venerdì 23 gennaio 2015

Quale limite per la libertà. L'ultima frontiera tra islam e Occidente



colloquio con Khaled Fouad Allam, Paolo Branca, Massimo Cacciari e Paolo Sorbi a cura di
Alessandro Zaccuri
in “Avvenire” del 18 gennaio 2015
«Anche chi vuol essere Charlie, non può restare per sempre Charlie Brown. «Se non siamo bambini
– commenta il filosofo Massimo Cacciari –, sappiamo di dover rispettare i valori degli altri a
prescindere dal fatto di riconoscerli o meno come valori. Sappiamo di dover ascoltare anche ciò che
non condividiamo, sappiamo di non poter insultare». A una settimana dalla grande manifestazione
parigina in difesa della libertà di espressione, e mentre proseguono in tutta Europa le indagini sul
terrorismo di matrice fondamentalista, la redazione di “Avvenire” ospita un dibattito che, prendendo
le mosse dalla cronaca, cerca di analizzare le prospettive di una convivenza possibile tra islam e
Occidente. A discuterne, insieme con Cacciari, il sociologo Paolo Sorbi, il suo collega di origine
algerina Khaled Fouad Allam e l’islamista Paolo Branca.
I fatti di Parigi chiamano in causa il principio della libertà, ma nello stesso tempo rischiano di
elevarlo a valore assoluto. Quali possono essere le conseguenze nel rapporto con l’islam?
Cacciari: «Nelle culture europee la parola “libertà” rinvia immediatamente all’idea di
incondizionatezza, alla quale ogni nostra azione viene commisurata. Dentro di noi possiamo essere
consapevoli dell’impossibilità di realizzare pienamente questa idea, eppure non rinunciamo a vivere
come se la nostra libertà fosse già, per l’appunto, incondizionata. Qualsiasi tentativo di porre un
limite esterno alla libertà stessa, attraverso leggi e regolamenti, è pertanto destinato a rivelarsi
fallimentare, se non patetico. Questo non significa, però, che non si possa percorrere la strada di una
paideia, di un’educazione che faccia capo alla responsabilità personale. Se non siamo bambini, ma
soggetti adulti e maturi, capiamo benissimo che spetta a noi darci un limite. E questo proprio
perché, in caso contrario, il limite imposto dall’esterno finirebbe per essere rigettato, con
conseguenze anche traumatiche. Ma qui si configura un problema colossale e forse irrisolvibile:
come educare oggi? La scuola, i media, tutte le componenti sociali dovrebbero collaborare per
instaurare un clima generale di consapevolezza e di rispetto. E dovrebbero farlo liberamente, senza
attenersi a una normativa che, insisto, non otterrebbe alcun risultato».
Branca: «Sono d’accordo: le leggi non sono lo strumento adatto per porre un limite, la vera partita
si gioca sul piano educativo. Ma proprio da questo punto di vista non possiamo nasconderci che
l’Occidente ha responsabilità ben precise anche nei confronti dell’islam. La nostra idea di libertà,
ormai, sembra coincidere con certe immagini degli sport estremi: tutto si può fare, il limite non
esiste. Peccato che si tratti di una falsificazione, perché dietro a quelle imprese mirabolanti si
nascondono ore e ore di allenamenti, fatiche, cadute, fallimenti. Il limite potrà pure essere superato,
ma questo superamento ha sempre un prezzo. Nel momento in cui nascondiamo il costo che la
libertà richiede per realizzarsi, presentiamo di noi stessi una versione incomprensibile agli occhi di
altre società tradizionali. Pensiamo, oltre all’islam, all’India, alla stessa Cina, ad ampie zone
dell’Asia. In tutti questi contesti vige ancora un sistema implicito di gerarchie per cui chi è più
adulto ha più autorità di chi è più giovane, il maschio ha maggior prestigio della donna e via di
questo passo. Rispetto a questi universi culturali l’Occidente, che fino a pochi decenni fa
condivideva questa mentalità, rappresenta giusto uno spicchio di mondo. Allo stato attuale, inoltre,
non è neppure lo spicchio destinato a prevalere in termini di espansione demografica».
