giovedì 26 febbraio 2015

Nel solco del Vaticano II




Nuove norme per il clero orientale cattolico uxorato. 

(Cyril Vasil - Segretario della Congregazione per le Chiese orientali) Fino a qualche mese fa sembrava che sulla presenza e il servizio pastorale del clero orientale cattolico uxorato nella cosiddetta diaspora, fuori cioè dei territori orientali tradizionali, non fosse possibile aggiungere nulla dal punto di vista storico o normativo che non fosse già studiato e considerato. La questione è riassunta nel canone 758 paragrafo 3 del Codex canonum ecclesiarum orientalium che recita:
«A riguardo dell’ammissione agli ordini sacri dei coniugati si osservi il diritto particolare della propria Chiesa sui iuris o le norme speciali stabilite dalla Sede apostolica».

Seguendo la prassi antica, tutte le Chiese orientali cattoliche (a eccezione di quelle siro-malabarese e siro-malankarese che hanno una normativa propria) possono ammettere gli uomini sposati non solo al diaconato ma anche al presbiterato. Per l’esercizio del ministero da parte del clero uxorato fuori dei territori tradizionali di queste Chiese, si faceva invece riferimento alle norme speciali stabilite dalla Sede apostolica. Un recente e importante sviluppo della relativa legislazione offre l’occasione per richiamare i punti principali della questione nella sua prospettiva storica e per la presentazione della nuova normativa entrata in vigore.
A partire dal 1890 la Sede apostolica ha emanato direttive secondo le quali i presbiteri delle Chiese orientali cattoliche, che esercitavano o avrebbero voluto esercitare la cura pastorale dei loro fedeli orientali fuori dei territori tradizionali, erano vincolati all’obbligo del celibato come per i chierici latini. Sporadici casi di eventuale richiesta di dispensa erano sottoposti alla Sede apostolica.
La sessione plenaria della Congregazione per le Chiese orientali, tenutasi dal 19 al 22 novembre 2013 presso il Palazzo apostolico, ha trattato ampiamente la questione ottenendo al riguardo un ampio consenso dei membri. Di conseguenza, il prefetto della congregazione ha presentato al Papa la richiesta di concedere alle rispettive autorità ecclesiastiche la facoltà di permettere, a determinate condizioni, al clero uxorato orientale l’esercizio del loro ministero anche fuori dei territori orientali tradizionali.
Il Santo Padre, nell’udienza concessa al prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, cardinale Leonardo Sandri, il 23 dicembre 2013, ha accolto questa richiesta, contrariis quibuslibet minime obstantibus, e il testo delle nuove disposizioni è stato pubblicato negli «Acta Apostolicae Sedis» (106, 2014, pp. 496-499) con il titolo Pontificia praecepta de clero uxorato Orientali e la data del 14 giugno 2014. Per poter comprendere la portata di queste misure, sembra opportuno almeno sommariamente richiamare la storia della legislazione, dagli inizi all’attuale normativa, più corrispondente all’attuale situazione.
Nascita della norma restrittiva
Alla fine del XIX secolo la migrazione in America di cattolici orientali, in prevalenza slavi (ucraini, ruteni, slovacchi, ecc.), colse la gerarchia latina locale del tutto impreparata ad affrontare tale flusso migratorio dal punto di vista pastorale e a comprenderne le peculiarità sociali ed ecclesiali. L’idea originale di conglobare tutti cattolici sotto la giurisdizione latina trovava il suo appoggio sia nella diffusa mentalità della prestantia ritus Latini, sia nella sottovalutazione delle particolari caratteristiche dei cattolici orientali. Ai vescovi americani di estrazione irlandese o tedesca la possibilità per il clero orientale di essere coniugato era praticamente sconosciuta, estranea e considerata inammissibile. Di conseguenza gli ordinari latini si rivolsero con veemenza alla Sede apostolica chiedendo di emanare norme restrittive che avrebbero eliminato la differenza disciplinare nei territori e tra i fedeli affidati alla loro cura pastorale.
