giovedì 26 febbraio 2015

La prima messa in lingua italiana




(Giuseppe Midili, Direttore dell’Ufficio liturgico del Vicariato di Roma) «Che cosa stiamo facendo? (…) Noi stiamo attuando una realtà (…) Si inaugura oggi la nuova forma della liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo». Queste parole cariche di emozione pronunciate da Papa Paolo VI durante la prima messa in italiano celebrata il 7 marzo 1965 nella parrocchia romana di Ognissanti — alla quale il Vicariato di Roma dedica oggi, venerdì 27 febbraio, il convegno «Uniti nel rendimento di grazie» — rivelano un’attenzione verso il popolo di Dio, che esigeva una particolare cura pastorale per far rinascere la vita spirituale.
Il passaggio dal latino alla lingua viva fu uno dei segni più evidenti del cambiamento introdotto dal Vaticano II e testimonia che il criterio pastorale animò tutti i lavori del concilio e caratterizzò la riforma liturgica. «È un grande avvenimento, che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nuovo nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo». Paolo VI il 7 marzo 1965 anche durante l’Angelus volle ribadire il senso di questo cambiamento: la Chiesa riteneva necessario introdurre la lingua dei fedeli nella preghiera, per renderla comprensibile. Si sacrificava così il latino e «l’unità di linguaggio nei vari popoli in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti». Si segnava così «una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa». 
Quando i padri conciliari si trovarono a riflettere sulla riforma e promozione della liturgia, intesero «adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti» (Sacrosanctum concilium, 1). La partecipazione piena, attiva e consapevole dei fedeli alla liturgia ha il suo fondamento nel dono del battesimo e costituisce uno dei pilastri della riforma e un criterio di revisione dei riti e dei testi. Quando nell’assemblea conciliare si arrivò a trattare l’uso del latino nella liturgia, si stabilì che la lingua viva — poiché può rivelarsi di grande utilità per il popolo — trovasse uno spazio più ampio nelle celebrazioni liturgiche. Negli anni immediatamente successivi, speciali commissioni studiarono la possibilità di introdurre nella prassi celebrativa i principi teologici emersi durante il concilio. Paolo VI decise di approvare una prima attuazione della riforma, che già era possibile tradurre in pratica senza dover attendere i nuovi libri liturgici, come per esempio l’uso della lingua viva.
In questi cinquant’anni i principi teologici e i criteri pastorali racchiusi nella Sacrosanctum concilium sono stati l’anima che ha guidato la riforma, ma tutto ciò che fu predisposto non si è sempre attuato. Tradurre in lingua parlata le formule o i testi della sacra Scrittura è stato l’inizio di un percorso. Rimane ancora un grande lavoro da compiere: aiutare i fedeli a entrare più profondamente nell’esperienza dell’incontro con Cristo, che si realizza nella liturgia. Partendo da un’autentica proposta di fede e di conversione, è necessario sviluppare un progetto di pastorale liturgica che incarni nella vita celebrativa quotidiana la teologia e la pastorale emersi dal Vaticano II, rivolgendosi principalmente alle comunità parrocchiali.
La celebrazione perde forza comunicativa se usa un linguaggio e alcuni segni che non sono chiari per gli uomini di oggi o non vengono spiegati. Per questo Papa Francesco nella Evangelii gaudium scrive che «la Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della liturgia» (n. 24). Pastori e battezzati entreranno nell’esperienza liturgica della Chiesa per riscoprire la vera fonte della vita cristiana e individuare nelle proposte dei nuovi libri liturgici una via idonea per una partecipazione piena al mistero pasquale di Cristo. Un percorso di pastorale liturgica ribadirà il senso della riforma, in continuità con quanto profeticamente dichiarato da Paolo VI all’Angelus del 7 marzo 1965: «Questo per voi, fedeli, perché sappiate meglio unirvi alla preghiera della Chiesa, perché sappiate passare da uno stato di semplici spettatori a quello di fedeli partecipanti e attivi». 
L'Osservatore Romano

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Cinquant'anni fa la prima versione del rito romano post-conciliare, introdotta in forma sperimentale nel marzo 1965. È il primo abbozzo della riforma liturgica che porterà al nuovo messale, entrato in vigore nel novembre 1969

ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO

Entrata in vigore con il nuovo messale romano il 30 novembre 1969, la riforma post-conciliare ha introdotto molti cambiamenti nella liturgia. Le novità più significative sono la traduzione del rito nelle lingue nazionali e, soprattutto, un notevole arricchimento di testi della Scrittura, con tre letture domenicali (la prima solitamente tratta dall’Antico testamento, la seconda dalle epistole paoline e la terza dai vangeli) che cambiano susseguendosi in tre diversi cicli annuali. Se prima la celebrazione era focalizzata soltanto sull’eucaristia come sacrificio, ora acquista importanza la «mensa della parola» che si affianca alla «mensa del pane». Maggiormente sottolineato è pure l’aspetto assembleare, della cena comunitaria. Di notevole impatto per i fedeli è anche la decisione di far sì che il celebrante non sia più rivolto a Oriente, dando le spalle ai fedeli, ma celebri rivolto verso di loro.

