mercoledì 25 febbraio 2015

Per una vera femminilità

di Elisabetta Pittino
Noi non vogliamo che le voci del femminismo, dell’ideologia gender e dei “diritti sessuali e riproduttivi” siano le uniche ad essere ascoltate in tutto il mondo. Le donne hanno molto di più da dire e molto da dare al mondo.
Non vogliamo che il mondo creda che noi sosteniamo l’ideologia gender, non vogliamo che il mondo pensi che la maternità sia un valore desueto, non vogliamo che i politici presumano che il femminismo radicale rappresenti le posizioni delle donne, non vogliamo che le istituzioni internazionali proseguano con quelle politiche che ignorano l’identità femminile e quindi distruggono in valore e la dignità della maternità e il ruolo delle donne nella famiglia e nella società.
Questo 8 marzo sarà diverso. Dichiareremo ad alta voce che noi, le Donne del Mondo, vogliamo essere donne alle condizioni delle donne, vogliamo essere femminili, vogliamo essere ed amare il nostro essere madri. Il mondo ha bisogno che lo facciamo” dichiara Leonor TamayoPresidentedella ONG spagnola Profesionales por la Ética, presentando la Dichiarazione delle Donne del Mondo
L’iniziativa è promossa da Profesionales por la Ética in collaborazione con l’associazione francese Femina Europa (http://femina-europa.org/actu/), l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna (http://www.istitutodonna.it/) e l’associazione belga Woman Attitude (http://womanattitude.com/), con l’obiettivo di esprimere alle istituzioni internazionali e politiche di tutto il mondo quello che “noi, le donne del mondo, pensiamo, crediamo, chiediamo”.
Una Dichiarazione “di donna in donna”, disponibile in Spagnolo, Francese, Italiano, Inglese, Portoghese, Giapponese ed Arabo, dove sono presentate 10 “idee”, così le definiscono le promotrici, sul ruolo della donna, l’identità femminile e la maternità con 5 richieste di base.
Dove donna e uomo, che hanno bisogno di ricoprire la loro identità, sono complementari e reciproci “per il bene loro, delle loro famiglie, del mercato del lavoro e della società”.
Dove “L’autentica emancipazione femminile implica la libertà di essere donna e di vivere come donna” (punto 10). E la libertà di essere donna passa attraverso il riconoscimento della maternità come valore, perché “Le donne non saranno mai libere se non saranno fedeli alla loro natura femminile” dice la norvegese Jaane Haaland Matlàry, Docente di Politica Internazionale all’Università di Olso.
Tra le cinque richieste contenute nella dichiarazione troviamo quella sul “Divieto universale della maternità surrogata” perché “ è una violazione della dignità sia della madre sia del bambino. È una nuova forma di sfruttamento della donna e di traffico di esseri umani, che rende il bambino l’oggetto di un contratto”.
Una dichiarazione di “femminilità alternativa”, controcorrente rispetto al politicamente corretto in vigore oggi, che verrà presentata pubblicamente l’8 marzo, giornata della donna, al Parlamento Europeo di Bruxelles e in diversi paesi e inviata ufficialmente alle varie istituzioni quello stesso giorno. Per questo le associazioni promotrici chiedono a tutte le donne del mondo di aderire alla dichiarazione. L’intento è di raggiungere almeno 15.000 firme. È necessario un sostegno massiccio per rompere il femminismo radicale e l’ideologia di gender, secondo gli organizzatori. Quindi “se sei una donna, firma, e se non lo sei, per piacere, aiutaci a diffonderla [n.d.r la Dichiarazione] in tutto il mondo”. Sono oltre 90 le associazioni di tutto il mondo che hanno finora supportato la Dichiarazione.
“È il nostro turno, il turno delle donne vere, concrete, reali e di un nuovo femminismo”concludono i promotori.
E tu che donna vuoi essere?
Qui il link per leggere la dichiarazione:
Questo invece il link per aderire:
24/02/2015, La Croce Quotidiano
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Nelle vie a luci rosse solo donne schiave


di Anna Pozzi
​Il dibattito e le polemiche che si sono scatenate in seguito all’annuncio della creazione di strade a "luci rosse" nel quartiere Eur di Roma, si sono spesso articolati attorno a un grave fraintendimento e a molta ipocrisia. Per questo va innanzitutto chiarita una cosa: il fenomeno della prostituzione – che in Italia non è reato – si confonde oggi sempre di più con quello della tratta di esseri umani e riduzione in schiavitù,  che invece sono reati gravissimi. 

