giovedì 26 febbraio 2015

Sant’Agostino e il numero 6



Raccontare la matematica.
 
(Carlo Maria Polvani) L’editrice Il Mulino ha dato vita a una collana intitolata Raccontare la matematica. Il primo numero, curato da Umberto Bottazzini, è dedicato ai Numeri (Bologna, 2015, pagine 190, euro 14), mentre il secondo, di Carlo Toffalori, riguarda gli Algoritmi (Bologna, 2015, pagine 198, euro 14). Entrambi i saggi permettono l’accesso al mondo della matematica anche a quanti ne hanno sempre avuto il timore.
Il lavoro di Bottazzini affascina nel suo elegante sforzo di indagine sull’origine dei numeri e su quale realtà rappresentino. L’autore, con un linguaggio piacevole e chiaro, è capace di spiegare la profondità racchiusa nel linguaggio dei numeri. Partendo dall’idea che sebbene alcuni animali posseggano delle strutture protonumerali solo l’uomo ha creato dei veri e propri sistemi numerici, il libro mette in luce i primi passi dell’umanità nella scoperta della numerazione. Dagli uomini primitivi che intagliarono tacche successive sulle ossa di animali uccisi, passando per le rappresentazioni simboliche, spesso biometriche, di valori numerici costanti — come quelli usati dai romani con il segno X per raffigurare il 10 o V per indicare il 5 — viene evidenziata l’importanza delle scoperte che permisero la messa in opera di un impianto che rendesse possibili calcoli complessi come quello del computo del tempo e dei cambiamenti astrali.
I reperti archeologici di varie culture come quelle americane (i maya calcolavano in base vigesimale, gli inca usavano un complesso abaco denominato quipu) o mediorientali (gli assiri e i babilonesi utilizzavano un sistema decimale misto) confermano l’affermarsi di alcuni numeri su altri in quanto necessari per dare un senso ai calcoli, fossero essi il 3, il 7 o il 13, a seconda delle convenzioni culturali adottate. Ma a compiere un balzo di enorme importanza nella comprensione del numero fu la cultura greca e in particolare Pitagora.
Al di là dei miti e delle leggende che fioriscono intorno al filosofo di Samo furono i greci a percepire nel numero una misura del cambiamento, facendo così del numero «la progressione che inizia dall’1 e la retrocessione che vi termina» come intuiva lo stesso Platone. Tutti i numeri sono generati dall’1, come «punti aventi posizione», e quindi possono essere raffigurati spazialmente in insiemi triangolari, quadrati, pentagonali o di altra forma.
Questa rappresentazione geometrica aprì ai pitagorici osservazioni inedite. Per esempio si poté notare che nella serie di numeri triangolari (ottenuti disegnando punti in modo da formare triangoli ogni volta superiori di lato: 1, 3, 6, 10, 15 e così via) la somma di due numeri consecutivi è sempre uguale al quadrato dei numeri naturali (1 + 3 = 4 = 2²; 3 + 6 = 9 = 3²; 6 + 10 = 16 = 4²; 10 + 15 = 25 = 5² e così via) e che la stessa relazione si riesce, incredibilmente, a stabilire con la somma dei numeri dispari corrispondente al quadrato del numero di fattori sommati (1 + 3 = 4 = 2²; 1 + 3 + 5 = 9 = 3²; 1 + 3 + 5 + 7 = 16 = 4²; 1 + 3 + 5 + 7 + 9 = 25 = 5² e così via).
Da queste osservazioni anche i misteri più arcani dei numeri venivano svelati e categorie quasi mistiche o per lo meno esoteriche avrebbero ispirato generazioni di matematici illustri. È il caso dei cosiddetti “numeri amici” (ognuno dei quali è la somma dei divisori dell’altro, come per esempio 220 e 284: 1 + 2 + 4 + 5 + 10 + 11 + 20 + 22 + 44 + 55 + 110 = 284 e 1 + 2 + 4 + 71 + 142 = 220) o dei cosiddetti “numeri perfetti” (uguali alla somma dei loro divisori, come 6 = 3 + 2 + 1) o dei “numeri primi” (divisibili solo per 1 e per loro stessi).