Una prima versione del nuovo rito della messa viene introdotto a partire dal marzo 1965, cinquant'anni fa. Celebrando per la prima volta nella nuova forma, nella parrocchia romana di Ognissanti, il Papa aveva così sintetizzato il suo scopo: «Prima bastava assistere, ora occorre partecipare; prima bastava la presenza, ora occorrono l’attenzione e l’azione; prima qualcuno poteva sonnecchiare e forse chiacchierare; ora no, deve ascoltare e pregare».

Vale la pena ricordare come la necessità di un rinnovamento liturgico e di un maggiore spazio alle lingue nazionali nel rito era stata un’idea che Giovanni Battista Montini aveva avuto fin dagli anni della sua formazione alla scuola dei suoi maestri, padre Giulio Bevilacqua e padre Paolo Caresana. Un’attenzione che nasceva dalla forte attrazione che il giovane Montini avvertiva verso l’essenzialità della liturgia benedettina.

Durante i lavori della commissione preparatoria del concilio, uno degli interventi più decisi in favore dell’introduzione delle lingue nazionali nella liturgia, era stato proprio quello dell’allora arcivescovo di Milano. Il quale, il 26 marzo 1962, si era dichiarato insoddisfatto per quanto era stato fino a quel momento detto circa l’uso della lingua volgare. Era andato oltre le sollecitazioni dei cardinali che non giudicavano sufficiente l’introduzione del volgare nelle letture, nelle ammonizioni, nelle orazioni e nei canti; aveva proposto la lingua volgare anche nell’introito, nel Credo, nell’offertorio e nel Pater noster. Inoltre aveva chiesto venissero celebrati in lingua volgare i sacramenti e sacramentali. E aveva concluso con queste parole: «Se escludiamo la lingua volgare dalla liturgia, perdiamo indubbiamente un’ottima occasione per educare rettamente il popolo e restaurare il culto divino».

Emerge dunque in tutta chiarezza come un determinato e preciso indirizzo dato alla riforma liturgica da Paolo VI nell’immediato post-concilio, corrisponda al suo modo di sentire, anche se va notato come Montini pensasse soprattutto al bene dei fedeli, alla possibilità di partecipare meglio alla messa.

Paolo VI aveva istituito il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, organismo nuovo e a sé stante incaricato di dare attuazione alle direttive conciliari. Era presieduto dal cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, e aveva come segretario padre Annibale Bugnini, il quale aveva già collaborato, a suo tempo, alla riforma della settimana santa stabilita da Pio XII nel 1954. La riforma definitiva, entrata in vigore alla fine del 1969, viene preceduta da graduali esperimenti. L’idea di fondo è quella di far ritrovare al rito la sua essenzialità, arricchendolo di sacra Scrittura, di liberarlo dagli orpelli barocchi, di rendere più facile la partecipazione dei fedeli, i quali a volte trascorrono il tempo della messa a recitare il rosario e, in taluni casi, a chiacchierare in fondo alla chiesa, come documentano alcune eloquenti fotografie fatte scattare da don Lorenzo Milani. È un lavoro faticoso: bisogna facilitare la partecipazione alla liturgia, «da un lato vincere resistenze, dall’altro scoraggiare sperimentazioni e innovazioni arbitrarie», spiega il segretario di Paolo VI, don Pasquale Macchi.

Il 25 gennaio 1964, con il motu proprio Sacram liturgiam, il papa ammette le lingue nazionali soltanto per le letture e il vangelo della messa degli sposi. È un documento che istituisce il gruppo che dovrà occuparsi della riforma, ma il fatto che in esso non si introducano novità significative – il lavoro vero e proprio degli esperti doveva ancora svolgersi – provoca la reazione di alcuni vescovi, i quali ritengono che si sia concesso «troppo poco». Il 26 settembre 1964, con l’istruzione Inter Oecumenici, preparata dal Consilium e promulgata dalla congregazione dei Riti, viene autorizzata l’introduzione delle lingue nazionali nelle letture, nel vangelo, nella preghiera dei fedeli, nel Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei; nei canti, nelle acclamazioni e nei saluti, nel Padre nostro e nella preghiera sulle offerte. L’istruzione è bene accolta dalle conferenze episcopali che più desideravano il cambiamento, anche se così, osserva Bugnini, «la messa tra latino e volgare risultava un ibrido senza coerenza».