In seguito a tale insistenza la Sacra Congregazione di Propaganda Fide, con decreto del 1° ottobre 1890, proibì al clero ruteno uxorato di risiedere negli Stati Uniti d’America. Nel 1913 la Sede apostolica stabilì che in Canada solo i celibi potevano essere ordinati presbiteri e tra il 1929 e il 1930, la Sacra Congregazione per la Chiesa orientale emanò tre decreti: Cum data fuerit del 1° marzo 1929 proibì l’esercizio del ministero al clero ruteno uxorato in emigrazione nell’America del nord; Qua sollerti del 23 dicembre 1929 estese la proibizione del ministero a tutto il clero orientale uxorato emigrato in America del Nord e del Sud, in Canada e in Australia; Graeci-Rutheni del 24 maggio 1930 stabilì che solo gli uomini celibi potevano essere ammessi in seminario e promossi all’ordine sacro.
Questi decreti, che inizialmente riguardavano solo il clero orientale negli Stati Uniti e nel Canada, per la prima volta introducevano l’obbligo generale del celibato per i chierici cattolici orientali e costituivano una sorta di precedente giuridico, che veniva poi esteso agli altri territori considerati non orientali. La normativa veniva motivata dalla difficoltà — ma forse anche con scarsa volontà — di spiegare ai fedeli latini che il celibato obbligatorio dei presbiteri vige solo nella Chiesa latina, con la preoccupazione e presunzione che la presenza del clero cattolico orientale uxorato sarebbe stata nociva al rispetto che i fedeli laici nutrono per il clero cattolico e che questa, inoltre, avrebbe messo in pericolo il celibato dei presbiteri latini. Tutto sommato, dunque, i motivi che hanno causato la nascita della norma restrittiva sembrano essere di natura pratica e pastorale piuttosto che teologica ed ecclesiologica.
I risultati dell’introduzione dell’obbligo del celibato per il clero orientale cattolico sono stati controversi. Da una parte si arrivò all’uniformità della disciplina, ma dall’altra le comunità cattoliche orientali si divisero. Nei primi decenni successivi all’introduzione delle norme restrittive per il clero uxorato, circa duecentomila fedeli ruteni, vedendosi in pericolo di essere privato dei ministri del loro rito, passarono all’ortodossia.
I fedeli e il clero rimasti nella Chiesa cattolica si sottomisero a tale normativa, ma restava un senso di disagio. Infatti, nella disputa che portò alla legislazione restrittiva, i fedeli orientali non furono sufficientemente consultati e le esigenze dei presbiteri e dei vescovi orientali non vennero prese in debita considerazione e perciò tale legislazione fu percepita come un’imposizione più che uno sviluppo organico corrispondente alle tradizioni.
Il periodo postconciliare
Dopo il Vaticano II, anche sulla base delle affermazioni del decreto Orientalium ecclesiarum sul rispetto delle tradizioni orientali ubique terrarum, i capi di alcune Chiese orientali cattoliche e altri gerarchi si sono rivolti alla Sede apostolica chiedendo l’abrogazione della legislazione restrittiva. Infatti il concilio insegna che le discipline particolari degli orientali, raccomandate per veneranda antichità, sono più corrispondenti ai costumi dei loro fedeli e più adatte a provvedere al bene delle loro anime.
Nonostante ciò, in varie lettere autografe di Paolo VI e Giovanni Paolo II ai presuli delle Chiese melchita e ucraina veniva ribadita la permanenza della norma restrittiva per il clero uxorato in diaspora. Le motivazioni addotte richiamavano la gerarchia orientale au sens de l’Eglise universelle e alla necessità di tenere conto des répercussions que peuvent provoquer chez d’autres rites de l’Eglise Catholique. Concretamente, viene specificato nella lettera della Congregazione per le Chiese orientali n. 344/70 del 30 gennaio 1980, di quelle ripercussioni que la présence de prêtres orientaux mariés, … pose des problèmes délicates aux communautés de rite latin.
