raggiungere il risultato auspicato: «Partendo da punti di vista diversi (in tensione polare uno con l’altro), mostrare che tutte le qualità e i tratti essenziali di Gesù portano all’incomprensibile; un’incomprensibilità però piena di un’infinita promessa».
Dunque L’opposizione polare ci permette di prendere coscienza dell’immenso lavoro di Guardini in quella che abbiamo definito l’arte di «limitare» se stesso per poter vedere, e ascoltare in tutta la sua ricchezza, non un «oggetto» che sarebbe in gran parte «una proiezione del soggetto e delle sue tecniche» ma «il vivente concreto», che si offre e si rivela accettando di essere ricevuto e compreso dall’altro. 
L’utilità di leggere e consultare questo saggio non risiede, quindi, nel tentativo di comprendere l’opposizione polare come teoria astratta ma, invece, nella possibilità di avvalersi del metodo strutturato dall’opera di Guardini in tutta la sua ricchezza e profondità. 
Forse il suo lavoro non è mai stato adeguatamente valorizzato dalle élites intellettuali né adeguatamente presentato all’attenzione dei lettori, a cui può capitare di leggerlo apprezzandone la parte «comprensibile», la superficie, senza però rendersi conto dell’immenso lavoro intellettuale profuso per rendere le idee nel modo più nitido e semplice.
Le affinità tra Romano Guardini e Papa Francesco possono essere illuminate da un sogno di Guardini che Bergoglio trascrisse e commentò nel 1986, mentre lavorava alla propria tesi di dottorato proprio sull’autore dell’Opposizione polare. Leggiamo in una lettera: «Questa notte, mentre albeggiava, quando di solito arrivano i sogni, cominciai a farne uno. Cosa successe nel sogno non lo so più, però qualcosa fu detto, e non so se fu detto a me o su di me. E fu detto che quando l’uomo nasce gli viene donata una parola e ciò ha un significato molto importante: non è solamente una capacità o un’attitudine ma è una parola. Questa parola è detta dentro se stesso (Wesen), però è una parola d’ordine (Passwort) per tutto ciò che accade. È sia forza che debolezza. È un incarico e un dono. È una sicurezza (protezione) e un rischio. Tutto ciò che accade mentre gli anni scorrono è la traduzione di questa parola, è il suo chiarimento, è la sua realizzazione. E tutto questo avviene perché colui a cui fu detta questa parola (ad ogni uomo viene detta una parola) la comprenda e viva rispettandola. E forse questa parola sarà la base (il supporto) di quella parola che il Giudice un giorno gli dirà».
Bergoglio nei suoi appunti di lavoro per la tesi commenta così: «Qui troviamo un riferimento a una nostalgia suscitata dalla prima Parolache fu detta (e ciò significa che fu annunciata). Quindi abbiamo unkèrigma esistenziale previo al kèrigma evangelico e sul quale si radica il kèrigma evangelico. Com’è questo kèrigma esistenziale? Questa parola-kèrigma esistenziale è donata all’uomo. 
La sua vita è un’avventura fatta di incontri, perdite e re-incontri con la vita stessa. I momenti in cui si realizza una sorta di “consonanza” interiore riguardano l’incontro, quelli che si riferiscono alla dissonanza sono la ricerca e il non-incontro. Anche qui abbiamo una base per la consolazione teologale (esempio di consonanza) e la desolazione (dissonanza). La parola “fiamma”: è nostalgia. Questa parola, quindi, ha una storia: è storica. Il mito che meglio rappresenta sia il rincontro che il ritorno è quello di Ulisse: il nòstos-àlgos in quel contesto è chiaro. Tutto il suo viaggio è un non accettare le “parole” che non sono la parola».
L’estetica, o il fatto estetico, «ha nelle opere di Guardini un potere vitale che si esprime nella sua visione del kèrigma. Il suo modo di annunciare il Vangelo e di domandarsi qual è la verità di tale annuncio non è solo una ricerca intellettuale. La spiegazione intellettuale prepara, fornisce gli elementi e conduce fino a uno spazio o a un ambito di mediazione in cui è collocato chi annuncia il kèrigma, il quale non va più avanti ma, possiamo dire, consegna questo spazio, questo ambito, a colui che ascolta il kèrigma. Ebbene: in questo ambito possiamo trovare alcuni aspetti della struttura dell’intelletto e della volontà (verum et bonum), tuttavia la mia ipotesi è che in Guardini, per ciò che concerne questo ambito, il verum e il bonum vengono ristrutturati in funzione del pulchrum. È un ambito di mediazione fondamentalmente estetico».
Questo spazio riservato alla mediazione è il luogo dove Papa Francesco si colloca quando va a incontrare l’uomo contemporaneo. Guardini intuì che questo «ambito umano», che è venuto prima dell’epoca moderna, che è stato dimezzato dalla natura (che è sempre aperta verso il Creatore), e che oggi è ulteriormente dimezzato dalla tecnica, si sta chiudendo sempre di più. Le attuali scoperte scientifiche stanno imprimendo alla nostra vita un ritmo ansioso e nevrotico mentre le statistiche e le scienze matematiche ci stanno imponendo una visione fredda e inumana. Per questo motivo la scelta di Papa Francesco di cercare una vicinanza e un incontro con le persone ha ottenuto un riscontro così entusiastico: il mondo era assetato e desideroso di uno spazio di incontro così caldo, disteso, comprensivo e gratuito.
Papa Francesco si appella a questo kèrigma esistenziale, che è precedente al kèrigma esplicito del Vangelo. Si sintonizza con la Parola che viene detta a tutti gli uomini che nascono in questo mondo. Per questo motivo viene ascoltato così attentamente, perché parla un linguaggio che viene da lontano. E in questo discorso L’opposizione polare si inserisce come la presa di coscienza di tutto ciò che occorre per «aprire questo ambito» e «situarsi in esso», al fine di non dire parole che non siano la «Parola».
Zenit