Sorbi: «Da quando nelle nostre società sono prevalsi i processi di secolarizzazione, a finire in
condizione di minorità sia stato non solo il cristianesimo, ma la stessa razionalità classica, a tutto
vantaggio di un irrazionalismo che si presenta come egemonico. Ma le egemonie sono di per sé
flessibili, possono mutare, evolvere. L’obiettivo al quale puntare è una ridefinizione, anche a livello
istituzionale, del principio di bene comune. Le istituzioni, in particolare, dovrebbero riconoscere

maggiore spazio alle esperienze, innumerevoli quanto trascurate, di negoziato serio tra libertà e
laicità correttamente intesa. Non prevedo una trasformazione a breve termine, ma piuttosto un
lavorio lento, che sappia insinuarsi nelle contraddizioni dell’attuale cultura europea in modo da
disinnescare il rischio di uno scontro di civiltà. Già adesso, a mio avviso, la secolarizzazione mostra
segni di cedimento ed è su questo aspetto che occorre insistere per dare vita a forme quotidiane e
concrete di convivenza con l’islam. Nella sua straordinaria mobilità, il mondo musulmano può
contribuire in maniera significativa a scuotere il nostro modo di pensare. Ed è su questa base che
vanno pensati nuovi percorsi educativi, nuove forme di dialogo e di convergenza».
Allam: «La libertà occidentale presuppone un universalismo illuminista, di matrice settecentesca,
che è stato ormai soppiantato da un universalismo di tutt’altro tipo, che definirei “post-occidentale”.
Non sto dicendo che l’Occidente è finito, sia chiaro, ma che il contesto è più ampio, più complesso.
Non ci si può accontentare di invocare un islam più laico e, quindi, più libero. Il vero problema è,
ancora una volta, quello della secolarizzazione, che per l’Europa non si limita alla rivendicazione
del principio di uguaglianza, ma comporta un divorzio profondo fra l’io e la dimensione religiosa,
in un percorso di soggettivizzazione per cui la religione, per quanto importante, non è comunque
più importante di altri valori. Gli attentati di Parigi, come sappiamo, hanno preso di mira proprio
questo sistema di idee e, nel contempo, hanno reso evidente il dramma dell’islam di oggi. Non mi
riferisco alla mancanza dell’individuo in quanto tale, ma all’assenza di un soggetto capace di
mettersi in relazione con il mondo, di accogliere e suscitare fiducia e, da ultimo, di trovare ed
esprimere la propria libertà. Le profanazioni dei simboli religiosi sono sempre esistite, purtroppo,
ma la reazione alle vignette di “Charlie Hebdo” si inserisce in uno scenario differente, è lo scontro
fra due tipi di sacralità: una di tipo tradizionale, di cui i terroristi sostengono di essere i paladini, e
un’altra di matrice laica, profana, che ha nella libertà il suo vessillo. Ora più che mai è urgente
interrogarsi su come mettere in comunicazione queste mentalità contrapposte, evitando così ulteriori
violenze».
Questo comporta un ripensamento del ruolo delle religioni nello spazio pubblico? Non stiamo
forse assistendo a un fallimento della laïcité in senso stretto?
Cacciari: «A mio avviso la secolarizzazione è tutt’altro che in affanno. Al contrario, è un fenomeno
di portata globale, da cui per il momento l’islam è rimasto escluso. Per un insieme di ragioni che
altri potranno illustrare meglio di me e che, per comodità, possiamo riassumere nel valore
predominante dell’appartenenza alla comunità a discapito del primato del- l’individuo. La
democrazia stessa, in un quadro simile, è impensabile e tale resterà fino a quando l’islam non sarà
toccato dalla secolarizzazione, il cui potere di penetrazione resta formidabile. La sola composizione
possibile, per quanto mi riguarda, avverrà sul territorio della secolarizzazione. Non vedo alternative,
sinceramente».
