martedì 31 marzo 2015

Chiara Lubich: Qual è stato il momento in cui Gesù ha sofferto di più in tutta la Passione?

cruz

di Manuel Bru
Di fronte a tutto il racconto della Passione che ci offrono i Vangeli, potremmo chiederci quale sia stato il momento in cui Gesù ha sofferto di più.

È una domanda che ha posto ad appena 22 anni la serva di Dio Chiara Lubich durante la II Guerra Mondiale nel 1943. Nei rifugi, durante i bombardamenti, si leggeva il Vangelo. Le persone avevano scoperto che Dio-Amore è l'unico ideale che nessuna bomba può distruggere. Poi uscivano a cercare tra le macerie i morti e ad assistere chi era rimasto ferito.

Una ragazza si ammalò gravemente, contagiata dalle condizioni igieniche dei feriti. Chiamarono il sacerdote e Chiara, prima che questi passasse ad amministrarle il sacramento dell'estrema unzione, gli pose questa domanda: “Qual è stato il momento in cui Gesù ha sofferto di più nella sua Passione?”

Il sacerdote rispose: “Credo che sia stato quando ha gridato sulla croce: 'Elì, Elì, Lamà sabactani?', ovvero 'Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?'”.

Chiara, allora, prese le sue compagne per mano intorno al letto della ragazza malata e propose loro di sposarsi con “Gesù Abbandonato”, di sceglierlo e amarlo per sempre in tutte le sofferenze, nelle proprie e in quelle di tutta l'umanità.

San Giovanni Paolo II diceva che l'esperienza umana dell'abbandono di Gesù sulla croce, quando grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, risponde a un dolore condiviso dalle tre persone della Santissima Trinità: da Dio Padre, che lo permette per amore degli uomini, e dallo Spirito, che tace perché Gesù possa culminare l'opera redentrice, oltre che da Gesù.

Sì. Gesù, almeno per un istante, ha sentito l'abbandono del Padre. E non avrebbe potuto essere altrimenti, come spiega Sant'Ireneo. Gesù non ha redento ciò che non ha assunto. Se ha redento tutti gli uomini da ogni dolore, ingiustizia, tormento, disprezzo, e dallo stesso sentimento di abbandono da parte di Dio, è perché Egli sulla croce li ha fatti suoi, li ha sofferti sulla propria carne e nella propria anima.

Per questo, non dobbiamo vedere Gesù Crocifisso e Abbandonato solo riflesso nelle immagini che ci facciamo di Lui. Dobbiamo vederlo prima di tutto in noi, quando ci sentiamo abbandonati, e nell'altro, quando si sente abbandonato. E possiamo e dobbiamo riconoscerlo e dirgli: “Sei tu”: il rifiutato, l'emarginato, chi è dimenticato, chi è solo. Il calunniato, l'appestato, il maltrattato, l'ingannato, il deriso. Il disperato, il rattristato, l'angosciato, l'annullato. E dobbiamo abbracciarlo dicendogli: “Ti voglio bene così”. E compiere il salto, e metterci ad amare, a fare la volontà di Dio, dicendogli: “Agisci in me”.

E possiamo anche, con la nostra vita, testimoniare al mondo che Cristo Crocifisso e Abbandonato “ha riempito ogni vuoto, ha illuminato ogni tenebra, ha accompagnato ogni solitudine, ha annullato ogni dolore, ha cancellato ogni peccato”.



[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]
sources: ALETEIA

“Perché tutti siano uno”, il nuovo inno per la pace di papa Francesco.




 Il brano è stato eseguito per la prima volta la Domenica delle Palme in Vaticano da Odino Faccia

Odino Faccia, cantautore italo-argentino, ha cantato il 30 marzo per il pontefice il nuovo inno per la pace mondiale Para que todos sean Uno(Perché tutti siano uno), il cui testo corrisponde a vari discorsi e omelie di papa Francesco. Lo ha fatto nella celebrazione eucaristica della Domenica delle Palme in Piazza San Pietro in Vaticano davanti a una grande folla, composta soprattutto da giovani. La presentazione è avvenuta in concomitanza con la 30ª Giornata Mondiale della Gioventù.

Odino, chiamato anche La Voce per la Pace nel Mondo, è stato scelto proprio da papa Francesco, che attraverso il suo portavoce monsignor Guillermo Karcher, cerimoniere pontificio e stretto collaboratore del Santo Padre, gli ha fatto giungere la notizia autorizzandolo a usare le sue omelie e i suoi discorsi per comporre testo e musica della canzone.

Il cantante italo-argentino ha composto l'inno Busca la Paz con i poemi inediti di Karol Wojtyła, a lui consegnati dalla Santa Sede. L'inno è stato presentato in occasione della canonizzazione di San Giovanni Paolo II e San Giovanni XXIII il 27 aprile 2014. Busca la Paz è stato eseguito per la prima volta nel 2012 in Messico nello stadio Azteca per la presentazione delle reliquie di Giovanni Paolo II in un omaggio svoltosi in suo onore.