Giornata per la vita, le cifre spiegano perché ci vuole

Giornata per la vita, le cifre spiegano perché ci vuole
di Renzo Puccetti

Oggi è il giorno che la Chiesa dedica alla giornata per la vita. Questa del 2015 è la 37ª edizione, la prima fu nel 1978, anno d'introduzione della legge 194 che in Italia rese l'aborto su richiesta della donna legale e gratuito. È al contempo luminoso e tragico l'interrogativo che i vescovi hanno rivolto nel loro messaggio per questa giornata: "Che mondo lasceremo ai figli, ma anche a quali figli lasceremo il mondo?". Mi ha sempre colpito il messaggio che il cardinale Bernardin di Chicago, quello che l'abortista presidente USA Obama cita tra le sue figure fonte d'ispirazione, dette in occasione della conferenza della Seamless garment(la tunica senza cuciture) alla Fordham University il 6 dicembre 1983 riguardo alla necessità di costruire una "consistent ethic of life" (coerente etica della vita). In qualche modo faccio mia la prospettiva di quel prelato considerato "open mind" (di mentalità aperta) dall'intellighenzialiberal americana. 
Vi sono molte giornate: dei migranti, della pace, della memoria; tutte hanno al centro la difesa della dignità e inviolabilità della vita umana. Sappiamo che la violazione del bene primario della vita innocente è antica come la storia dell'uomo, il racconto biblico narra che essa inizia con Caino. La potenza mediatica di cui disponiamo ci rimanda continuamente notizie da tutto il globo di violazioni che suscitano orrore, sgomento, riprovazione. C'è però una forma che non solo è silenziata, non solo non indigna né la pubblica opinione, né, come mostrano tutte le rilevazioni, la maggioranza dei cattolici, persino quelli regolarmente praticanti, ma che addirittura riceve sostegno, approvazione, condivisione. È la soppressione dell'essere umano nei suoi primi nove mesi di vita, quando ancora si trova ad essere nel corpo della madre (o nella piastra di coltura nelle procedure di fecondazione artificiale dove la mortalità è del 94%).
Non ho assistito neppure ad una sola puntata di Porta a Porta in cui Bruno Vespa facesse vedere un modellino di un bambino abortito. Dicono che mostrare immagini dei resti umani dopo un aborto sia trash, dicono sia una violenza, una leggerezza che può persino costarti il posto di lavoro. Eppure immagini di barconi affondati, vittime di bombardamenti, di boia sgozzatori e lapidatori, di genocidi sono patrimonio di TG e programmi di approfondimento regolarmente mostrati nelle case degli italiani a grandi e piccini; eppure giustamente intere scolaresche sono condotte ad Auschwitz per vedere e non dimenticare. Ma per le vittime degli ambulatori abortivi non è così: censura delle immagini, delle parole, dei numeri.
Prima che qualche misericordioso evoluzionista dottrinale si cimenti anche in questo ambito, vorrei ricordare che l'essere umano ha diritto alla vita sin dal concepimento e fino alla morte naturale. Vorrei ricordare che negare quel diritto è un "abominevole delitto". È insegnamento di sempre della Chiesa, ribadito da tutti i Papi, dai padri conciliari e dai Santi. Mi pare quindi giusto, opportuno e doveroso dare in questa giornata la misura quantitativa della sanguinaria violazione di questo basilare diritto umano accostandola a quanto invece oggetto di costante attenzione nell'arena mediatica e omiletica. 
L'Agenzia ONU per i rifugiati calcola che nel Mediterraneo sono morti nell'anno appena trascorso 3.419 migranti tentando di raggiungere le coste europee. Gli aborti in Italia nel 2013 sono stati 102.644, un numero trenta volte più grande. Dal 1978 al 2013 sono stati 5.538.322 i figli abortiti legalmente in Italia, l'equivalente degli abitanti di sei regioni: Trentino, Umbria, Marche, Abruzzi, Molise, Basilicata.

Secondo la rivista scientifica "The Lancet" i bambini che annualmente muoiono entro i cinque anni per cause collegate alla malnutrizione sono tre milioni e centomila. Ma altri bambini muoiono prima dei cinque anni e senza che neppure sia stato dato loro il tempo di diventare denutriti: sono i quarantaquattro milioni di bambini abortiti, ottantaquattro al minuto, una cifra quattordici volte più alta del numero spaventoso di morti per fame.

Uomini e donne di ogni età muoiono a causa delle guerre. Matthew White ha scritto un libro intitolato "Il libro nero dell’umanità. La cronaca e i numeri delle cento peggiori atrocità della storia". L'autore ha calcolato che a partire dalla seconda guerra Persiana nel 480 a.C. fino alla seconda guerra nel Congo terminata nel 2002, sono  445 milioni gli esseri umani morti a causa di tutte le guerre. Il numero degli aborti effettuati negli ultimi quarant'anni nel mondo è pari a un miliardo e settecentoventi milioni. L'aborto ha fatto in 40 anni quattro volte più morti di 2.482 anni di guerra.
Nei sei anni e mezzo intercorsi tra la notte dei cristalli e la resa, la bestialità nazista fece scempio di sei milioni di esseri umani "colpevoli" di essere di stirpe ebraica. "Untermensch" (creatura sub-umana), era il modo con cui chiamavano il giudeo. Nelle 27 nazioni che formano l'Europa nel solo 2008 gli esseri umani soppressi con l'aborto sono stati oltre un milione e duecentomila (Sociology Mind, 2012). L'industria dell'aborto europea "tratta" un volume del 30% maggiore rispetto a quella dell'olocausto. Li chiamano "grumi di cellule".