L’80 per cento delle donne che in Italia vengono definite "prostitute" sono in realtà donne immigrate costrette a vendere il proprio corpo da trafficanti e sfruttatori, che le immettono come merce sul mercato del sesso a pagamento, che conta dai nove ai dieci milioni di clienti al mese, questi sì, quasi tutti italiani. E allora quando ciclicamente si riaccende il dibattito sulla creazione di quartieri a "luci rosse" o sulla riapertura delle "case chiuse" bisognerebbe almeno avere l’onestà di guardare in faccia il fenomeno della prostituzione nella sua complessità e anche nella sua crudeltà. 

E bisognerebbe chiamare le cose con il loro nome: non prostitute, ma prostituite; non donne che scelgono di vendere il proprio corpo, ma vittime di tratta e sfruttamento; non persone libere, ma schiave. Quello di cui stiamo parlando, dunque, non può essere semplicemente liquidato come un fenomeno di prostituzione, ma come una delle peggiori schiavitù del XXI secolo.

La tratta di esseri umani riguarda circa 21 milioni di persone nel mondo. Il 70% sono donne e bambine, sfruttate soprattutto per la prostituzione. Ma è in crescita anche il numero di uomini e minorenni costretti al lavoro forzato. Ogni anno, circa 2,5 milioni di persone sono vittime di traffico di esseri umani e riduzione in schiavitù. Con picchi particolarmente allarmanti in occasione di grandi eventi come i Mondiali di calcio in Brasile, il Super Bowl negli Stati Uniti e, si teme, anche per il prossimo Expo di Milano. Le forze dell’ordine parlano di un possibile "import" di circa 15mila nuove "prostitute" nei prossimi mesi, in gran parte organizzato da mafie internazionali.

Che fare, dunque, per contrastare questi traffici? La creazione di "case chiuse" o di zone "protette" non è la strada migliore per sgominare le bande criminali e proteggere le vittime. Così come si sono rivelati inefficaci, anche perché spesso estemporanei, i provvedimenti volti a multare i clienti. Si tratta in genere di ordinanze comunali spesso emesse in chiave elettorale allo scopo di "ripulire" le città e garantire decoro e sicurezza (o per non intralciare la viabilità!), facendo sparire, almeno per qualche tempo, anche quella "spazzatura umana" che sono le prostitute. Le quali, essendo quasi sempre straniere e senza documenti, ed avendo paura per la propria incolumità e per quella delle loro famiglie di denunciare, rischiano di finire nei Cie per poi essere espulse. Ridotte da vittime a criminali.
In alcuni Paesi europei, come Svezia, Norvegia e Islanda (e, più recentemente, Francia), pesanti sanzioni contro i clienti avrebbero scoraggiato il fenomeno della prostituzione. Ma accanto alla penalizzazione dell’acquisto di sesso a pagamento, la Svezia ha portato avanti, già dal 1999, un percorso culturale, che sta producendo un importante cambiamento di mentalità. Il principio di base è che la compravendita del sesso è una forma di violenza, svilisce l’essere umano e mina la parità di genere.

E se nel 1996, il 45% delle donne e il 20% degli uomini erano a favore della criminalizzazione dei clienti, nel 2008 la percentuale delle donne è salita al 79% e quella degli uomini al 60%. Secondo la polizia svedese il provvedimento avrebbe contribuito a ridurre il numero di persone che si prostituiscono e avrebbe esercitato un notevole effetto deterrente anche sulla tratta a fini di sfruttamento sessuale. Nel febbraio dello scorso anno il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione che si esprime a favore del "modello nordico", ma che non è vincolante per i Paesi membri.