Odino Faccia, cantante pop figlio di emigrati italiani, interpreta melodie romantiche. La sua carriera è iniziata collaborando attivamente al servizio delle cause umanitarie. Per questo nel 2009 è stato premiato come La Voce per la Pace nel Mondo da Adolfo Pérez Esquivel, Premio Nobel per la Pace, e da organismi nazionali e internazionali, aggiudicandosi in Italia il titolo Honoris Causa della Regione Sardegna.


Faccia vuole utilizzare la sua missione con la musica per gettare ponti con le varie religioni e i diversi Paesi, grazie a una rete di artisti che egli stesso sta elaborando.


Il nuovo inno per la pace Para que todos sean Uno è promosso dalla Sony Music e pubblicato in quattro lingue: spagnolo, portoghese, italiano e inglese.


Il cantautore ha dichiarato di essere “felice ed emozionato” e di sentirsi “onorato per essere stato scelto da papa Francesco per comporre il suo inno”.


Faccia, che ha partecipato a numerosi concerti per la pace, ha dichiarato che il suo iter musicale “serve anche a ispirare molti progetti per la pace, sottolineando che gli impegni in questi progetti devono creare ponti con azioni e contenuti concreti”.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]
sources: Milagros Quiroz

Gianfranco Ravasi - Generare la vita



“Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata 
Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso
 o solo come un mezzo per soddisfare un’ emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio
Ci alzeremo quando l’istituzione del matrimonio viene abbandonata all’egoismo unano e affermeremo l’indissolubilità del vincolo coniugale
Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell’individuo ma anche per quello della società”

Giovanni Paolo II


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Ravasi - Generare la vita 

Cento piazze, una sola Fede




DOPO LA PASQUA si rinnova l'esperienza dell'annuncio dell'Amore di Dio nelle migliaia di piazze del mondo intero.
I fratelli (del Cammino, ndr) di Roma riceveranno l'invio dal Cardinale Vallini il 18 aprile nella Basilica di San Paolo fuori le mura ed inizieranno le 100 piazze Domenica 19.
Usiamo il profilo di CentoPiazze, la pagina 100 Piazze, il sito www.missione100piazze.it e l'indirizzo di posta missione100piazze@gmail.com come veicolo di info sui luoghi dove ci sarà l'evangelizzazione e soprattutto come testimonianza sul web dell'Amore di Dio che raggiunge le periferie.
I post in italiano necessiteranno della traduzione almeno in spagnolo ed in inglese (coloro che hanno intenzione di svolgere questo servizio possono mettere la traduzione nei commenti del post stesso).

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Su “Catechista 2.0″ sono riportate le registrazioni del programma di Radio Maria “Alle sorgenti della fede”,
ciclo di catechesi condotto da Don Francesco Voltaggio, rettore del seminario Redemptoris Mater di Galilea.

Le 6 parole della Caritas a Expo 2015

Piuarch-Edicola Caritas EXPO 2015 - Vista esterno notturna

"Dividere per moltiplicare. Spezzare il pane"

di Chiara Santomiero

"Dividere per moltiplicare. Spezzare il pane" è lo slogan e il messaggio che la Caritas porterà all'interno di Expo 2015 dove sarà presente con uno spazio interattivo – l'Edicola Caritas – e una serie di iniziative che abbracceranno tutto il periodo dell'Esposizione universale di Milano dedicata a "Nutrire il pianeta. Energia per la vita".

Lo slogan nasce dal racconto evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci, ripreso da papa Francesco per il lancio della campagna mondiale di Caritas internationalis contro la fame "Una sola famiglia umana, cibo per tutti". "La parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci – ha spiegato il papa – ci insegna che se c'è volontà, quello che abbiamo non finisce, anzi ne avanza e non va perso".

"La condivisione delle risorse, dei saperi e delle competenze – ha affermato Michel Roy, direttore di Caritas Internationalis nella conferenza stampa che si è tenuta il 30 marzo a Milano per presentare lo spazio Caritas all'Expo 2015 - sarà presentata comeproposta al problema dell’iniqua distribuzione delle risorse alimentari, nella consapevolezza che solo attraverso questo processo di condivisione autentica è possibile moltiplicare le energie e le opportunità di una vita vissuta con dignità per tutti".

L'EDICOLA CARITAS

Il punto di riferimento sarà l'Edicola Caritas, collocata nei pressi dell'ingresso, in una posizione molto visibile lungo il decumano che costituisce l'asse viario dell'Expo dove si affacciano i padiglioni di tutti i Paesi.


Realizzata dallo studio Piuarch, l'Edicola si presenta come un cubo spezzato che declina anche architettonicamente l’idea della condivisione come ricchezza. Attraverso immagini, suoni e letture e con il supporto di centinaia di volontari e operatori del servizio civile, il visitatore compirà una visita interattiva ed esperienziale nello spazio Caritas per una prima sensibilizzazione al tema dell'accesso al cibo e dello scandalo della sua ingiusta distribuzione che provoca milioni di affamati e malnutriti tra cui moltissimi bambini.


Una mappa mostrerà i punti dove Caritas è presente nel mondo uncontatore elettronico proietterà una stima simbolica delle persone che hanno beneficiato dei programmi di Caritas in 164 Paesi.


