mercoledì 25 febbraio 2015

Cose pazzesche 2

Cambio di sesso, quando il giudice si sostituisce al chirurgo
di Tommaso Scandroglio

Pare che d’ora in poi “cambiare sesso” sarà sempre più facile, come spostare le lancette dell’orologio per l’ora legale o cambiare colore dei capelli. La procedura si sta snellendo grazie ai giudici che si stanno sostituendo ai chirurghi.
A fine luglio dell’anno scorso avevamo dato notizia su queste colonne  di un giudice di Rovereto che permise al signor Luca di diventare la signorina Lucia semplicemente perché aveva iniziato le cure ormonali, ma senza necessità di passare in sala operatoria. Allora avevamo commentato che secondo una certa interpretazione giurisprudenziale la sentenza era ineccepibile perchè “la legge 164 del 1982 all’art. 3 non obbliga sempre all’operazione chirurgica, bensì richiede solo che siano già intervenute alcune modificazioni dei caratteri sessuali del transessuale (art. 1), ad esempio tramite l’assunzione di ormoni”.

Il caso era analogo ad altri due, decisi favorevolmente dai tribunali di Roma e Siena rispettivamente nel 1997 e nel 2013.  Ma erano decisioni più uniche che rare dato che chi è uomo e si sente donna fa anche di tutto per cambiare al femminile il proprio corpo. Questo prevede per legge sedute con lo psichiatra, poi trattamenti ormonali, successivamente la richiesta al giudice di sottoporsi ad intervento chirurgico ed infine il cambio dei documenti.
Sempre di più però emergono casi in cui chi vuole “cambiar sesso” non sente questo bisogno di intervenire anche sul proprio corpo per sentirsi pienamente “maschio” o “femmina”. Ieri i media hanno dato grande spolvero ad una vicenda giudiziaria datata novembre 2014 in cui il Tribunale di Messina ha permesso ad un giovane di 21 anni di cambiare anagrafica sessuale senza operazione chirurgica. L’aspetto peculiare di questo caso che lo differenzia dagli altri sta però nelle motivazioni addotte dai giudici. Esisterebbe nell’infinito supermercato dei desideri anche “il diritto ad una diversa identità di genere”. I colleghi di Roma, Siena e Rovereto si erano appellati a motivazioni invece solo di carattere sanitario per far evitare al transessuale il bisturi.
Qui invece si fa appello ad un diritto identitario che non può essere vincolato a procedure standard. Analogo ragionamento è stato articolato dal Tribunale di Trento che la scorsa estate ha sì respinto la richiesta di Monica Notarangelo di rettificazione di attribuzione del sesso senza operazione chirurgica – che per il Tribunale era necessaria – ma altresì ha chiesto alla Corte Costituzionale di verificare se “l'imposizione di un determinato trattamento medico, sia esso ormonale ovvero di riattribuzione chirurgica del sesso, costituisce   […] una grave  ed inammissibile limitazione al riconoscimento del diritto all'identità di genere (maschile o femminile)”.

I giudici allora specificarono che “il dato fondamentale non è più il sesso biologico o anagrafico, ma il genere, che si può definire quale ‘variabile socio-culturale’, vale a dire ‘della persona in base alla quale della stessa si può dire che è maschile o femminile". Ed infatti – continuano i giudici - la legge dell’82 ha come scopo “la rettificazione di attribuzione di sesso, e non la riassegnazione sessuale sul piano anatomico”. Quindi il Tribunale trentino concluse che subordinare “il diritto di scegliere la propria identità sessuale alla modificazione dei propri caratteri sessuali primari da effettuarsi tramite un doloroso e pericoloso intervento chirurgico, finisce col pregiudicare irreparabilmente l'esercizio del diritto stesso, vanificandolo integralmente”. Da qui la richiesta alla Consulta di verificare la legittimità costituzionale della legge 164/82 perché metterebbe troppi paletti all’identità di genere.
Se i giudici della Corte Costituzionale decideranno che sedute con lo psichiatra, stimolazioni ormonali e operazioni chirurgiche sono vincoli troppo onerosi per chi ha deciso di passare dai pantaloni alla gonnella e viceversa, la teoria del gender avrà avuto finalmente l’imprimatur dello Stato. Infatti quest’ultima predica che basta percepirsi donna per esserlo, al di là del dato genetico e morfologico. Se il corpo dice a tutti ad esempio di essere maschio, poco importa. Ciò che è importante è la rappresentazione mentale di se stessi.