Straordinariamente interessante si rivelò la questione del numero zero, strettamente collegata con il concetto del nulla che, per essere rappresentato, necessita di un simbolo a parte, il quale, a sua volta, afferma l’esistenza stessa — almeno a livello del linguaggio formale — di qualche cosa che non esiste: il nulla.
Non è del tutto chiaro come gli uomini arrivarono al concetto dello zero. Pare comunque che fu usato nella valle dell’Indo e poi adottato con il nome di zephir dagli arabi. Da lì lo zero, imponendo ai sistemi numerici la posizionalità numerale (lo zero o gli zeri venivano messi dietro le altre cifre) permetteva l’emergere di un nuovo sistema di calcolo, introdotto in occidente da Fibonacci (1170-1240) con il Liber abaci, la cui base, dalla disarmante ma rivoluzionaria semplicità, recitava che «con le cifre 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2 e 1 e con questo simbolo: 0 (...) si può scrivere qualsiasi numero».
Da queste osservazioni nasce quindi spontaneamente la domanda: i numeri sono una creazione della mente o una struttura formale di rappresentazione? In questo contesto, come non notare che la successione di Fibonacci — dall’elementare semplicità (la somma degli ultimi due numeri dà il numero seguente: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21 e così via) — si adatta a delle realtà naturali insospettabili come la distribuzione dei petali dei fiori? E bisogna considerare il teorema di Kurt Gödel (1906-1978) che recita «non è possibile costruire un sistema matematico assiomatico che sia allo stesso tempo in grado di provare tutte le verità matematiche».
È proprio nel contesto di queste domande che risulta altrettanto riuscito il lavoro di Carlo Toffalori sugli algoritmi. Forse più difficile da leggere per chi non è avvezzo alla matematica, il lavoro rimane tuttavia brillante e accessibile. In esso la natura degli algoritmi è spiegata nel suo senso più puro, ossia la capacità di essere modi di calcolo privilegiato così duttili da prevedere il reale a partire dalla decomposizione delle esperienze di calcolo passate.
Per mezzo di esempi classici come il problema dei ponti di Könisberg (oggi, Kaliningrad) risolto da Leonardo Eulero (1707-1783), il libro sonda i limiti della calcolabilità numerica, per arrivare a spiegare che le nostre certezze matematiche trovano spesso la loro fondatezza in algoritmi imperfetti ma comunque efficaci. Il tentativo di disegnare algoritmi per ogni possibile calcolo è infatti sfociato nell’ipotesi straordinaria formulata da Alan Turing (1912-1954) e da Alonzo Church (1903-1995): anche se ci sono problemi numerici semplicemente incalcolabili, quando si affronta un problema intuitivamente calcolabile allora deve esistere un dispositivo (come il computer) in grado di calcolarlo.
È quindi con una certa aspettativa che si attende l’uscita del terzo lavoro sulla Matematica della natura, che dovrebbe svelare alcuni dei meccanismi matematici insiti nel funzionamento dell’universo. Aspettandolo, ci si potrebbe interrogare sul significato ultimo di un’affermazione di sant’Agostino che, riflettendo sul numero 6, in riferimento al racconto della creazione nella Genesi, notava che «non possiamo dire che il 6 sia un numero perfetto per il fatto che Dio ha compiuto le sue opere in 6 giorni, ma possiamo dire che egli ha compiuto le sue opere in 6 giorni per il fatto che 6 è un numero perfetto; questo numero perciò sarebbe perfetto anche se queste opere non ci fossero state; se invece esso non fosse stato perfetto, Dio non avrebbe di certo compiuto le sue opere attenendosi a questo numero». Cosa intendeva dire il doctor gratiae: che la verità è nei numeri o che la verità è dei numeri? O forse entrambe le cose?
L'Osservatore Romano