 

Al centro un’opera d’arte: l’installazione Energia, realizzata nel 1973 dall’artista tedesco Wolf Vostell, pioniere della video arte, che si è distinto per il suo impegno civile. L’opera proveniente dal museo voluto dallo stesso artista a Malpartida, nella regione dell'Estremadura in Spagna, è costituita da un’automobile Cadillac cinta da forme di pane. L’accostamento tra uno status symbol e il bene di prima necessità per antonomasia rappresenta una denuncia contro la società consumista.

Al termine del percorso ad ogni visitatore sarà chiesto di registrare ilproprio video messaggio. Il contributo sarà montato insieme a quello degli altri visitatori a formerà un collage di racconti in tante diverse lingue del mondo, così da costituire una "eredità spirituale collettiva" di questa esperienza che sarà poi condivisa e moltiplicata sui social media.

IL PROGRAMMA CULTURALE

L'Edicola sarà al centro di un programma di eventi che si snoderanno nei sei mesi dell'Esposizione, da maggio ad ottobre.

Il programma sarà aperto dall'Expo Day di Caritas, il 19 maggio: i rappresentanti delle 164 Caritas nazionali che aderiscono alla confederazione internazionale presenteranno i risultati della campagna globale contro la fame nel mondo “One human family, food for all”. In quell’occasione saranno presentati 7 progetti modello contro la fame nel mondo, 7 buone prassi, una per ognuna delle grandi aree geografiche in cui è divisa la confederazione: Africa, Asia, Medio Oriente e Nord Africa, Europa, America Latina, Nord America, Oceania.


Il semestre espositivo sarà scandito in seguito da 11 convegni con un centinaio di esperti e testimoni provenienti da tutto il mondo sui temi della fame, del diritto al cibo e all’acqua, dei paradossi alimentari, delle migrazioni e della guerra, come effetti di un’iniqua distribuzioni di risorse.

Il programma degli eventi milanesi si collegherà ad iniziative di sensibilizzazione sul territorio e nelle comunità ecclesiali.

L'OPERA SEGNO

Un tema così fondamentale come quello dell'alimentazione e del diritto al cibo per tutti non può limitarsi allo spazio dell'Expo e "avrà un senso solo se lascerà alla città prima di tutto un’eredità etico morale". Per questa ragione Caritas si è impegnata a gestire nei prossimi anni, una volta terminata Expo 2015, un nuovo spazio di solidarietà e di cultura contro lo spreco alimentare: il Refettorio Ambrosiano.

SEI PAROLE PER EXPO 2015

"Non possono bastare i sei mesi da maggio ad ottobre – ha insistito il direttore di Caritas Internationalis Roy nel corso della conferenza stampa – per esaurire la riflessione sui temi così cruciali perciò il lavoro di sensibilizzazione di Caritas all'Expo sarà la componenente importante di un progetto più ampio di advocacy politica di lungo periodo". La Caritas, ha auspicato Roy, si impegna a ridare "colore, forza e vigore" al vocabolario usato dalla società civile e, in particolare, a 6 parole, "una per ogni mese di presenza in Expo": speranza, inclusività, accompagnamento, compassione, condivisione e sacralità. "Il pane, il cibo – ha affermato Roy a proposito di quest'ultima parola – dovrebbero essere per tutti accessibili affinchè ognuno possa vivere una vita nella dignità e nella pienezza". "Vorrei che tutti tenessero a mente – ha concluso il direttore di Caritas Internationalis – che dietro ai suoi aspetti più tecnici e dietro ai numeri di Caritas ad Expo, c'è sempre il volto di una persona in situazione di bisogno, che per noi rimanda alla persona di Gesù".
sources: ALETEIA

Julian Carron: «Comunione e Liberazione sa imparare dai propri limiti»

Julián Carrón

Vatican Insider pubblica un’intervista esclusiva concessa dal presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, Julián Carrón, all’agenzia messicana Notimex, a dieci anni della morte del fondatore, Luigi Giussani

ANDRÉS BELTRAMO ÁLVAREZCITTÀ DEL VATICANO

È uno dei movimenti più importanti della Chiesa cattolica. Nacque nel 1954 grazie all’intuizione di don Luigi Giussani (1922-2005), giovane sacerdote e professore di religione in un liceo milanese. Da allora è in costante crescita e oggi la sua presenza è arrivata in 90 paesi. Si tratta di Comunione e Liberazione. Ma nella sua sorprendente crescita ci sono state anche polemiche e scandali.

A 10 anni della morte del fondatore, Papa Francesco ha concesso un’udienza ai membri del movimento in Piazza San Pietro, lo scorso 7 marzo, nella quale ha riflettuto sulle tentazioni e sulle sfide che il movimento deve affrontare. Julián Carrón, il successore di don Giussani, ne parla in questa intervista con Notimex

In questi due anni di pontificato, Papa Francesco ha stupito con il suo messaggio innovatore, di radicalità evangelica, ma creativo. Ha sorpreso anche CL?