Come interpretare tale invito al senso del bene della Chiesa universale e quali sono stati i problemi delicati del rito latino all’epoca connessi con la presenza del clero sposato? Con ogni probabilità si può intravedere in tale invito l’ombra della grave crisi del celibato sacerdotale che ha scosso la Chiesa latina, specialmente in occidente nel periodo postconciliare, in particolare negli anni settanta del secolo scorso. I numerosi abbandoni del sacerdozio e la contestazione diffusa della normativa latina sul celibato sono stati un fenomeno che ha gravemente ferito la Chiesa cattolica.
In quest’ottica si comprendono i timori che la revoca della normativa restrittiva per il clero orientale uxorato, richiesta dai presuli orientali, sarebbe stata in quel periodo probabilmente manipolata e interpretata come un argomento contro il celibato del clero latino e come un segno della vacillazione della Chiesa di fronte alle pressioni indebite, o addirittura sarebbe stata guardata con una sorta di malcelata invidia da una parte del clero latino, contestatario nei riguardi della normativa tradizionale della Chiesa latina.
Dalla crisi postconciliare del celibato clericale nella Chiesa latina sono passati decenni. Va poi ricordato che attualmente nell’occidente latino esercitano il servizio pastorale decine di sacerdoti provenienti dall’anglicanesimo e ordinati nella Chiesa latina, nonostante il loro stato coniugale. Questo fenomeno non sembra che perturbi minimamente i fedeli o il clero celibe.
Una nuova situazione

Oggi esistono circoscrizioni ecclesiastiche orientali praticamente in tutti i continenti, e perciò la situazione dei cattolici orientali è del tutto differente da quella che esisteva negli Stati Uniti d’America verso la fine dell’Ottocento, quando nacque la legislazione restrittiva per il clero orientale uxorato, o negli anni settanta del secolo scorso, quando la Chiesa latina doveva affrontare la crisi dell’identità sacerdotale e le contestazioni al celibato.
Negli ultimi decenni è cambiata anche l’opinione generale dell’episcopato latino a proposito della possibilità e/o opportunità della presenza del clero orientale uxorato nei Paesi occidentali. Questo è dimostrato anche dalle diverse conferenze episcopali nei Paesi con una significativa presenza degli orientali cattolici, che hanno espresso il loro nulla osta al ripristino della tradizionale prassi orientale, anche se si deve segnalare che in alcune conferenze episcopali ancora oggi prevale il desiderio di vedere i nuovi migranti orientali spiritualmente serviti dal clero esclusivamente celibe. Ma si deve rilevare che anche in queste nazioni, diversi membri delle stesse conferenze si rivolgono ripetutamente alla Congregazione per le Chiese orientali per chiedere la regolarizzazione della presenza dei singoli presbiteri uxorati che con successo, sacrificio e stima del popolo di Dio, lavorano nelle loro diocesi in favore dei fedeli delle loro Chiese e del proprio rito.
Tutte queste considerazioni costituiscono il contesto della nuova normativa, che prevede una triplice modalità del rapporto con la presenza pastorale del clero orientale cattolico uxorato. Gli orientali cattolici non hanno dappertutto le loro strutture amministrative gerarchiche e perciò due punti delle norme pontificie contemplano i modi di procedere riguardo all’ammissione del clero orientale cattolico uxorato in queste situazioni.
Nei territori dove i fedeli orientali sono privi di ogni struttura ecclesiastica specifica e sono affidati alle cure dei vescovi latini del luogo, la facoltà di consentire il servizio pastorale del clero uxorato orientale è riservata alla Congregazione per le Chiese orientali, che la eserciterà in casi concreti ed eccezionali dopo aver sentito il parere delle rispettive conferenze episcopali. In quest’ultima ipotesi, e solo in essa, si continuerà infatti ad applicare la normativa che è stata decisa nella sessione ordinaria della Congregazione per la dottrina della fede del 20 febbraio 2008, approvata da Benedetto XVI e che prima veniva applicata a tutte le richieste riguardo al servizio del clero orientale cattolico uxorato fuori dei territori tradizionali orientali.