Branca: «Se è per questo, qualcosa di simile sta già accadendo anche nel nostro Paese. Gli allarmi
di questi giorni non tengono conto del fatto che la maggioranza dei musulmani che vivono in Italia
non frequenta affatto la moschea. Per disinteresse, ma anche per protesta verso una gestione dei
luoghi di preghiera che, in alcuni casi, è di natura politico-tribale. Non sarà secolarizzazione, eppure
è l’inizio di un processo nei confronti del quale il sistema dell’informazione è del tutto indifferente.
Si preferisce dare ascolto ai portavoce più estremisti anziché soffermarsi su tendenze sempre più
diffuse, come quella delle donne musulmane che si sposano con non musulmani senza pretenderne
la conversione all’islam. Siamo pronti a scandalizzarci perché in Arabia Saudita alle donne è vietato
guidare, ma nel pieno delle Primavere, quando si stava profilando la possibilità di una società civile
all’interno del mondo islamico, non abbiamo mosso un dito per impedire che la situazione
degenerasse».
Sorbi: «Un conto è la secolarizzazione, un altro è la secolarità, che comporta il confronto con il
principio di realtà. È una distinzione già molto cara al cardinale Carlo Maria Martini e che credo sia
opportuno riscoprire oggi. In questa prospettiva il credente, cristiano o islamico che sia, può per
esempio nutrire un atteggiamento distaccato verso la tecnica, che altrimenti assume connotati

egemonici. Il cammino della secolarità si serve di strumenti poveri, sviluppando reti di solidarietà e
di amicizia, di educazione e di condivisione. E coinvolgendo tutti gli uomini di buona volontà,
compresi molti musulmani che vivono in Europa».
Allam: «Sì, ma questo non basta a cancellare i buchi neri che separano islam e Occidente.
L’elemento più grave è, secondo me, la frattura tra storia e memoria. Si ignora pressoché tutto di
quello che è accaduto prima dell’11 settembre 2001, lasciando spazio a un narrazione politica di
stampo integralista che non tiene in alcun conto secoli e secoli di relazioni fra le culture. Sul
versante musulmano il problema è rappresentato dalla deriva terroristica, ma la questione non è
meno grave per l’Occidente. Perché in Europa l’islam è storia, quando va bene, e non diventa mai
memoria? Perché il musulmano è sempre l’altro, il fratello lontano e rifiutato? Sono incomprensioni
che hanno dell’incredibile e delle quali si alimenta la barbarie che abbiamo visto in atto in questi
giorni».
E la risposta quale può essere? Dobbiamo rassegnarci a rispondere con la violenza alla
violenza oppure siamo ancora in tempo ad avviare un processo di persuasione delle coscienze?
Cacciari: «La verità è che l’Occidente, avendo ormai perduto il sentimento del tragico, è del tutto
impreparato davanti alla tragedia che si sta svolgendo. Non siamo stati pronti a capire che la fine
della Guerra Fredda non era la fine dei con-flitti, per la semplice ragione che il mondo è in sé
conflitto. Possiamo investire sull’educazione e sul dialogo, benissimo, ma questo non ci esime dal
misurarci con le colossali questioni geopolitiche che sono sul campo da almeno venticinque anni e
che nessuno ancora si decide a prendere sul serio. Lo vogliamo ammettere, una volta buona, che nei
confronti dell’islam l’Occidente ha sbagliato tutto? Guerre a vanvera, come in Iraq. Armi distribuite
a vanvera, come in Siria. Tante bombe e pochissima intelligence, con i risultati che abbiamo visto
nei giorni scorsi a Parigi. E tutto questo a fronte di un’assenza completa di politiche europee. Non ci
siamo ancora resi conto che l’obiettivo ultimo della campagna terroristica è proprio l’Europa, che lo
Stato Islamico ha tutto il vantaggio a sfasciare. Se non ci attrezziamo in modo tempestivo e
lungimirante, dovremo presto fare i conti con l’esplosione dell’intero continente, con le
conseguenze che è facile prevedere».