«Papa Francesco ci ha sorpreso per la semplicità con la quale si è rivolto a tutti fin dal primo istante, con un linguaggio accessibile ad ognuno: dalle persone con un livello culturale più alto fino alla gente più semplice. La potenza dei suoi gesti, che dicono più di mille parole, la fiducia che nutre nella potenza inerme della verità evangelica (perché lui crede nella bellezza disarmata della verità) e l’irruzione di una figura come la sua hanno un significato stimolante per tutti e anche per noi. La sua persona e i suoi gesti costituiscono una provocazione in quanto riflettono una maniera di vivere il cristianesimo nelle circostanze storiche attuali, come se Cristo ci avesse dato un modo di vivere il cristianesimo nei nostri tempi che, quando lo si vive così come lo vive il Papa, ci rende capaci - diversamente da quanto pensiamo tante volte - di entrare in dialogo con chiunque e con tutte le culture».

Nonostante le difficoltà, il movimento è arrivato in tanti paesi e realtà diverse. Come vivete questa diffusione?

«Siamo stupiti del fatto che una realtà di origine italiana abbia suscitato quest’interesse in latitudini, culture e situazioni umane così diverse. Questo costituisce una conferma della validità di quanto ci ha comunicato Giussani in un contesto culturale come quello di oggi, globale, e lo viviamo con tutto il senso di responsabilità che implica. Vedere delle persone della Nuova Zelanda, della Russia, dell’Argentina, degli Stati Uniti o dell’Uganda interessate alla nostra esperienza, è per noi la conferma che il cuore dell’uomo attende un cristianesimo che possa rispondere a tutte le esigenze del proprio essere, nonostante le condizioni umane nelle quali si trova a vivere».

La diffusione del movimento presenta alcune sfide. Esso, in tanti ambiti, rappresenta il “volto visibile” della Chiesa. Come vivete questa responsabilità?

«Con umiltà. Sappiamo perfettamente quanto siamo piccoli, conosciamo tutti i nostri limiti e tutta la nostra sproporzione. Allo stesso tempo viviamo gioiosi vedendo che il Signore, con il nostro piccolo “sì”, fa delle cose che ci meravigliano e che ci danno la certezza della fede. In questo momento storico, nel quale tutto si frantuma, vedere che la certezza della fede in Gesù Cristo cresce (non perché ce lo immaginiamo, ma perché vediamo le persone che Lo incontrano vivono meglio, sono più contente, più in grado di affrontare le sfide della vita), ecco questo ci riempie di gioia e gratitudine».

Papa Francesco vi ha messo in guardia da certe tentazioni come l’«autoriferenzialità» e il «cattolicesimo da etichette». Cosa pensate di questi richiami?

«Per noi sono molto salutari perché ci sentiamo richiamati alla verità del nostro carisma. Don Giussani ci ha invitati sempre a uscire e riconoscere il valore in tutto ciò che incontriamo, in qualsiasi persona che conosciamo e circostanza che viviamo. Per questo, il richiamo a non rimanere rinchiusi corrisponde a quello che lui ci ha indicato per non perderci tutto il buono, il bello, il meraviglioso che possiamo trovare nel rapporto con le persone e le circostanze».

Il Papa vi ha anche chiesto di non perdere «la freschezza del carisma». Come affrontate le critiche che emergono quando il movimento si trova sotto lo sguardo severo dell’opinione pubblica?

«Noi siamo andati a Roma, all’udienza con il Papa, non per avere semplicemente un momento per celebrare un anniversario, ma con il desiderio di imparare, di chiedergli sinceramente come possiamo – a dieci anni della morte di don Giussani – preservare la freschezza del carisma. Il Papa ci ha risposto molto chiaramente: la chiave è mettere costantemente Cristo al centro, e non l’ha detto solo con parole, ma l’ha fatto accadere: in Piazza San Pietro abbiamo sentito parlare del cristianesimo come ce lo testimoniava anche don Giussani. Il Pontefice ha fatto rinascere in noi la freschezza del carisma; per questo sentiamo così urgente farla permanere».

Ma ci sono state anche molte difficoltà in questi anni, non è vero?

«Evidentemente, quando si parla di una realtà sociale delle dimensioni del movimento, ci troviamo sempre sotto i riflettori. A volte, questo ci permette di offrire agli altri un contributo; a volte, invece, è motivo di umiliazione, perché anche noi abbiamo dei limiti, come succede anche alla Chiesa nel suo insieme. Noi lo viviamo con il desiderio costante di tenere sempre in considerazione le osservazioni di valore che ci vengono fatte, lasciando perdere gli aspetti di esagerazione, di polemica giornalistica strumentale, che lasciamo passare, perché a noi interessa imparare anche dai nostri limiti».

Missione ad Arbil e Duhok



A colloquio con il sottosegretario di Cor unum. 