Se questo è l’aspetto fondamentale, è inutile prendere pillole e bisturi per modificare il corpo. I giudici lo hanno detto a chiare lettere: non è importante la biologia, ma la psicologia. Ed è quello che hanno fatto sempre le ideologie: fregarsene del reale e sovrapporre ad esso il proprio schema mentale razionalista. E se il reale si ribella? Beh basta portarlo in tribunale.

*

Niente fiori per nozze gay? Non puoi fare il fiorista
di Massimo Introvigne
Qualche settimana fa il nostro giornale (La nuova bq, ndr) ha segnalato la proliferazione in diversi Paesi di casi giudiziari in cui attivisti LGBT ordinano a pasticcieri cristiani una torta decorata con riferimenti a un matrimonio gay e, in caso di rifiuto, li denunciano chiedendo danni milionari. In quell'occasione segnalavamo anche l'attesa per la sentenza nello Stato americano di Washington sul caso Arlene's Flowers, che coinvolgeva  problemi giuridici molto interessanti e rilevanti anche per l'Italia.

Il giudice della Corte Superiore dello Stato di Washington ha ora reso la sua decisione (leggi qui il testo completo), formalmente datata 18 febbraio ma pubblicata il 24 febbraio. È un piccolo trattato di sessanta pagine, che mostra la micidiale combinazione prodotta dalla coesistenza fra leggi sull'omofobia e leggi sul «matrimonio» omosessuale, con conseguenze gravissime per la libertà religiosa e per la libertà di espressione.
Non è proprio una lettura leggera, ma la sentenza va letta tutta, non fidandosi dei riassunti sui media degli Stati Uniti. Le sue premesse giuridiche sono due. In primo luogo, lo Stato di Washington ha una legge contro le discriminazioni (WLAD, Washington Law Against Discrimination), che è stata modificata per includere le discriminazioni fondate sull'omofobia: esattamente il tipo di intervento legislativo che ha proposto in Italia l'onorevole Scalfarotto. Secondo: nel 2012 lo Stato di Washington ha introdotto il «matrimonio» fra persone dello stesso sesso.
I fatti risalgono al 2013. Arlene's Flowers è un negozio di fiori a Richland, nello Stato di Washington, gestito da Barronelle Stutzman, una madre e nonna di famiglia attiva nella comunità protestante dei Battisti del Sud, la più grande denominazione protestante degli Stati Uniti. È, per ammissione dei suoi stessi oppositori, un'artista del suo ramo, che non si limita a vendere fiori ma li dispone in creazioni fantasiose e originali. Per giunta la Stutzman impone ai suoi dipendenti un codice anti-discriminazione, dove spiega che nel suo negozio tutti sono i benvenuti, indipendentemente dalla religione, dal colore della pelle, dalle idee e dai comportamenti privati. In effetti Robert Ingersoll, noto alla Stutzman come omosessuale, è stato per anni un eccellente cliente del negozio, ancorché i Battisti del Sud siano contrari a ogni tipo di pratica omosessuale.
Nel 2013 Ingersoll ha annunciato alla Stutzman che stava per sposare il suo compagno, e le ha chiesto un arrangiamento floreale speciale per il matrimonio. La Stutzman gli ha spiegato che la sua fede - e anche le regole dei Battisti del Sud, un cui documento vieta ai fedeli ogni cooperazione a «matrimoni» omosessuali - le proibivano di aderire alla sua richiesta. Peraltro, la Stutzman sarebbe stata lieta di fornire a Ingersoll i fiori, ma senza bande o segni specifici riferiti al matrimonio.
Benché la Stutzman considerasse Ingersoll un amico, quest'ultimo - senza dubbio incitato dalle associazioni LGBT - le ha fatto causa, e si è rivolto anche al procuratore generale dello Stato di Washington, che ha promosso un'azione contro la fiorista, autonoma nell'origine rispetto a quella di Ingersoll ma ora decisa insieme.