Chi aiutò a sottrarsi alla mattanza nazista viene oggi chiamato "giusto tra le Nazioni" e giustamente Oscar Schindler e Giorgio Perlasca sono eroi celebrati dalla settima arte. Paola Bonzi, Serena Taccari, Sabrina Paluzzi, Flora Gualdani e i volontari dei Centri Aiuto alla Vita che ogni giorno salvano esseri umani sono invece additati quali pericolosi e violenti integralisti a cui si dovrebbe inibire l'accesso ad ospedali, scuole, sale e strade. Lodano la coscienza di Antigone e di tutti coloro che violarono la legge per servire la giustizia, ma la coscienza mia e di tutti i medici obiettori all'aborto vorrebbero fosse ripagata col licenziamento e poi l'interdizione all'esercizio stesso della medicina.
Ora, ditemi voi, davanti a tutto questo, cosa c'è di più nobile che potere raccontare ai nostri figli e nipoti che nel 37º anno di barbarie, con pochissimi mezzi, ma tanto ardore, combattevamo per la civiltà, la speranza e la vita?

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Gianna Jessen, "Grata di essere viva"
di Lorenzo Bertocchi
La sua è la storia di una vita che non doveva esistere. Di questa storia hanno fatto anche un film, October Baby (2011), per dire che tra scegliere la vita e scartarla c’è una bella differenza: una persona. E una persona non è un dettaglio. 
Gianna Jessen l’ho vista sempre in uno schermo, in foto o in qualche filmato sul web, anche questa volta la incontro dietro uno schermo, ma presto potrò stringerle la mano. Perché a breve sarà in Italia. Ma andiamo al sodo. Gianna Jessen è sopravvissuta ad un tentativo di aborto salino, è stata partorita viva, il 6 aprile 1977, dopo 18 ore passate a combattere con una maledetta soluzione salina iniettata nell’utero materno per mandare in fumo la creatura. Ma qualcosa è andato storto nei piani del dottor morte, questa volta l’aborto è abortito, un esuberante sussulto di vita ha schiacciato il drago.
Gianna come ti senti ad essere sopravvissuta?
Grata di essere viva.
Beh, con questa risposta credo ci sia poco altro da chiederti…
Vivo una vita interessante e…inusuale. Fin da subito ho cominciato a lottare. 
Ok, allora dimmi perché continui a lottare?
Perché ho ricevuto la vita e voglio portare la vita. Essere pro-life per me riguarda la dignità di ogni vita umana, riguarda la dignità della madre, del padre, del bambino. Dell’uomo. Continuo a lottare perché voglio difendere chi è vulnerabile alla morte in maniera ingiusta. Ci sono sempre più cose che erano considerate orribili fino a pochi anni fa e che ora stanno diventando la normalità nel pensiero della gente ed è veramente preoccupante riguardo i valori della vita, non solo nel grembo materno.  
Che tipo di combattente sei?
Una mamma. Ho i miei figli, certo, ma ci sono tante persone che non sono mai cresciute, che continuano una vita da adolescente. Mi piace pensarmi come una madre che cerca di donare dei principi, dei valori. Sapendo che a una mamma non interessa essere adorata, ma adorare i propri figli. Le persone possono anche non apprezzare quello che ho da dire, ma in un mondo senza genitori e senza limiti, senza nulla che arrivi davvero a portare pace, quando qualcuno dice: “Hey, so che ci sono dei limiti”, dopo un po’ ti accorgi che le persone cominciano ad ascoltare seriamente. Perché hanno sperimentato l’altra strada e ne hanno provato gli effetti, che sono di morte e non di pace. 
Sembra che la cultura della morte segni molti punti a suo favore…
Penso che stiamo vivendo tempi complicati. Se ami il bene, la bellezza e la gentilezza, ti chiedi quanti sono rimasti al mondo a pensarla come te. Il vero problema è che oggi non esiste più il bene e il male, la verità è qualsiasi cosa che desideri che sia. C’è la verità fai da te. Tutto questo è ridicolo e anche un po’ arrogante. Penso sempre a quanto siamo piccoli: non possiamo far battere il cuore, non possiamo salvarci da un incidente stradale, non possiamo mantenere le nostre funzioni corporee… Siamo piccoli, ma crediamo di poter salvare il pianeta Terra utilizzando cinque volte l’asciugamano per la doccia…
Come?
Voglio dire che abbiamo l’arroganza di pensare che è in nostro potere salvare il pianeta dal decadimento, mentre dall’altra parte non vogliamo aver nulla a che fare con Dio! Se non c’è Dio e niente importa, perché salviamo la Terra? A chi importa? Quando penso alla logica e all’arroganza di tutto questo mi dico che questo nostro tempo è un tempo preoccupante in cui vivere. D’altro canto però è anche un bellissimo tempo, perché penso che sia un occasione perfetta per dire la verità alla gente. Si arriverà a un punto in cui vedremo che questa arroganza non ha senso, e vorremo vedere il vero Dio.
Gianna, ma chi è Dio per una che è “grata di essere viva”?
Mio Padre. L’unico Padre che io abbia mai avuto. Sono cristiana. Ho bisogno di Gesù. Mi guida, mi protegge, condivide tutto di me. E’ tutto per me e non posso fare nulla, non ho nessuno scopo…anche combattere l’aborto, per quanto nobile sia, diventa senza significato, se non posso stare con Gesù, conoscere Gesù. Dio è colui che resuscita i morti, fa l’impossibile, ti resta accanto, ti risponde, gli importa di me, mi dona il tramonto, mi ascolta…
Bellissimo, ma molti che difendono il diritto all’aborto non vogliono sentire parlare del Creatore…
Gli direi: non vuoi avere nulla a che fare con Dio? Ok, va bene, adori la scienza medica? D’accordo, allora guarda le ecografie. Lì vedi un bambino che danza nel grembo di sua madre, a 3 settimane puoi già sentire il battito del suo cuore. E non ho mai capito perché non c’è un altro momento della vita umana in cui quando senti il battito cardiaco lo neghi o lo ignori. Ma secondo la logica dell’aborto puoi arrivare a dire che un cuore che batte è una cosa irrilevante. Di fronte a chi mi dice “voglio poter scegliere”, dico no. La scelta era di andare o non andare a letto con quel ragazzo, quella era la scelta. Sembra che possiamo fare tutto quello che vogliamo senza conseguenze.
Cosa diresti a una donna che ha scelto di abortire?
Non voglio condannare nessuno, ma voglio portare la vita. Le donne che hanno abortito vivono nel dolore, nella rabbia, nell’autodisprezzo, e ci devono convivere. Allora parlo perché voglio davvero vederle libere. A chi difende l’aborto e dice: “e’ per le donne che lo facciamo”, vorrei dire che anch’io sono una donna, e lo ero anche nel grembo di mia madre. Perché nessuna attivista, nessuna femminista, ha lottato per la mia vita? Allora è una menzogna, non lo si fa per le donne, ma è politica e business. Invece, dobbiamo dare spazio a quei centri che aiutano le donne a vivere una gravidanza travagliata, per aiutarle a superare momenti difficili. Troppe donne arrivano all’aborto perché pensano di essere sole, che non ci sia nessuno per aiutarle veramente. Sono migliaia le vite salvate da questi centri. Migliaia di migliaia in tutto il mondo.
Gianna, un'ultima domanda. Hai detto che viviamo tempi complicati. Come se ne esce?
Possiamo e dobbiamo smettere di togliere la vita, sfruttare le donne e i bambini per motivi politici, di potere e denaro. Ma c’è un’altra risposta che vale per tutti i tempi. Da soli non ce la si fa, l’uomo ha bisogno del Salvatore. 
Grazie Gianna. La tua è una storia che non avremmo mai potuto raccontare e questo fa un effetto davvero strano. Un effetto su cui non si riflette mai abbastanza. E’ la differenza tra lo scegliere la vita e scartarla. Per chi vuole vederla in carne ed ossa questa differenza, Gianna sarà in Italia a Imola il prossimo 24 febbraio e a S. Giovanni in Persicelo (Bologna) il 26 febbraio. Per info www.chestertonpersiceto.it (per l’intervista si ringraziano Monica Gibertoni e Lucrezia Jones)