Questa forma del rito, in vigore dal marzo 1965, sarà accettata e celebrata anche dall’arcivescovo Marcel Lefebvre, che negli anni successivi si sarebbe ribellato al Papa. Meno di tre anni dopo, il 31 gennaio 1967, Paolo VI concede in via sperimentale l’uso del volgare anche nel canone della messa, dato che, osserva Bugnini, non completare l’allargamento delle lingue nazionali a tutte le parti del rito «sarebbe stato come spalancare all’ospite tutte le porte di casa, ma chiudergli il cuore». Il 21 giugno dello stesso anno, il Consilium invia ai presidenti delle conferenze episcopali una lettera circolare, firmata dal cardinale Lercaro, nella quale si afferma: «Dopo il punto di partenza iniziale e l’estensione della lingua parlata al prefazio, questa è l’ultima tappa per la graduale estensione del volgare. Nelle celebrazioni non si dovrà più passare frequentemente da una lingua all’altra: e questo tornerà certamente gradito... La traduzione deve essere letterale e integrale... Non è opportuno bruciare le tappe. Quando sarà il momento di nuove creazioni, allora non sarà più necessario sottostare alle strettezze della traduzione letterale».

Il lavoro che porta alla riforma liturgica non è facile né semplice né privo di tensioni. Come confermano i diari di un altro protagonista, monsignor Ferdinando Antonelli, futuro cardinale. Le annotazioni di Antonelli, direttamente coinvolto nei lavori, sollevano infatti più di un dubbio sul modo di procedere della commissione in alcune circostanze. Il futuro porporato non è affatto contrario all’introduzione delle lingue nazionali, ma desidera che la riforma liturgica sia realizzata con ogni attenzione.

Il 3 settembre 1969, parlando della riforma all’udienza generale, Papa Montini non nasconde i rischi: «Questa riforma presenta qualche pericolo; uno specialmente, quello dell’arbitrio, e quello perciò d’una disgregazione dell’unità spirituale della società ecclesiale, della eccellenza della preghiera e della dignità del rito. Vi può dare pretesto la molteplicità dei cambiamenti introdotti nella preghiera tradizionale e comune; e sarebbe grande danno se la sollecitudine della madre Chiesa nel concedere l’uso delle lingue parlate, certi adattamenti a desideri locali, certa abbondanza di testi e novità di riti, e non pochi altri sviluppi del culto divino, generasse l’opinione che non esiste più norma comune, fissa e obbligatoria nella preghiera della Chiesa, e che ciascuno può presumere di organizzarla e di disorganizzarla a suo talento».

Il 26 novembre di quell'anno, ormai alla vigilia della promulgazione, Paolo VI così la presenta ai fedeli nel suo cambiamento più significativo, la scomparsa del latino: «Qui, è chiaro, sarà avvertita la maggiore novità: quella della lingua. Non più il latino sarà il linguaggio principale della Messa, ma la lingua parlata. Per chi sa la bellezza, la potenza, la sacralità espressiva del latino, certamente la sostituzione della lingua volgare è un grande sacrificio: perdiamo la loquela dei secoli cristiani, diventiamo quasi intrusi e profani nel recinto letterario dell’espressione sacra, e così perderemo grande parte di quello stupendo e incomparabile fatto artistico e spirituale, ch’è il canto gregoriano. Abbiamo, sì, ragione di rammaricarci, e quasi di smarrirci: che cosa sostituiremo a questa lingua angelica? È un sacrificio d’inestimabile prezzo».

Le ragioni addotte dal Papa, ancora una volta riguardano la missione, la possibilità di raggiungere mondi che si sono allontanati dalla Chiesa. «La risposta pare banale e prosaica; ma è valida; perché umana, perché apostolica. Vale di più l’intelligenza della preghiera, che non le vesti seriche e vetuste di cui essa s’è regalmente vestita; vale di più la partecipazione del popolo, di questo popolo moderno saturo di parola chiara, intelligibile, traducibile nella sua conversazione profana. Se il divo latino tenesse da noi segregata l’infanzia, la gioventù, il mondo del lavoro e degli affari, se fosse un diaframma opaco, invece che un cristallo trasparente, noi, pescatori di anime, faremmo buon calcolo a conservargli l’esclusivo dominio della conversazione orante e religiosa?». È il principio pastorale di sant’Agostino: «Preferisco parlare sgrammaticato e farmi capire dal popolo, che parlar forbito e non farmi capire».