La sentenza stabilisce che la Stutzman non può rifiutarsi di preparare creazioni floreali specificamente destinate a un matrimonio omosessuale e decorate con bandiere o festoni che lo indichino. Diversamente, viola la legge dello Stato di Washington contro l'omofobia. A causa del rifiuto, deve pagare le spese del complesso giudizio e risarcire i danni a Ingersoll, al suo compagno e allo Stato, il che significa molto semplicemente che dovrà chiudere bottega, a meno di riuscire a rovesciare la sentenza in appello.
C'è un punto chiave della sentenza che è sfuggito a molti commentatori, e che introduce nel caso un elemento diverso rispetto a quelli relativi alle torte e anche al precedente - che cita quindici volte e di cui tiene ampio conto - della sentenza del 22 agosto 2013 della Corte Suprema del New Mexico, di cui avevamo puntualmente informato i nostri lettori (leggi qui), in cui una fotografa artistica cristiana era stata condannata per essersi rifiutata di fotografare il matrimonio di due lesbiche. 
Il passaggio decisivo - e molto pericoloso - della sentenza dello Stato di Washington afferma che «la sera del 5 novembre 2012 non c'era conflitto fra la legge dello Stato di Washington contro l'omofobia e le convinzioni battiste della signora Stutzman. Il mattino dopo nello Stato era entrata in vigore la legge sul matrimonio omosessuale e si era creato un insanabile conflitto fra il comportamento religiosamente motivato della signora Stutzman e le leggi dello Stato di Washington». 
Questo punto è importante anche per l'Italia. Esattamente come la legge anti-omofobia dello Stato di Washington, il DDL Scalfarotto in Italia vuole punire la discriminazione e l'incitamento alla discriminazione basati su pregiudizi anti-omosessuali (la differenza semmai è che con il DDL italiano non si perde solo il lavoro come nello Stato di Washington ma si va anche in prigione). 
La domanda è se opporsi al «matrimonio» omosessuale costituisca espressione di omofobia. La Corte dello Stato di Washington si rende conto di quanto sia delicata la questione dal punto di vista della libertà religiosa. E risponde dunque che tutto dipende dalle leggi. Fino a quando lo Stato non si era dotato di una legge che introduce il «matrimonio» omosessuale, cioè nello Stato di Washington fino alla sera del 5 novembre 2012, anche in presenza di una legge contro l'omofobia, si poteva - entro certi limiti - dichiararsi contrari con le parole e con i fatti a questi «matrimoni». Ma dal momento in cui lo Stato introduce il «matrimonio» omosessuale la definizione di omofobia, che è dinamica, cambia, e così dalla mattina del 6 novembre 2012 un comportamento che avrebbe potuto essere ammissibile fino alla sera prima diventa illegale ed espone alla rovina economica.
Ma così, ci si può chiedere, non si viola la libertà religiosa? La sentenza cita la giurisprudenza americana secondo cui lo Stato può limitare la libertà religiosa quando ha da difendere un suo interesse fondamentale prevalente. È la teoria del «compelling interest». Secondo il giudice, quello di difendere la sua legge sul «matrimonio» omosessuale e gli omosessuali dalle discriminazioni è per lo Stato di Washington un «interesse imperativo» che prevale sulla libertà religiosa.
Ormai la giurisprudenza di un Paese influenza tutti gli altri, specie se il Paese sono gli Stati Uniti. C'è da aspettarsi, e da temere, che la sentenza avrà una sua carriera, e che anche in Italia se ne considererà con interesse il punto centrale: che la nozione di omofobia non è fissa ma dinamica, che cambierà con i cambiamenti delle leggi sulle unioni omosessuali, e che se forse non è omofobo chi critica queste leggi allo stato di progetto diventerà omofobo chi le criticherà dopo che saranno state approvate.