Per molti di loro, infatti, l’"industria della prostituzione" rappresenta una voce importante del Pil. In Olanda, ad esempio, corrisponde a circa il 5%, mentre in Danimarca l’industria della pornografia è la terza per importanza del Paese. Ma proprio in Paesi come l’Olanda, dove la prostituzione è legalizzata e le prostitute sono considerate sex worker con diritti e doveri come qualsiasi altro lavoratore – dal pagare le tasse (uno dei cavalli di battagli anche dei "pro-legalizzazione" di casa nostra) all’avere l’assistenza sanitaria – non è stata per nulla debellata la tratta. Molte delle donne che si prostituiscono, infatti, sono costrette a farlo, non sono libere di smettere quando vogliono, devono, come nel caso delle nigeriane, restituire il "debito" ai loro aguzzini, subiscono spesso violenze dai loro sfruttatori e hanno ancora più difficoltà a ribellarsi a chi le costringe a vendersi e a chiedere aiuto. E proprio perché sono ufficialmente "legali".
Le linee di intervento, promosse anche a livello internazionale, per contrastare il fenomeno della tratta e della riduzione in schiavitù a fini di prostituzione, dovrebbero articolarsi attorno alle cosiddette "tre P":prevention, protection, prosecution.

Prevenzione del fenomeno, innanzitutto nei Paesi d’origine, ma anche in quelli di destinazione, creando maggiore conoscenza e sensibilità sul fenomeno e cercando di ridurre la "domanda". Per fare un discorso serio di sensibilizzazione e prevenzione non si può però circoscrivere la discussione al tema della prostituzione, ma va necessariamente allargato alle questioni relative alla relazione tra i generi, l’affettività, l’educazione a una sessualità responsabile già a partire dalla scuola, la crisi dei ruoli, il rapporto tra denaro e potere… Nonché alla conoscenza del fenomeno della tratta di essere umani e della prostituzione coatta.

Protezione delle vittime, invece, significa in prima istanza riconoscere che sono appunto vittime e non mere immigrate clandestine, lavoratrici del sesso o addirittura criminali. Infine, si tratta di contrastare il traffico eperseguire in giustizia i criminali. Purtroppo, anche su questo punto c’è ancora molto cammino da fare se è vero che, non solo in Italia ma a livello globale, sono pochissimi i trafficanti e gli sfruttatori che sono finiti in prigione per questi gravissimi reati. La maggior parte continua ad operare nella quasi assoluta impunità.

Secondo le Nazioni Unite, il 40% dei Paesi ha riportato pochissime condanne per questo reato, a volte nessuna, e negli ultimi dieci anni nulla è cambiato relativamente alle misure prese per contrastare questo fenomeno criminale. Il nostro Paese non fa eccezione. Nonostante indagini e interventi delle forze dell’ordine, sono pochissimi i processi per traffico di esseri umani e riduzione in schiavitù. Ma soprattutto sono sempre di meno gli sforzi per affrontare il fenomeno nella sua complessità e drammaticità. Anche perché non lo si vuole guardare o affrontare per quello che è. E allora si reprime la prostituzione, ma non il traffico di esseri umani, si tolgono le ragazze delle strade o si multano loro e i clienti, ma non si toccano trafficanti e sfruttatori.

Anche il primo rapporto Greta 2014, il meccanismo di monitoraggio del Consiglio d’Europa, ha stigmatizzato l’«insufficiente attenzione» alla tratta di esseri umani del nostro Paese. Tra il 2011 e il 2013 sono state ufficialmente assistite 4.530 persone, ma «i dati forniti non rivelano la vera ampiezza del fenomeno» e trascurano ad esempio tutti gli altri aspetti della tratta, come il caporalato agricolo, le badanti, le collaboratrici domestiche e i minori avviati all’accattonaggio. Soprattutto, il rapporto Greta – ma anche molte organizzazioni della società civile – chiede di «adottare con urgenza un piano d’azione nazionale che definisca priorità, obiettivi, attività concrete e responsabili per la loro attuazione».

Il Piano antitratta, scaduto a fine 2014, non è ancora stato riapprovato e rifinanziato. A tutto vantaggio di chi continua a sfruttare uomini, donne e minorenni per il fiorente mercato della prostituzione (e non solo). In questo contesto, che senso ha, dunque, la creazione di zone a luci rosse "protette"? Protette per chi, poi? Per criminali e clienti, forse. Non certo per le vittime di tratta, le nuove "schiave" del XXI secolo.
Avvenire