IV Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

Nella quarta domenica del Tempo ordinario la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù insegna nella sinagoga di Cafarnao e tutti erano stupiti perché insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. C’è lì un uomo posseduto da uno spirito impuro che gli grida contro. Gesù dice:
«Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Il commento di don Ezechiele Pasotti:
C’è una pagina del Vaticano II che può essere posta qui come commento al Vangelo di oggi: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto” (Dei Verbum, 2). È proprio ciò che Marco racconta nel Vangelo di oggi: l’amore di Dio si manifesta nella parola del Signore, pronunciata con autorità – non le chiacchiere vuote di giornali e televisioni, ed anche nostre –, una parola che opera, che libera chi è vittima del male, che lo strappa dal potere del Maligno per restituirlo alla sua dignità, alla sua libertà di figlio di Dio. “Taci, esci da lui!”. Anche oggi siamo invitati a incontrare, nella Liturgia, il Signore che viene con la sua parola, detta con autorità, per liberarci dal potere del Maligno che si insinua dentro di noi per strapparci il dono del battesimo.

*

MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 105,47
Salvaci, Signore Dio nostro,
e raccoglici da tutti i popoli,
perché proclamiamo il tuo santo nome
e ci gloriamo della tua lode.

Colletta

Dio grande e misericordioso, concedi a noi tuoi fedeli di adorarti con tutta l'anima e di amare i nostri fratelli nella carità del Cristo. Egli è Dio e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

 
  
Oppure:
O Padre, che nel Cristo tuo Figlio ci hai dato l'unico maestro di sapienza e il liberatore dalle potenze del male, rendici forti nella professione della fede, perché in parole e opere proclamiamo la verità e testimoniamo la beatitudine di coloro che a te si affidano. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
   
LITURGIA DELLA PAROLA
    
Prima Lettura  Dt 18, 15-20
Susciterò un profeta e gli porrò in bocca le mie parole.
Dal libro del Deuteronòmio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull'Oreb, il giorno dell'assemblea, dicendo: "Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia".
Il Signore mi rispose: "Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire"».
    
Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 94/95
Ascoltate oggi la voce del Signore.
    
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.

Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio
e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.

Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova
pur avendo visto le mie opere».
     
Seconda Lettura
  1 Cor 7, 32-35
La vergine si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
  
Canto al Vangelo
  Mt 4,16
Alleluia, alleluia.
Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce,
per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta.
Alleluia.
   
   
Vangelo  Mc 1, 21-28
Insegnava loro come uno che ha autorità.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,]insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnaménto nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