(Gianluca Bicini) Risvegliare le coscienze della comunità internazionale sul dramma dei profughi iracheni e riaccendere i riflettori sulle difficili condizioni dei cristiani nella regione, portando loro la solidarietà di Papa Francesco: con questo duplice obiettivo una delegazione del Pontificio Consiglio Cor unum e della Congregazione per le Chiese orientali si è recata dal 26 al 29 marzo ad Arbil e a Duhok. Guidava il gruppo il sottosegretario del dicastero per la carità del Pontefice, monsignor Segundo Tejado Muñoz, che in questa intervista al nostro giornale parla della tre giorni in Iraq.
Due tappe in tre giorni. Che impressioni avete tratto dalla visita?
In effetti è stato un vero e proprio “tour de force”, ma è servito per conoscere da vicino la realtà delle persecuzioni subite dalle minoranze cristiana e yaizida in fuga dalle violenze delle milizie del cosiddetto Stato islamico (Is), che hanno conquistato ampie porzioni di territorio in Iraq e nella vicina Siria. Abbiamo visitato infatti soprattutto i profughi di Mossul e della Piana di Ninive, che in quest’area del Kurdistan autonomo iracheno sono riusciti a trovare accoglienza.
Siete andati per portare loro la solidarietà del Papa. Cosa avete fatto in concreto?
Lo abbiamo fatto attraverso un segno: due icone della Madonna che scioglie i nodi, da lui benedette all’udienza generale di mercoledì scorso, 25 marzo. Alla vigilia della partenza infatti io e monsignor Khaled Ayad Bishay, officiale della Congregazione per le Chiese orientali, siamo stati in piazza San Pietro per parlare al Pontefice del nostro viaggio e lui ha benedetto le immagini mariane che poi abbiamo recato ai due presuli delle diocesi caldee visitate: monsignor Bashar Mattie Warda, arcivescovo di Arbil, e monsignor Rabban A-Qs, vescovo di Amadiyah, con sede a Duhok, come dono per le rispettive comunità.
Chi vi ha accompagnati?
C’erano il segretario generale di Caritas internationalis, Michel Roy, e il presidente di Caritas Medio oriente (Mona), Joseph Farah; il segretario generale della Focsiv, Attilio Ascani, e quello della fondazione Avsi, Giampaolo Silvestri, e Moira Monacelli di Cor unum. Con noi anche alcuni giornalisti italiani e di altre nazionalità proprio con l’obiettivo di mostrare al mondo, attraverso immagini e reportage, la realtà che abbiamo incontrato.
Una missione che rientra nei compiti del vostro dicastero? 
Infatti un aspetto fondamentale della nostra attività è quello di recarci in luoghi colpiti da sciagure. Lo abbiamo fatto anche ad Haiti o in Siria, per citare le missioni più recenti. Ma qui c’era una sorta di allarme confermato anche dalle agenzie locali delle Nazioni Unite. Le quali ci hanno detto che alcuni progetti stanno chiudendo per mancanza di fondi. Ma soprattutto si è trattato di incoraggiare le agenzie cattoliche che da tempo lavorano lì, prima tra tutte la Caritas. Siamo andati per dire loro che non sono soli sul campo. La loro opera di accoglienza gravita attorno a tre priorità: alloggio, educazione e sanità. E noi non dimentichiamo i volontari e le agenzie, che sono le braccia della Chiesa, le mani di chi dà.
Come si è svolta la visita?
Abbiamo iniziato ad Arbil incontrando le due principali comunità cattoliche: quella caldea e quella sira. Poi abbiamo avuto un colloquio con Nabil Nissan di Caritas Iraq e con esponenti di altre realtà locali: tutti ci hanno illustrato difficoltà e attese. Poi ci siamo trasferiti al Nord, a Duhok, città vicina a Mossul. Abbiamo attraversato diversi check-point dei peshmerga curdi, i quali garantiscono la sicurezza del territorio. Il vescovo caldeo Al-Qas ci ha guidati in una sorta di pellegrinaggio tra gli sfollati che vivono in case affittate anche grazie ai contributi della Conferenza episcopale italiana. Siamo stati inoltre in un campo profughi gestito dal Governo turco e dalle Nazioni Unite. Si tratta di una tendopoli con annesso ospedale da campo, in cui abbiamo sentito storie toccanti. Io ho esperienze di sfollati a causa di disastri naturali, ma questa è gente che è stata cacciata dai propri vicini di casa o di negozio. Sono storie di dolore e di umiliazioni. Come quella di una donna rapita e riuscita a sfuggire ai suoi aguzzini.
Com’è la vita all’interno dei campi?
Pur non mancando acqua e cibo, si vive sempre in un clima di tensione. I volontari devono fare quotidianamente i conti con l’esasperazione soprattutto degli uomini che si sentono inutili e frustrati perché essendo senza lavoro hanno ben poco da fare. Diverso è invece il discorso per i bambini, ai quali si cerca di assicurare educazione, formazione e animazione. Un programma molto bello per garantire tranquillità alle nuove generazioni.
Arbil ospita ben dodicimila famiglie di sfollati. È una realtà nevralgica nel contesto dell’accoglienza assicurata dalla Chiesa?
Sì, perché è anche la città che in qualche modo ne coordina l’assistenza. Abbiamo visitato altre realtà che accolgono profughi. Una è composta da edifici in costruzione i cui lavori si sono fermati a causa della guerra. Sono stati dati in uso alla Chiesa locale, che attraverso divisioni provvisorie realizzate con mattoncini le ha assegnate a 175 famiglie. Un’altra è un campo formato da edifici-container e animato da un prete espulso da Mossul.
Quali aspetti positivi avete riscontrato?
Oltre all’encomiabile attività formativa dei giovani, mi ha colpito la cura e la partecipazione alle liturgie, in particolare quelle di sabato sera, vigilia della domenica delle Palme. C’è poi una fervente evangelizzazione, perché — come mi ha confidato monsignor Warda — il problema è anche il cibo, ma soprattutto la mancanza di speranza per gente che vede difficile poter tornare nelle proprie case. E il fatto che la nostra visita si sia svolta a ridosso della Settimana santa può essere letto come un messaggio di speranza nella risurrezione anche di queste persone. Ce lo auguriamo noi, così come se lo augura il Papa, che anche all’Angelus di domenica 29 ha di nuovo parlato della tragica situazione dei cristiani martiri di oggi.
L'Osservatore Romano