In alcuni Paesi gli orientali cattolici sono privi di un gerarca proprio e sono affidati alla cura di un ordinario, di solito un vescovo latino. In questi ordinariati per i fedeli orientali la facoltà sopra menzionata viene conferita agli ordinari, che la eserciteranno informando nei casi concreti la rispettiva conferenza episcopale e la Congregazione per le Chiese orientali.
Nelle circoscrizioni ecclesiastiche orientali (metropolie, eparchie, esarcati) costituite fuori dai territori tradizionali, la facoltà di consentire il servizio pastorale del clero uxorato orientale viene conferita ai gerarchi orientali, che la eserciteranno secondo le tradizioni delle rispettive Chiese. Essi hanno altresì la facoltà di ordinare i candidati orientali uxorati provenienti dalla rispettiva circoscrizione con l’obbligo di informare previamente per scritto il vescovo latino di residenza del candidato, onde averne il parere e ogni informazione utile.
Tale facoltà prevede perciò la possibilità sia di invitare il clero sposato dai territori considerati tradizionali sia di conferire gli ordini sacri agli uomini sposati provenienti da altri territori. Per quest’ultima ipotesi ovviamente valgono le stesse condizioni dei candidati celibi: percorso spirituale, pastorale vocazionale, iter degli studi filosofico-teologici e formazione seminaristica.
Questa prassi è infatti comune anche nei territori tradizionali delle medesime Chiese che di regola prevedono un processo formativo comune e dello stesso spessore spirituale e intellettuale per tutti i candidati, sia quelli che si orientano verso la scelta del celibato sia coloro che prima della ricezione degli ordini sacri desiderano sposarsi. Unica differenza procedurale per i candidati al sacerdozio sposati consiste nell’obbligo per il vescovo orientale di informare previamente e per iscritto il vescovo latino del luogo di residenza del candidato, chiedendo il suo parere o eventuali informazioni utili. Tale dovere non è altro che una specificazione, che allarga e rende obbligatoria la procedura, che nel Codex canonum ecclesiarum orientalium è lasciata alla discrezione del vescovo se costui «lo giudica opportuno» (canone 769, paragrafo 1, 6). Il Papa, per ragioni prudenziali, ha deciso di rendere obbligatoria questa possibilità che ha il vescovo nel caso di candidati uxorati, quando l’ordinazione avviene fuori dei territori tradizionali orientali.
La possibilità di soddisfare i bisogni pastorali con l’invito del clero uxorato proveniente dai territori tradizionali non dispensa i relativi gerarchi costituiti fuori del territorio dal dovere di una promozione delle vocazioni locali, anzi allarga questa pastorale vocazionale anche ai candidati che desiderano unire nelle loro vite entrambe le vocazioni.
Il cambiamento della normativa restrittiva circa il servizio pastorale del clero orientale cattolico uxorato fuori dei territori orientali tradizionali costituisce un eloquente segno della fiducia che nutre il supremo legislatore nei confronti della gerarchia orientale cattolica e del riconfermato rispetto nei confronti della diversità disciplinare che vige fra le varie Chiese sui iuris orientali e la Chiesa latina. A mezzo secolo dalla pubblicazione del decreto conciliare Orientalium ecclesiarum viene in questo modo confermata la strada intrapresa da questo decreto che ha uno dei suoi capisaldi anche nella promulgazione nel 1990 del Codex canonum ecclesiarum orientalium: unica Chiesa cattolica, ma due codici di diritto canonico per questa varietas ecclesiarum, diversi approcci disciplinari, liturgici, spirituali e teologici per esprimere le stesse verità della fede.
D’altra parte, di fronte a questo tanto atteso gesto di fiducia si deve sottolineare che una responsabile applicazione di tale facoltà non deve costituire, neppure minimamente, pregiudizio nei confronti del clero celibatario, orientale o latino, né tanto meno una occasione per rivendicazioni o speculazioni indebite riguardo alla prassi latina sul celibato e nei confronti dell’alta stima che gode il celibato sacerdotale anche nelle Chiese orientali cattoliche.
L'Osservatore Romano