*

Solo Gesù ci può guarire dal veleno che il demonio ci ha iniettato

Commento al Vangelo della IV Domenica del Tempo Ordinario - Anno B


Con il brano di questa domenica siamo invitati ad entrare con Gesù in una sua giornata tipo e capire così il cuore della sua missione: strappare gli uomini al regno di satana per ricondurli al Regno di Dio.
La battaglia iniziata nel deserto e proseguita in Galilea si sarebbe compiuta sul Calvario, dove avrebbe sconfitto il nemico di Dio con l'umiltà di un Agnello.
Il demonio sapeva che Gesù era "il Santo di Dio" venuto per “rovinarlo”. Ma rovinare che cosa? Il suo piano di distruzione dell'umanità, la sua volontà di farci precipitare all'inferno dove lui è condannato per l'eternità.
Per riuscire nell'impresa e rubare i figli a Dio, doveva togliergli autorità e credibilità. Doveva insinuare il dubbio nelle sue creature, così che fossero loro a ribellarsi e tagliare con il Creatore. Ed è proprio quello che fa con tutti noi, spargendo menzogne su Dio e sulla storia. 
Il demonio, infatti, è uno “spirito impuro” perché mira a sporcare lo sguardo inquinandolo alla fonte; e uno sguardo macchiato non vede più l'amore di Dio, smarrisce le ragioni per lodarlo e quindi se ne separa.
Ci aspetta nei pressi dell'albero della conoscenza del bene e del male, pronto a ingannarci per iniettarci il veleno nel cuore: "perché devi lasciare che sia un altro a decidere per te?". Già, perché qualcuno deve limitarmi o togliermi la libertà?
Ma questa domanda non sorge dal nulla, non è naturale come potremmo pensare. Non è dovuta alle circostanze avverse, alle ingiustizie subite, agli atteggiamenti degli altri. Il demonio, infatti, essendo il "più astuto" di tutti, aveva già in precedenza provveduto ad avvelenare il pozzo: "È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?" (cfr. Gen3). 
Queste parole si riflettono in quelle indirizzate a Gesù nella sinagoga: "io so chi tu sei!", so che sei il Santo di Dio e vuoi "rovinarmi", perché Dio è geloso della sua creatura, non vuole che sia come Lui... Per questo attenzione, dietro ad ogni rivendicazione c'è sempre un rifiuto della realtà causata da una visione distorta di essa.
Il demonio fa sempre così: prima ritocca con photoshop il panorama della tua vita, il tuo fisico, la tua famiglia, quel fatto e quell’altro; poi ti mostra la sua opera insinuandoti che la causa di tutto sia Dio; quindi ti spinge a rifiutare la storia e a ribellarti ritoccandola per farla diventare come più ti piacerebbe.
Ma succede che più picconate o colpi di scalpello dai, più la vita diventa brutta e invivibile. Ecco, ormai siamo “posseduti” dal demonio, senza bisogno di corna ed effetti speciali, ma nel cuore, proprio come "l’uomo" incontrato da Gesù. 
Per questo, quando Gesù “di sabato entra nella sinagoga” ci da’ fastidio. Quando “insegna con autorità” durante le liturgie, attraverso la predicazione e la proclamazione della Parola, induriamo il cuore perché pensiamo che venga a “rovinare” quello che stiamo cercando di costruire.
Gesù sa che il nostro problema è il veleno che il demonio ci ha iniettato prima della ribellione. Per questo non giudica nessuno! Sa che siamo malati, e ci vuole guarire purificando la fonte dei nostri atteggiamenti malvagi. 
Ma lo può fare solo Lui. E’ inutile ricorrere agli uomini, ai profeti che “dicono nel nome di Dio parole che Lui non gli ha comandato di dire” o a quelli falsi che “parlano nel nome di altri dei”; e ce ne sono tanti anche tra gli amici, a volte persino tra le persone che ci vogliono bene, che interpretano carnalmente il vangelo o consigliano scelte secondo gli idoli mondani, i soldi, il prestigio e la carriera, il piacere e, soprattutto, spingendoci a scappare dalla croce. Chiunque ti alliscia e non ti annuncia la Verità del vangelo puzza di serpente…
Abbiamo bisogno dell’“autorità” di Gesù, che lo rende così diverso dagli “scribi”. Lui non parla con supponenza, la sua cattedra non è posta in alto, ma accanto ai poveri e ai peccatori. Dio lo ha “suscitato in mezzo a noi”, è il “profeta pari a Lui” proprio perché non ha avuto scandalo di farsi nostro “fratello”. Sa riconoscere in noi l’immagine di Dio, non gli sono estranee le nostre sofferenze, pur non avendo peccato ha sperimentato sino in fondo che cosa significa morire a causa dei peccati.
Ha portato in terra il volto del Padre, ha dato carne al suo amore, ha incartato nella misericordia la sua onnipotenza, perché a causa della nostra disobbedienza non “morissimo” a contatto con il “fuoco” della sua gelosia.
Per questo nella Chiesa la voce di Dio si infila umilmente nelle parole umane dei suoi ministri. In essa possiamo udire e vedere il suo potere perché Gesù è vivo e, pensate all’eucarestia e alla confessione ad esempio, non parla in nome di Dio, come facevano gli scribi; Lui è Dio, Lui è presente nella sua comunità e nei presbiteri, e per questo può rivolgersi in prima persona e “comandare persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!”.
L’esorcismo di cui tutti abbiamo bisogno è quindi l’ “insegnamento nuovo, dato con autorità” da Gesù, ovvero l’annuncio del Vangelo, la sua Parola predicata dal suo Corpo che è la Chiesa. Essa è l’unica in grado di smentire la menzogna del demonio, perché lo fa svelando l’amore di Dio seminato in ogni millimetro della storia dell’umanità, in ogni secondo della nostra vita; perché annuncia Cristo crocifisso per i peccatori e risorto per la loro giustificazione.
Cristo che scende con autorità sino al cuore e lo guarisce: “Taci!” grida al demonio, letteralmente "ti metto una museruola", ovvero la Verità che esce dalla mia bocca per chiudere la tua. “Smetti di ingannare interpretando con malizia gli eventi. E’ falso quello che dici! Il Padre ha creato ogni uomo come un prodigio, la morte l’hai portata tu tra gli uomini, con la tua menzogna piena di superbia. Taci ora, ed esci da lui”.
In questo uscire del demonio c’è tutta la “rovina” dell’uomo vecchio. E quando un edificio crolla non è come una gita fuori porta… E’ “strazio e grida” dell’orgoglio che non vuole lasciare il suo posto. Quanta difficoltà per umiliarci e chiedere perdono, vero?
Ma si tratta dei dolori del parto attraverso il quale viene alla luce l’uomo nuovo, libero dai legami asfissianti della carne. L’uomo che ama tutti autenticamente perché “si preoccupa delle cose del Signore” nella vita di ciascuno, non delle proprie. Come una moglie colma dell’amore di Cristo che vive come se non fosse sposata, che cioè si preoccupa di “essere santa nel corpo e nello spirito” per piacere a Dio e condurre così a Lui il suo sposo, senza cercare nulla per se stessa. Non è follia, è la meraviglia di chi si “comporta fedelmente” secondo la “dignità” che Cristo gli ha ridonato, perché è falso che “non abbiamo niente a che fare” con Dio. Apparteniamo a Lui e non al demonio!
Il battesimo ci ha fatto morire e risorgere con Cristo: per questo, anche se per amare occorre lasciarsi crocifiggere, la morte non è la nostra “rovina”, ma quella del demonio! E’ la Pasqua, il passaggio alla felicità vera che è la libertà di donarsi senza riserve, l’anticipo del paradiso già qui, ora.
La vita eterna che rende a Dio la “fama” che il demonio vuole sottrargli. Il destino da testimoniare al mondo perché, di fronte alla nostra vita, si chieda: “che cos’è questo?”. Siamo chiamati a generare lo "stupore" nelle persone, per aprirle alla domanda cruciale: "il Cielo dunque esiste davvero?", e così rispondere con l'annuncio del vangelo, il primo passo verso la fede.