Yo le Canto C.E.P.C (Comunicadoras Eucarísticas del Padre Celestial)



Más acerca de las Comunicadoras Eucarísticas del Padre Celestial:
http://www.papadiostv.net/
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Giochi di ruolo

cenerentola-ballo

di Benedetta Frigerio

«Donne non si nasce, ma si diventa attraverso un percorso di aspettative che altri hanno su di noi». È solo uno degli slogan di «un processo di destrutturazione» a cui occorre educare le nuove generazioni «per liberarle dagli stereotipi imposti dalla società». Almeno così si è sentita ripetere per due ore A. M., docente di Educazione fisica di Verona, durante un incontro frutto del protocollo d’intesa fra il ministero dell’Istruzione e l’associazione Soroptimist, volto a sponsorizzare il progetto pilota “Prevenzione della violenza contro le donne: percorsi di formazione-educazione al rispetto delle differenze”.
L’APPUNTAMENTO. «Avevo saputo dell’esistenza del progetto dal sito dell’ufficio scolastico territoriale – spiega A. M. a tempi.it – e che qui a Verona si sarebbe tenuto il 15 gennaio». Rivolto dal Miur ai direttori generali degli uffici scolastici regionali al fine di formare «alcuni docenti delle scuole di ogni ordine e grado» per «favorire nei giovani l’acquisizione della cultura del rispetto, contro la discriminazione e la violenza di genere», l’iniziativa si articola in dieci moduli promossi in ogni Regione italiana da gennaio fino alla fine di maggio. «Nella data stabilita mi sono recata presso l’ufficio scolastico provinciale di Verona». Fra i relatori dell’incontro c’erano il dirigente dell’Ufficio scolastico territoriale di Verona, Stefano Quaglia, la docente di sociologia dell’organizzazione all’università di Trento e coordinatrice del Centro studi interdisciplinari di genere Barbara Poggio, la docente dell’Università degli Studi di Verona Antonia de Vita, Augusta Celada dell’Ufficio scolastico regionale Veneto e la dirigente scolastica Dina Nani.
CENERENTOLO. «Le docenti hanno parlato per due ore della necessità di destrutturare e decostrire le differenze fra i sessi a scuola, sul lavoro, negli ambiti sportivi e in tutta la società, mediante il cambiamento del linguaggio, dei testi e delle favole. Spingevano a chiamare uomini e donne con terminologie identiche, affinché i bambini capissero che la sessualità è una scelta indipendente dal sesso biologico con cui si nasce». E «si faceva notare agli insegnanti come tutto fino ad oggi, senza che nessuno se ne fosse mai accorto, fosse profondamente discriminante. Come esempi portavano le fiabe di Biancaneve e Cenerentola dove la donna è presentata o come debole e bisognosa del principe azzurro o come figura maligna. Gli uomini, al contrario, come figure forti e capaci di risolvere le situazioni». Un fatto che, spiegavano i relatori del corso, andava superato cominciando «a parlare non solo di Cenerentola, ma anche di Cenerentolo» oppure adottando «giochi di ruolo, come quello introdotto nell’asilo di Trieste, in cui i bambini si truccano o si vestono da bambine e viceversa». Attività volte a liberare i piccoli dai luoghi di oppressione come «la famiglia, la scuola, i luoghi di lavoro, i gruppi dei pari e dei contesti sportivi».
ALLARGARE LA FORMAZIONE. È stato dopo queste affermazioni che A.M. ha deciso di prendere la parola e intervenire: «Come docente di Educazione fisica ho fatto presente loro che proprio la biologia porta le donne e gli uomini ad assecondare le proprie caratteristiche, concentrandosi ad esempio sulla coordinazione nel primo caso e sulla forza nel secondo. “Come slegare le inclinazioni derivanti dalla componente fisica diversa, senza fare violenza ai ragazzi?”, ho chiesto. Altri due partecipanti hanno messo in discussione le tesi presentate. Ma i relatori, colti di sorpresa dalla nostra presenza, ci hanno liquidati chiudendo l’incontro e mi è venuto il sospetto che il suo unico scopo fosse quello di incoraggiare e comunicare una strategia a un pubblico selezionato».
Alla fine è stato chiesto ai presenti di fornire le proprie email per rendere possibile attraverso il sito dell’associazione l’accesso ai video del convegno e al resto del materiale didattico, «ma non ho mai ricevuto il permesso di entrare». Così, conclusi gli incontri che termineranno ad aprile/maggio in Lombardia, Campania, Piemonte e Valle d’Aosta, Sicilia, Liguria e Lazio con un focus sui “testi scolastici e supporti didattici in ottica di genere”, “media e stereotipi di genere”, “benessere e sessualità”, sarà possibile, come si legge sui moduli del progetto, «allargare la formazione con progetti a distanza». Grazie agli «incontri in presenza, raccolti in video e ampliati con materiali didattici», sarà costituita «la base per una piattaforma in modalità asincronica», in modo che «i/le docenti in formazione si iscriveranno e potranno parteciparvi online singolarmente (dove e quando vorranno) o collettivamente (in corsi organizzati dalle singole scuole)».

