giovedì 26 febbraio 2015

Il sangue dei cristiani in Siria è anche il nostro


Cristiani perseguitati in Siria

di Riccardo Cascioli

Chiariamo subito: quello che segue non è il solito lamento sul fatto che nessuno si muove mentre i cristiani vengono massacrati e sono costretti a fuggire dai loro paesi in Medio Oriente. Certo, questo è un dato di fatto e nei giorni scorsi il racconto dell’attacco dell’Isis ai villaggi cristiani nella valle del Khabur, con turchi, americani e quant’altro a guardare (clicca qui) è molto eloquente al proposito, così come il fatto che a livello internazionale non c’è nessuna iniziativa concreta e l’affermazione che ci si muove solo sotto l’egida dell’Onu è diventato un bell’alibi per non assumersi alcuna responsabilità. Per non parlare poi del Rapporto di Amnesty International – di cui scriviamo a parte – che ”dimentica” le persecuzioni subite dai cristiani.
Ma non è su questo che vorrei soffermarmi. Piuttosto mi ha colpito nei giorni scorsi l’articolo della nostra Angela Pellicciari che ricordava la documentazione sulle violenze dei musulmani in Terrasanta che spinsero alla prima Crociata (clicca qui). Violenze efferate sui cristiani che vivevano sotto i turchi o che si recavano in pellegrinaggio in Terrasanta. Quelle notizie e la perdita della possibilità di recarsi sui luoghi che avevano visto camminare Gesù provocarono una tale commozione a Roma e nell’Europa cristiana da spostare gli eserciti.

Non voglio qui invocare una nuova Crociata, ci mancherebbe altro; i tempi sono cambiati, per quanto anche allora non fosse così semplice decidere di allestire un esercito multinazionale e partire. Semplicemente non può non fare riflettere la sproporzione, davanti ad analoghe violenze islamiche e negli stessi luoghi, tra la decisione di allora di partire in armi e la difficoltà di oggi che abbiamo anche a scomodarci per partecipare a una veglia di preghiera in parrocchia per i cristiani perseguitati, ammesso che ci siano parroci e vescovi che pensino a organizzarle. Ripeto, non è il problema di preparare un intervento militare, se almeno si vedesse la decisione a fare qualcosa di concreto per strappare i nostri fratelli cristiani a un destino che sembra segnato.
Il fatto è che è troppa la sproporzione per non lasciarsi interrogare, per non chiedersi cosa è cambiato. Per reagire, per sentire il dolore e prendere le misure adeguate bisogna anzitutto sentire di appartenere allo stesso corpo. Così che se viene colpito un dito della mano ne risente anche il volto. Evidentemente mille anni fa esisteva una Cristianità, un popolo che percepiva gli altri cristiani come parte di sé. Dei pastori che non rimanevano insensibili al grido di altri pastori. E la Terrasanta era la casa comune, era veramente la Terra Santa, sacra a tutti i cristiani come sacra è la camera degli sposi nelle nostre case. E una cosa sacra non si può violare impunemente.

Chi resterebbe immobile nel guardare un estraneo violare e fare a pezzi la nostra casa? L’espressione forse non si addice a un Papa, ma aveva ragione Francesco quando faceva l’esempio del pugno a chi insulta la mamma, è una reazione umana. Il problema è appunto che oggi dobbiamo fare un grande sforzo per convincerci che la Terrasanta è la nostra casa e che i cristiani di quelle regioni, le antiche comunità che ancora conservano la lingua con cui si esprimeva Gesù, sono davvero nostri fratelli, più ancora dei nostri familiari di sangue.
Dobbiamo ammetterlo: oggi la Cristianità non esiste più, e non è questione di numeri, non è questione di essere minoranza. È invece questione di giudizio: a chi apparteniamo, se apparteniamo. Oggi prevale il sentirsi cristiani “individualmente”, ognuno per sé Dio per tutti. Se siamo tutto sommato poco interessati a quanti incontriamo in chiesa ogni domenica, figurarsi quanto ci possono smuovere le vicende di una sconosciuta famiglia irachena o di un prete indiano.
Non è un lamento o il rimpianto dei bei tempi perduti, è una constatazione. Che però dovrebbe anche suggerire le priorità dei nostri pastori. 
C’è poi da considerare un secondo aspetto, forse meno importante del primo ma dalle conseguenze molto gravi: il giudizio sull’islam e sul mondo islamico. Per i nostri antenati era evidente che l’islam era una minaccia gravissima per la cristianità e per il cristianesimo, non si facevano illusioni sulle intenzioni. Non solo in Terrasanta, ma anche qui in Europa. Si percepiva chiaramente che da questo punto di vista Terrasanta ed Europa erano un tutt’uno. Anche allora non tutti i musulmani volevano la guerra o ardevano dalla voglia di impalare i cristiani, ma era un dato di fatto che le nazioni islamiche avanzassero con la spada non potendo fare distinzione alcuna tra sfera religiosa e sfera temporale. È così che più volte nel corso dei secoli gli eserciti cristiani hanno bloccato il tentativo di conquista islamica dell’Europa, combattendoli davanti alla Turchia o sotto le mura di Vienna, ma sempre avendo chiaro che si combatteva per salvare la nostra civiltà. Rileggersi il bel romanzo storico di Louis de Wohl “L’ultimo crociato” aiuta a capire molto bene questo punto, e anche da che parte si schiereranno i musulmani “moderati”, quelli che vivono da tanto tempo in Europa e fanno affari con i cristiani, quando arriverà il momento decisivo. Per quale motivo oggi dovrebbe essere diverso quando per 1400 anni ha funzionato sempre allo stesso modo?
Anche qui non è questione di apertura o di chiusura, è una questione di giudizio. Oggi ci piace invece immaginare che le cose stiano diversamente: che il fondamentalismo islamico non abbia a che fare con l’islam; che il Califfo che ora si affaccia sul Mediterraneo sia una creatura degli Stati Uniti e di Israele; che basti evocare il dialogo per far sparire tutti i pericoli (si sapesse almeno su che cosa si dovrebbe dialogare). E così ci sentiamo tranquilli. Non ci si rende conto invece che stiamo spalancando le porte a chi intende solo seppellirci. 
Non illudiamoci: il sangue dei cristiani versato in Iraq e in Siria sarà presto anche il nostro sangue. Se non salveremo loro non ci salveremo neanche noi. A prescindere da ciò che percepiamo e da ciò che ci piace credere.