*

Lo stupore davanti al Profeta

Lectio Divina sulle letture liturgiche della IV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B), 1° febbraio 2015

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche della IV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B), 1° febbraio 2015.
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Lo stupore davanti al Profeta
Rito Romano
IV Domenica del Tempo Ordinario - Anno B – 1° febbraio 2015
Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28[1]
Rito Ambrosiano
IV Domenica dopo l’Epifania.
Sap 19,6-9; Sal 65; Rm 8,28.32; Lc 8,22-25
1) La parola dolce, forte, vera del “profeta” Gesù.
Cristo, che è più forte di Giovanni, ha una parola convincente, un insegnamento nuovo che stupisce ed è autorevole      
La Liturgia della Parola di questa domenica presenta in risalto la figura di Gesù come il vero profeta, che parla ed agisce in nome di Dio.
Il brano preso dal libro del Deuteronomio descrive le caratteristiche del profeta, la cui missione è profondamente ancorata a Dio. Il profeta è il portavoce di Dio e la sua parola è efficace e creatrice, e chi non l'ascolterà sarà chiamato a renderne conto e guai a chi si spaccia come profeta e non lo è.
Il profeta non è uno che predice l’avvenire. L’elemento essenziale del profeta non è quello di predire i futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro. Dunque anche quando parla del futuro il profeta non predice il futuro  nei suoi dettagli, ma rende presente a chi lo ascolta la verità divina e  indica il cammino da prendere.
A questo punto, uno può chiedersi si può chiamare profeta il Cristo? Penso proprio di sì. Nel Deuteronomio (cfr I letture di oggi) Mosè profetizza: “Un profeta come me”. La guida liberatrice dall’Egito ha trasmesso ad Israele la Parola e ne ha fatto un popolo, e con il suo “faccia a faccia con Dio” ha compiuto la sua missione profetica, portando gli uomini all’incontro con Dio. Tutti gli altri profeti seguono quel modello di profezia, sempre e nuovamente liberando la legge mosaica dalla rigidità per trasformarla in un cammino vitale.
Padri della Chiesa hanno interpretato questa profezia del Deuteronomio come una promessa del Cristo. Ed hanno ragione, perché il vero e più grande Mosè è quindi il Cristo, che realmente vive “faccia a faccia con Dio” perché ne è il Figlio.
In ciò i Padri della Chiesa non fanno che esplicitare il brano odierno preso dal Vangelo di Marco, che mette in risalto che il profeta annunciato da Mosè è Gesù ed infatti parla con autorità e comanda agli spiriti immondi che gli obbediscono.
Nel brano di oggi del Vangelo di Marco risalta che il profeta annunciato da Mosè è Gesù. Come è solito fare il sabato, il Messia entra nella sinagoga, dove la comunità ebraica locale[2] era solita riunirsi per ascoltare e commentare la Torah, cioè la legge. E proprio in questo contesto che Gesù si manifesta come nuovo profeta, suscitando stima e rispetto nei presenti, che però lo condanneranno per seguire i falsi profeti.
Con questo episodio l’Evangelista Marco inizia il racconto dell’attività pubblica di Gesù e inizia lo svolgimento del suo tema più importante: chi è Gesù?
Due cose sono subito affermate con chiarezza, anche se non ancora svolte compiutamente (l’Evangelista le svilupperà piano piano lungo l’intero suo Vangelo): 1) l’insegnamento di Gesù è nuovo e diverso da quello degli scribi; 2) la sua autorità si impone persino agli spiriti maligni.
2) Lo stupore.
A questo riguardo vorrei sottolineare lo stupore degli ascoltatori di allora perché diventi anche nostro. San Marco ha scritto: “Erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi”. La stessa annotazione – con qualche variante – è ripetuta alla fine dell’episodio: “Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità”.
Tutti erano stupiti, quasi increduli, ma percepivano, nelle parole di lui, la forza superiore della grazia, come scriverà pure San Luca: “erano stupiti, per le parole di grazia che pronunciava” (Lc 4,22).
E’ questa l’autorevolezza di Gesù del quale si dice: “Un grande profeta è sorto tra noi: Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 7, 16).
Davanti a questo profeta “definitivo”, l’atteggiamento da avere è quello dell’ascolto pieno stupore. Ascolto che esige un clima di silenzio interiore e di stupita tensione, segno del desiderio di conoscenza, nel quale nasce e cresce un atteggiamento di accoglienza, come ha fatto la Madonna: accoglienza della Parola, che, in Dio, è Persona, quel Verbo eterno, di cui Giovanni dice: “E il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e, senza di lui, nulla fu fatto di ciò che è creato” (Gv 1,1-3).
La Parola di Dio non è un semplice suono di voce, che veicola un pensiero, ma parola che opera, e vivifica; Parola che salva e che, per amore, si è fatta carne in Gesù di Nazareth, il Figlio di Maria, la donna dell’ascolto e dell’accoglienza: “Eccomi -fu la sua risposta- avvenga (fiat) in me secondo la tua parola...”(Lc 1,38), quella parola, recata a lei dall’Angelo, che parlava da parte di Dio.
Siamo perseveranti nell’imitare Maria. Di lei, icona dell’ascolto, e nel cui grembo la Parola di Dio prese un corpo, come ogni altro figlio di donna. Il Vangelo dice: “Maria, da parte sua, conservava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”(Lc 2,19). Ed è attorno alla parola e all’ascolto stupito che ruota, oggi, il Vangelo di Marco, un brano brevissimo, che parla appunto di stupore, da parte di quanti, nella sinagoga di Cafarnao, avevano udito Gesù di Nazareth commentare i testi della Scrittura: “Erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro, come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (Mc 1, 28).