Tempi


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GENDER/CEI: QUALCUNO HA GIA' ALZATO BANDIERA BIANCA

www.rossoporpora.org – 31 marzo 2015
Scorrendo i titoli dei giornali dopo la recente conferenza-stampa al termine del Consiglio permanente, sembrerebbe che la Conferenza episcopale italiana sia decisa a contrastare seriamente la diffusione dell’ideologia del gender e i tentativi di istituire de facto un “matrimonio omosessuale” con tutte le conseguenze connesse in materia ad esempio di adozione. E’ certo questa l’intenzione – espressa con molta chiarezza e insistenza -  del presidente e anche della maggioranza del Consiglio permanente, ma purtroppo non di qualcun altro che è in posizione-chiave…
Abbiamo cercato di ragionare su quanto emerso durante la conferenza-stampa (alquanto vivace) di venerdì 27 marzo, convocata come di consueto al termine dei lavori del Consiglio permanente della Cei. E ne abbiamo tratto alcune riflessioni che si sperano stimolanti per chi ci legge.
Nell’ultimo ‘parlamentino’ della Cei si sono affrontati, e non in misura marginale, due temi antropologici particolarmente attuali anche nella società italiana: la diffusione sempre più preoccupante dell’indottrinamento dell’ideologia del gender nella scuola pubblica statale e i contenuti del disegno di legge Cirinnà, riguardante de facto il riconoscimento del cosiddetto ‘matrimonio gay’ e connessi (adozioni comprese), attualmente in esame presso la Commissione Giustizia del Senato della Repubblica.

