lunedì 26 gennaio 2015

I promessi sposi nostri contemporanei.


Negri fa catechesi con 7 personaggi dei Promessi Sposi
di Enrico Elli

Calvino diceva che un classico è un libro che non ha mai finito di dire tutto quello che ha dire. Che I promessi sposi appartengano a questa categoria non è una novità. Ce ne offre ulteriore conferma l’aureo libretto del vescovo di Ferrara, monsignor Luigi Negri I promessi sposi nostri contemporanei. Sette incontri sui personaggi del Manzoni, Mimep-Docete, Pessano con Bornago (Milano), 2014 (pp. 175; cofanetto con dvd). Esso raccoglie, appunto, sette conversazioni su alcuni dei personaggi più significativi del romanzo: da padre Cristoforo all’Innominato, da Lucia al cardinal Federigo e don Abbondio. 
Una rilettura che si compie a partire dall’insegnamento del cardinal Giovanni Colombo, sensibile e attento manzonista, il quale vedeva nell’opera del grande scrittore lombardo l’azione di un bravo «catechista di vita, cantore di fede per il popolo di Dio, incamminato verso il premio che i desideri avanza» (p. 13). Il vero protagonista del romanzo, infatti, è il popolo di Dio; ed è di lui e a lui che monsignor Negri intende parlare con queste sue riflessioni, nelle quali il vescovo non compie un’operazione di critica accademica (pur nella finezza e profondità dell’analisi anche letteraria di alcune delle pagine più note e fondamentali del romanzo), bensì sviluppa un’appassionata catechesi a partire dal testo manzoniano.
Basti ripensare alla prosa secentesca dell’Introduzione in cui lo scrittore dichiara di voler raccontare avvenimenti straordinari accaduti a «gente meccaniche e di piccol affare». Sono loro quelli di cui si racconta la storia quotidiana, nella quale si innestano fatti fuori dall’ordinario, e non tanto la storia dei potenti, la Storia con la maiuscola, nella quale pure anche gli umili si iscrivono. A questo richiamo iniziale possiamo immediatamente associare le righe conclusive dell’intero romanzo, quelle che racchiudono «il sugo di tutta la storia». Renzo e Lucia riflettono sulle esperienze fatte, sui guai affrontati e su ciò che possono avere imparato; ma i guai non sempre possono essere evitati, anche con la migliore condotta possibile, perché «i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore». 
È la lezione, semplice e profonda allo stesso tempo, che Manzoni catechista ci trasmette per boccadei suoi umili protagonisti: la fiducia in Dio, ovvero la fede, è ciò che deve guidare la lettura di tutta la nostra storia personale, proiettandola in una dimensione “altra” e più “alta”: la vita migliore che è il destino di tutti. È la prospettiva della madre di Cecilia, con la sua dignità e il suo dolore «pacato e profondo» (p. 123), e del padre Felice, con il suo esempio e il mirabile discorso con cui congeda i pochi sopravvissuti alla peste: parole che, a partire da un’esperienza drammatica e concreta, guidano a riprendere il cammino verso una vita nuova non solo nel corpo ma nello spirito e nell’atteggiamento di fede e carità: «Cominciamo da questo viaggio, da’ primi passi che siam per fare, una vita tutta di carità» (p. 131).
Al contrario, vi sono quelli che impostano la propria vita secondo la mentalità del mondo: sul potere, l’apparire, i soldi, in una parola sul proprio io. Un atteggiamento attuale, quanto mai diffuso nella società occidentale sempre più secolarizzata, che vuol fare riferimento unicamente ad un progetto umano, personale ed egoistico. Ma nel libro sacro Dio aveva già ammonito: «i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55, 8). Ed ecco che, nel romanzo manzoniano – come ci mostra con acuta sensibilità Negri – tutti i progetti chiusi nell’orizzonte personalistico, portano al male, mentre si aprono ad una vita nuova di bene quelli di coloro che, pur nel dolore, si affidano alla Provvidenza. E sono i destini degli umili o di coloro che tali sono disposti a diventare attraverso un radicale cambiamento di mentalità, attraverso una conversione. È il caso di Lodovico-padre Cristoforo, è il caso dell’Innominato dopo l’incontro con Lucia e poi l’incontro con il cardinal Federigo; è il caso di don Abbondio dopo il colloquio con lo stesso cardinale. Persino la monaca di Monza, dopo un lungo periodo di severa penitenza, concluderà la vita in odore di santità (p. 159). Tutto ciò, però, avviene solo attraverso un incontro con un testimone della fede, che incarna la paterna presenza della Chiesa, a sua volta luogo della presenza viva di Cristo, Dio che si è fatto uomo, incarnato per la redenzione di tutti.
Il caso dell’Innominato è esemplare. L’incontro con Lucia e la sua semplice, lapidaria frase («Dioperdona tante cose per un’opera di misericordia») fanno esplodere la crisi latente in lui; il successivo incontro con il cardinal Federigo (cioè con la Chiesa) sarà il passo definitivo. Nel mezzo – e determinante – la decisione dell’Innominato di incamminarsi, verso il luogo dove è giunto il cardinale, insieme con il popolo festante che accorre al suo pastore, mentre le campane suonano a festa. Percorso simile, nella sostanza, compie persino don Abbondio nel suo incontro-dialogo con Federigo. In entrambi i casi, si badi, quest’ultimo non nasconde il giudizio sul male compiuto, ma accoglie: tanto l’Innominato quanto don Abbondio sperimentano così che l’ultima parola non è di condanna, ma di perdono. La Chiesa perdonando il male non lo nega né lo nasconde o dimentica, semplicemente lo giudica e attraverso questo giudizio fa irrompere la vita nuova, cioè l’esperienza del perdono e della misericordia. Si tratta, in definitiva, di decidersi a compiere questo cammino nel quale «la Verità diventa Carità, la Giustizia diventa Misericordia» (p. 174).
È questo il “sugo” della catechesi di monsignor Negri, pastore che guida con fermo giudizio eamorevole delicatezza attraverso le memorabili pagine e gli indimenticabili protagonisti del capolavoro manzoniano.