Insisto sull’importanza dello stupore, perché secondo me la certezza della fede fiorisce dallo stupore di fronte a una presenza nella carne. Basta guardare i Vangeli: dai pastori alla culla di Betlemme, fino agli angeli che accolgono il Signore risorto nel suo vero corpo quando ascende al Cielo. Oggi questo tratto distintivo della fede di chi porta il nome cristiano sembra perduto. Tutto si concepisce e si organizza come se la certezza cristiana fosse -solo o soprattutto- conseguenza di una riflessione, di un discorso persuasivo. La Chiesa è Maestra, che insegna la verità, ma è anche Madre che dona la vita e come diceva san Giovanni di Damasco: “I concetti creano gli idoli, lo stupore genera la vita”. Scrivo questo per evitare che il nostro cristianesimo sia ridotto ad un discorso o ad un metodo astratto da insegnare o da apprendere concettualmente, perché i concetti sono l’esplicitazione sempre imperfetta di una conoscenza personale. La sostanza della rivelazione non consiste nell’insegnamento di una dottrina, ma nel manifestarsi di una presenza. Il card. Henri de Lubac ha scritto che “può esistere una idolatria della Parola e del parlare che non è meno dannosa di quella delle immagini”.
Insisto sullo stupore per sottolineare l’importanza della semplicità del cuore e della mente. La semplicità che i poveri di spirito vivono è pure il metodo con cui Dio si fa incontro a noi. Che c’è di più semplice della grotta di Betlemme, della casa di Gesù a Nazareth, della sinagoga a Cafarnao? E il Figlio di Dio vi è entrato. L’avvenimento di Cristo è un fatto nuovo che entra nella vita, semplicemente. Se ognuno di noi spalancherà gli occhi, il cuore, la mente e le braccia, Cristo entrerà nelle nostre case, portando la sua pace e la sua verità.
3) Non solo nelle nostre case ma in noi, Tempio di Dio.
Domani, 2 febbraio, la liturgia celebra la Presentazione[3] di Gesù. Quando Maria e Giuseppe portarono il loro bambino al Tempio di Gerusalemme, avvenne il primo incontro tra Gesù e il suo popolo, rappresentato dai due anziani Simeone e Anna. “Quello fu anche un incontro all’interno della storia del popolo, un incontro tra i giovani e gli anziani: i giovani erano Maria e Giuseppe, con il loro neonato; e gli anziani erano Simeone e Anna, due personaggi che frequentavano sempre il Tempio.” (Papa Francesco).
Alla luce di questa scena evangelica guardiamo alla vita consacrata come ad un incontro con Cristo: è Lui che viene a noi, portato da Maria e Giuseppe, e siamo noi che andiamo verso di Lui, guidati dallo Spirito Santo. Ma al centro c’è Lui. Lui muove tutto, Lui ci attira al Tempio, alla Chiesa, dove possiamo incontrarlo, riconoscerlo, accoglierlo, abbracciarlo.
Il segno specifico della tradizione liturgica di questa Festa sono le candele che irradiano luce. Questo segno manifesta la bellezza e il valore della vita consacrata come riflesso della luce di Cristo; un segno che richiama l’ingresso di Maria nel Tempio: la Vergine Maria, la Consacrata per eccellenza, portava in braccio la Luce stessa, il Verbo incarnato, venuto a scacciare le tenebre dal mondo con l’amore di Dio.
Un modo particolare di vivere ciò e di diventare Tempio e Tabernacolo della Divina presenza è quello delle Vergini consacrate nel mondo, per le quali il Vescovo prega: “Signore nostro Dio, tu che vuoi dimorare nell’uomo, tu che abiti quelle che ti sono consacrate … accorda loro il tuo sostegno e la tua protezione a quelle stanno davanti a Te e che attendono dalla loro consacrazione una accrescimento di speranza e di forza” (RCV 24), perché crescano nel loro credere all’amore, testimoniandolo con il sacrificio di sé nella vita quotidiana. Il loro essere lampade che irradiano la luce della verità e carità di Dio ci aiuti a diventarlo anche noi.
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NOTE
[1] “Giunsero a Cafàrnao e subito Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.” (Mc 1, 21 -28).
[2] Nella Palestina del tempo c'erano sinagoghe non solo nei grandi centri, ma anche nelle piccole città e nei villaggi. Gli israeliti vi convenivano per la preghiera e per la lettura e la spiegazione della Scrittura. Non solo gli scribi e gli anziani, ma ogni israelita poteva chiedere la parola e intervenire. È così che Gesù, a Cafarnao, entra nella sinagoga e prende la parola per insegnare.
[3] Presentazione del Signore al Tempio - 2 Febbraio - è la Festa delle luci (cfr Lc 2,30-32) e ebbe origine in Oriente con il nome di ‘Ipapante’, cioè ‘Incontro’. Nel sec. VI si estese all’Occidente con sviluppi originali: a Roma con carattere più penitenziale e in Francia con la solenne benedizione e processione delle candele popolarmente nota come la ‘candelora’. La presentazione del Signore chiude le celebrazioni natalizie e con l’offerta della Vergine Madre e la profezia di Simeone apre il cammino verso la Pasqua (Mess. Rom.).
La festività odierna, di cui abbiamo la prima testimonianza nel secolo IV a Gerusalemme, venne denominata fino alla recente riforma del calendario festa della Purificazione della SS. Vergine Maria, in ricordo del momento della storia della sacra Famiglia, narrato al capitolo 2 del Vangelo di Luca, in cui Maria, nel rispetto della legge, si recò al Tempio di Gerusalemme, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, per offrire il suo primogenito e compiere il rito legale della sua purificazione. La riforma liturgica del 1960 ha restituito alla celebrazione il titolo di "presentazione del Signore", che aveva in origine. L'offerta di Gesù al Padre, compiuta nel Tempio, preannuncia la sua offerta sacrificale sulla croce.
Questo atto di obbedienza a un rito legale, al compimento del quale né Gesù né Maria erano tenuti, costituisce pure una lezione di umiltà, a coronamento dell'annuale meditazione sul grande mistero natalizio, in cui il Figlio di Dio e la sua divina Madre ci si presentano nella commovente ma mortificante cornice del presepio, vale a dire nell'estrema povertà dei baraccati, nella precaria esistenza dei migranti e dei perseguitati, quindi degli esuli.
L'incontro del Signore con Simeone e Anna nel Tempio accentua l'aspetto sacrificale della celebrazione e la comunione personale di Maria col sacrificio di Cristo, poiché quaranta giorni dopo la sua divina maternità la profezia di Simeone le fa intravedere le prospettive della sua sofferenza: "Una spada ti trafiggerà l'anima": Maria, grazie alla sua intima unione con la persona di Cristo, viene associata al sacrificio del Figlio.
Il rito della benedizione delle candele, di cui si ha testimonianza già nel X secolo, si ispira alle parole di Simeone: "I miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti". Da questo significativo rito è derivato il nome popolare di festa della "candelora".

