sabato 31 gennaio 2015

Ritorno alle radici



Il concilio Vaticano II e le religiose. 

(Caterina Ciriello) Cinquant’anni dall’approvazione del decreto conciliare Perfectae caritatis (1965-2015). È una ricorrenza che non può passare inosservata, e non solamente per la memoria storica di un concilio che ha segnato una grande svolta per la vita consacrata, ma specialmente per fare un bilancio di questi anni, non sempre facili, spesso segnati da dure lotte e defezioni causate da errate interpretazioni del concilio e dal desiderio smodato di porre in atto quei cambiamenti auspicati, ma senza la prudenza del discernimento, dell’attesa sapienziale che dovrebbe essere propria di chi ha donato la sua vita a Cristo. Lo sbandamento del dopo concilio è testimoniato dalla Evangelica testificatio (1971) nella quale Paolo VI, con grande sofferenza, ha voluto richiamare all’ordine la vita religiosa, sottolineando la necessità di uno sforzo individuale e comune per tenere fede all’impegno preso con Cristo e i fratelli, di una vita di fortificazione dell’uomo interiore, di rinnovamento spirituale attraverso una pratica assidua della preghiera e di discernimento, evitando «slanci disordinati» (cfr. Evangelica testificatio, 32).
Quali sono stati, in definitiva, gli effetti del rinnovamento conciliare sulle religiose? Gli anni pre-conciliari non furono certamente facili. Innanzitutto la vita religiosa era concepita più nella sua essenza canonica e morale anziché teologica; gli stessi voti erano considerati come un dovere morale, e non percepiti nell’ambito della donazione.
Non esisteva una teologia della vita religiosa e ciò permetteva a chiunque di affermarne l’inutilità, specialmente in quanto questa non era stata istituita da Cristo. Analizzata dal punto di vista umano la vita religiosa femminile appariva come un universo di persone sottoposte a situazioni di sorveglianza e dipendenza; in certi casi a veri e propri soprusi da parte delle superiore, con un numero infinito di prescrizioni a cui obbedire, private di qualsiasi opportunità di iniziativa personale e obbligate a prestare servizio alla Chiesa locale, anche senza un’adeguata formazione, solo perché lo richiedeva il vescovo. E questa è solo una piccolissima parte di ciò che emerge dagli archivi storici.
La presenza dei religiosi al concilio è stata indubbiamente forte e significativa, circa un terzo del gruppo dei padri. Ma non si poteva affrontare il tema della vita religiosa lasciando tutto solamente nelle mani dei religiosi. Perché nell’unità vi è allo stesso tempo la diversità della vita religiosa, differenza individuata nelle forme e nei modi: maschile e femminile.
La presenza delle religiose uditrici al concilio ha determinato senza dubbio un importante giro di boa nella Chiesa, in quanto esse hanno dato il loro fondamentale contributo affinché si istituisse una vera e propria teologia della vita religiosa, ove l’aggiornamento non fosse solo strutturale ed esteriore, ma toccasse la vera essenza, la radice stessa della vita religiosa, liberandola da possibili interpretazioni sentimentali, morali o filantropiche e condurla a interrogarsi sul rapporto profondo con la vita divina: essa da Cristo ha inizio e in lui ha fine, e come tale deve risplendere nel mondo quale presenza di Dio e della Chiesa.
Un grosso problema era rappresentato dalla mancata differenziazione tra vita religiosa contemplativa e vita religiosa attiva. Per troppo tempo le religiose erano state figlie dell’aut maritus aut murus. Dunque bisognava fare chiarezza sulla dualità azione-contemplazione, difficile da concepire nel caso della vita religiosa femminile, nella quale la perfezione religiosa veniva rinchiusa in se stessa, allontanata dalla dimensione ecclesiale, poiché non si riusciva a concepirne l’apostolicità, che, in realtà, costituisce la sua essenza: una ricerca di Dio che non si estende al corpo mistico non può essere autenticamente feconda. In tutto questo non va dimenticato l’importante passaggio della possibilità di abolire lo stato di “sorelle coadiutrici”, causa di tanta sofferenza e infinite frustrazioni, perché effetto di differenze sociali trasportate all’interno delle mura conventuali.
Da ciò era facile trovare religiose di grande intelligenza e capacità creativa relegate a un ruolo di subordinazione, in quanto provenienti da famiglie economicamente non agiate, e, dunque, prive anche di dote.
I cambiamenti dovevano avvenire assolutamente in atteggiamento di apertura alle direttive conciliari: «L’aggiornamento degli istituti dipende in massima parte dalla formazione dei loro membri» (Perfectae caritatis, 18).
Non è facile fare un bilancio di cinquant’anni. Dopo il Perfectae caritatis ci sono stati altri documenti che ne hanno enfatizzato il contenuto, già di per sé insostituibile: sarebbe bastata, infatti, una applicazione forte e convinta del decreto per attuare l’auspicata riforma. Invece si è ritornati sul tema della formazione, in particolare quella permanente; della vita fraterna in comunità; e, dulcis in fundo, sull’autorità e l’obbedienza. E fiumi di parole sono stati versati per commentare e tastare il polso della vita religiosa femminile.
Qual è lo stato di salute della vita religiosa femminile nel 2015? Si fanno grandi progetti contemplando la nuova evangelizzazione, la collaborazione intercongregazionale, l’opzione preferenziale per i poveri, eppure ci sono punti del Perfectae caritatis che appena sono stati sfiorati. Per esempio quello della formazione. Ancora oggi in molte congregazioni religiose femminili rimane un fatto marginale rispetto alle urgenze apostoliche. Ciò significa che, erroneamente, si reputa una perdita di tempo formare integralmente una religiosa perché c’è necessità di “braccia” in una qualsivoglia parte sperduta del mondo.
La formazione teologica poi, appare quasi un tabù: basta considerare quante religiose sono iscritte nelle facoltà teologiche, negli istituti Superiori di scienze religiose, oppure si devono accontentare di una scarna formazione teologica di base. D’altra parte è un dato oggettivo che sono veramente poche le religiose che hanno il privilegio e l’onere di servire la Chiesa in istituzioni accademiche.
Per quanto riguarda il rapporto autorità-obbedienza, non è una eresia affermare che c’è ancora molta reticenza da parte dei superiori nel considerare il loro compito un servizio e abbandonare la logica terrena del potere.
Il Perfectae caritatis al n. 14 in tal senso è molto chiaro: spirito di servizio, carità, libertà e rispetto verso i membri della comunità, promozione di una obbedienza attiva e responsabile. Anche la vita fraterna in comunità va ripensata, e abolite le enormi strutture che non fanno bene alle relazioni fraterne perché possono trasformarsi in luoghi freddi e dispersivi. Perché non sostituirle con comunità più piccole e non isolate dal contesto apostolico? La stessa celebrazione quotidiana della eucarestia in comunità, rischia di impoverire notevolmente il senso di ecclesialità, di condivisione della Parola e del Pane eucaristico col resto del popolo di Dio.
Ci sarebbero tanti altri punti da sottolineare, per questo è importante che l’anno della vita consacrata non sia solo celebrativo, ma necessariamente interrogativo.
L'Osservatore Romano