Branca: «La mia convinzione è che l’islam sia un organismo in sé sano, ma che ha al suo interno
un tumore da estirpare. Mi riferisco al cancro del terrorismo, si capisce, e mentre dico questo so
benissimo che a far galoppare le metastasi sono stati i milioni e milioni di petrodollari erogati dai
governi dell’area mediorientale. Nella storia del pensiero islamico la scuola hanbalita, improntata al
rigorismo più estremo, è sempre stata in minoranza. Ha preso il sopravvento solo negli ultimi
decenni, su impulso di quegli stessi governi che l’Occidente appoggiava in prospettiva
anticomunista. In geopolitica sono stati commessi troppi errori, lo confermo, e il peggiore è stato
quello di sottovalutare l’instaurarsi di un regime teocratico in Iran, dimenticando che fin
dall’antichità la Persia è sempre stata la chiave per controllare l’Asia centrale. Detto questo, l’Italia
non può restare a guardare, in attesa che altrove venga individuata una strategia ben articolata. Per
paradossale che possa apparire, è proprio la sostanziale assenza di un’ideologia forte a mettere il
nostro Paese nella condizione di elaborare politiche di integrazione innovative ed efficaci. Ovunque,
in Europa, i modelli di riferimento si sono dimostrati inadeguati. Ora è tempo di proporne uno
nostro, allontanando da noi lo spettro del rifiuto. Per questo ho guardato con preoccupazione a certe
reazioni, anche italiane, ai fatti di Parigi. Non si può trasmettere ai musulmani che vivono in casa
nostra un messaggio di esclusione, non si può dire loro: sarebbe meglio se non esisteste».
Sorbi: «Non credo che, nell’immediato, si possa realisticamente ipotizzare una rinuncia all’uso
della forza. Sul lungo periodo, però, occorre concentrarsi sui processi di convergenza e di
collaborazione. L’interlocutore, in questo senso, è quello che impropriamente si definisce “islam
moderato” e che magari, seguendo l’indicazione di Branca, potremmo chiamare il “corpo sano”
dell’islam. La storia recente del nostro Paese ci insegna che non esiste un rapporto lineare, di
necessità, fra estremismo e violenza, e che il terrorismo può essere vinto ricorrendo sia al dialogo
sia alla forza, senza contraddizione. Anche alla fine degli anni Trenta, del resto, nulla lasciava
presagire che Stati Uniti e Gran Bretagna fossero sul punto di coalizzarsi contro un nemico comune.
I rapporti fra i rispettivi governi erano pessimi, ma la guerra contro Hitler diede loro l’occasione di
ricompattarsi, di combattere insieme su un campo che non era solo militare, ma di valori, di visione
del mondo, di identità simboliche. Forse è una grande alleanza di questo tipo che dovremmo
iniziare a predisporre oggi».
Allam: «Anch’io, come Cacciari, sono persuaso che il discrimine sia segnato dalla caduta del Muro
di Berlino. A cambiare, dall’89 in poi, non sono solamente i confini delle nazioni europee, ma le
categorie mentali di cui ci serviamo per interpretare la realtà. Frontiere simboliche che si
trasformano in frontiere etniche, come è accaduto nella ex Jugoslavia e in Ruanda, come sta
accadendo oggi in tante parti del mondo. Anche nelle periferie delle metropoli occidentali, che
troppo stesso rappresentano territori al di fuori del controllo dello Stato. In questi spazi solo
l’educazione riesce a entrare con efficacia. Molto possono fare i programmi di integrazione
scolastica e di scambio culturale in stile Erasmus fra le due sponde del Mediterraneo, ma l’aspetto
fondamentale è la conoscenza tra gli esseri umani. La trasmissione di nozioni e informazioni non è
sufficiente. Nessuno arriverà mai a comprendere l’altro se non all’interno di una dimensione
affettiva. L’immagine più preoccupante, per me, non è quella di un giovane armato. È quella di un
giovane che viaggia da solo, con la testa bassa, su un vagone della metropolitana. Se vogliamo
uscire da questo scontro, dobbiamo imparare a rivolgerci a lui».