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Lettura patristica

Beda il Venerabile, In Ev. Marc. 1, 1, 21-27
Dottrina e autorità di Cristo

      
"E subito, giunto il sabato, entrato nella sinagoga, si mise a insegnare loro" (Mc 1,21).   Il fatto che egli offra con larghezza i doni della sua medicina e della sua dottrina soprattutto di sabato, mostra che il Signore non è soggetto alla legge, ma sta sopra la legge, egli che è venuto per portare a compimento la legge e non per abrogarla (Mt 5,17). Per insegnare egli sceglie non il sabato giudaico - nel quale era vietato accendere il fuoco o adoperare le mani e i piedi - ma il vero sabato, e mostra che il riposo preferito dal Signore consiste nell’aver cura delle anime astenendosi dalle opere servili, cioè da tutte le opere illecite."E si stupivano della sua dottrina. Insegnava loro difatti come uno che ha autorità e non come gli scribi" (Mc 1,22).«Gli scribi insegnavano al popolo le cose che leggiamo in Mosè e nei profeti; Gesù invece, quasi fosse Dio e Signore di Mosè stesso, seguendo la sua libera volontà, dava maggiore importanza a precetti che sembravano secondari nella legge, oppure, modificando i comandamenti, si rivolgeva al popolo come leggiamo in Matteo: -fu detto agli antichi... ma io vi dico -» (Girolamo). "Or, ecco, c’era nella loro sinagoga un uomo posseduto da uno spirito immondo, che gridava dicendo: - che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto per rovinarci? Conosco chi sei, il Santo di Dio! " (Mc 1,23-24). «Questa non è una spontanea confessione di fede cui faccia seguito il premio, ma una confessione necessariamente estorta che costringe chi non vuole. Come accade agli schiavi fuggiaschi che, incontrando dopo molto tempo il loro padrone, gridano implorazioni soltanto per evitare le bastonate, così i demoni, avendo visto d’improvviso apparire il Signore in terra, credevano che fosse venuto per giudicarli. La presenza del Salvatore è infatti tormento per i demoni» (Girolamo). "Ma Gesù lo rimproverò dicendo: - Taci, ed esci dall’uomo" (Mc 1,25). "Siccome la morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo" (Sg 2,24), la medicina della salvezza ha dovuto dapprima operare contro lo stesso autore della morte per tacitare innanzi tutto la lingua del serpente, affinché non spargesse più oltre il suo veleno; poi per curare la donna, che fu per prima sedotta dalla febbre della concupiscenza carnale; in terzo luogo per purificare dalla lebbra del suo errore l’uomo che aveva ascoltato le parole della sposa che lo spingeva al male, affinché il piano di redenzione si compisse nel Signore come nei progenitori si era compiuta la caduta. "E dopo che l’ebbe agitato convulsamente, lo spirito immondo uscì da lui, emettendo un gran grido" (Mc 1,26). «Luca dice che lo spirito immondo uscì dall’uomo senza fargli male. Può sembrare una contraddizione, in quanto secondo Marco "dopo che l’ebbe agitato convulsamente, uscì da lui", oppure, come recano altri codici, "dopo che l’ebbe tormentato", mentre secondo Luca non gli fece alcun male. In realtà, però, anche Luca dice che il demonio uscì da lui dopo averlo gettato in terra, anche se non gli fece del male (Lc 4,35). Si comprende, da ciò, perché Marco abbia detto che lo tormentò e lo agitò convulsamente intendendo ciò che ha detto Luca, scrivendo che lo gettò a terra. E quanto Luca aggiunge, cioè che non gli fece del male, significa che pur gettandolo in terra e agitandolo convulsamente, non lo mutilò, come sono soliti fare i demoni quando escono da qualcuno amputandogli o strappandogli le membra». "E si stupirono tutti, tanto che si domandavano l’un l’altro: - Cos’è questo? Che nuova dottrina è questa dato che egli comanda con autorità anche agli spiriti immondi ed essi gli obbediscono?" (Mc 1,27). Di fronte alla grandezza del miracolo, ammirano la novità della dottrina del Signore, e sono spinti dalle cose che hanno viste a far domande su quello che hanno udito. Non v’è dubbio infatti che a questo miravano i prodigi che il Signore stesso operava servendosi della natura umana che aveva assunta, o che dava facoltà ai discepoli di compiere. Per mezzo di questi miracoli gli uomini credevano con maggior certezza al vangelo del regno di Dio che veniva loro annunciato: infatti coloro che promettevano agli uomini terreni la felicità futura mostravano di poter compiere in terra opere celesti e divine. In verità, mentre i discepoli operavano ogni cosa per grazia del Signore, come semplici uomini, il Signore operava miracoli e guarigioni da solo, per virtù della sua potenza, e diceva al mondo le cose che udiva dal Padre. Dapprima infatti il Vangelo attesta che «egli insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi»; e ora la folla testimonia che egli «con autorità comanda agli spiriti immondi ed essi gli obbediscono».