SUL PRIMO TEMA, QUELLO DELL’INDOTTRINAMENTO GENDER. Dai titoli di stampa, radio e tv il segretario generale della Cei (che ha introdotto l’incontro e poi abbozzato delle risposte alle domande dei giornalisti) è parso scatenato contro l’indottrinamento gender. Diversi titoli suonavano così: “Galantino, teoria del gender: “La Chiesa farà la sua parte”; e nei resoconti trovavano ampio riscontro le dure dichiarazioni di principio – del resto non nuove sulla sua bocca (vedi quelle di fine gennaio sul ‘gender’come “polpetta avvelenata”, al termine del precedente Consiglio permanente). In realtà le cose non stanno proprio così.
Andiamo con calma. Quali, secondo lo statuto della Cei (art. 31) i compiti del segretario generale? “Il Segretario generale svolge le sue funzioni in tutte le attività della Conferenza, promuovendone lo sviluppo e il coordinamento secondo gli orientamenti dell’Assemblea generale, del Consiglio episcopale permanente e della Presidenza”(seguono diversi punti in dettaglio). 
Sulla pericolosità dell’indottrinamento dell’ideologia gender e sulla necessità di agire insiste da tempo, in particolare nelle sue prolusioni, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei. Qualche esempio. 15 febbraio 2014: “E’ in atto una strategia persecutoria, un attacco per destrutturare la persona e quindi destrutturare la società, mettendola in balia di chi è più forte e ha tutto l’interesse a che la gente sia smarrita”.  24 marzo 2014: “Si vuol fare della scuola dei ‘campi di rieducazione’, di ‘indottrinamento’? I genitori hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati?(…) I genitori non si facciano intimidire, hanno il diritto di reagire con determinazione e chiarezza: non c’è autorità che tenga”. 23 marzo 2015: “Una manipolazione da laboratorio, dove inventori e manipolatori fanno parte di quella governance mondiale che va oltre i governi eletti e che spesso rimanda ad organizzazioni non governative che, come tali, non esprimono nessuna volontà popolare. Vogliamo questo per i nostri bambini, ragazzi, giovani? Genitori che ascoltate, volete questo per i vostri figli? (…) Reagire è doveroso e possibile, basta essere vigili, senza lasciarsi intimidire da nessuno, perché il diritto di educare i figli nessuna autorità scolastica, legge o istituzione politica può pretendere di usurparlo. E’ necessario un risveglio della coscienza individuale e collettiva, della ragione dal sonno indotto a cui è stata via via costretta. Sappiate, genitori, che noi pastori vi siamo e vi saremo sempre vicini”. 
Nel comunicato-stampa sui lavori dell’ultimo Consiglio permanente (23-25 marzo) si legge, a proposito della parte ‘antropologica’ qui sopra citata della prolusione del Presidente: “L’attenzione e la convinta adesione dei Vescovi sono andate anche all’educazione, con l’avvertenza a contrastare l’ideologia del gender”.
La pericolosità dell’indottrinamento gender è denunciata – va ricordato - ormai frequentemente anche dalla Chiesa universale, con papa Francesco. Il quale il 16 gennaio 2015, durante l’Incontro di Manila con le famiglie, ha detto: “Esistono colonizzazioni ideologiche che cercano di distruggere la famiglia (…) Come famiglie dobbiamo essere molto molto sagaci, molto abili, molto forti per dire ‘no’ a qualsiasi tentativo di colonizzazione ideologica” . E tre giorni dopo, nel volo di ritorno da Manila, ha rimandato all’indottrinamento perseguito dalle dittature del secolo scorso, ad esempio attraverso lo strumento della Gioventù hitleriana.
Ebbene, come intende reagire il segretario generale della Cei agli stimoli forti del cardinale presidente (suo superiore diretto) e del Consiglio permanente all’azione, con il Papa (il quale l'ha nominato) che non risparmia certo l’invito a resistere?
Nell’introduzione della conferenza-stampa di venerdì, il predetto segretario generale  ha solo citato di sfuggita, tra gli altri argomenti trattati nel Consiglio permanente, quello dell’ideologia gender, considerata inaccettabile. Sollecitato da noi già con la prima domanda a dire che cosa la Cei aveva e avrebbe fatto concretamente in materia, il Segretario ha subito puntualizzato – con evidente e già ben conosciuto fastidio per il movimentismo spontaneo della società civile – che non si sarebbe trattato di promuovere o appoggiare “mobilitazioni di piazza” e di “condurre battaglie ideologicheGuai a parlare di mobilitazione, piazza, battaglia… nel dizionario del segretario generale della Cei devono essere considerate parolacce, delle peggiori (tuttavia ci pare di ricordare che un certo Paolo di Tarso ha scritto: “Ho combattuto la buona battaglia”…) Il segretario generale è stato categorico:“La Chiesa intende fare e sta facendo la sua parte” contro l’indottrinamento. “Concretamente come, monsignor Galantino? Con giornate di sensibilizzazione, magari una lettera pastorale?” “Con la formazione culturale. Non in maniera ideologica, ma con la testa, in modo razionale”. Perché “la semplificazione è veramente una brutta bestia. Alla fine finisce col far affrontare temi seri, gravidi di conseguenze, in maniera poveramente e disperatamente ideologica”. Insomma, abbiamo capito: per reagire concretamente all’attivismo concretissimo dei fautori del gender bisogna far cultura, così da formare le coscienze. “Certo, monsignor Galantino, è vero che una coscienza ben formata è importante….ma perché lo sia ci vuole del tempo. Lei pensa di contrastare l’indottrinamento con i convegni culturali di settore? Lo sa quale grande impatto sull’opinione pubblica hanno tali convegni? C’è invece da affrontare un problema tanto urgente quanto importante, qui e subito!” Niente da fare. Per monsignor Galantino c’è da perseguire la formazione culturale, per sua natura a lungo termine. Intanto i fautori dell’indottrinamento svolgono un’azione costante, capillare, invasiva. La nota lobby ha a disposizione i grandi mass-media, le trasmissioni faziose e i dibattiti televisivi squilibrati, certe sentenze della magistratura, l’Europa di Bruxelles e di Strasburgo, diverse Ong di malmeritata buona fama, una bella schiera di politici agguerriti che puntano a far approvare leggi liberticide e contro la famiglia, associazioni di genere che – con la complicità più o meno involontaria della presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Istruzione – si infiltrano in ogni sorta di corsi scolastici, meglio se già dall’asilo. Tutto ciò, però, al di là delle dichiarazioni di principio, sembra non allarmare veramente il segretario generale della Cei. Che si rifugia nello stimolo al lavoro culturale, certo necessario ma di tempi biblici, ignorando de facto la volontà di agire subito espressa dal suo presidente e del Consiglio permanente. “Sappiate, genitori, che noi pastori vi siamo e vi saremo sempre vicini”, così aveva detto il cardinale Bagnasco. Ma non aveva fatto i conti con il suo segretario generale…

SUL SECONDO TEMA, QUELLO DEL DISEGNO DI LEGGE CIRINNA’ SULLE “UNIONI CIVILI”. Anche qui, il segretario generale della Cei ha fatto subito dichiarazioni di principio contro il testo, “una forzatura ideologica, (…) un tentativo, ancora una volta, di equiparare realtà che di fatto sono diverse tra loro”, matrimonio e unioni tra persone dello stesso sesso. Richiesto di entrare un po’ più nei dettagli, ha risposto:Ci sono alcuni particolari che non convincono. “Quali particolari?” si chiede dalla sala. Nebbia fitta per il segretario generale.
Confrontiamo tale dichiarazione con altre due sullo stesso argomento. Dapprima con un corsivo non firmato dell’ “Avvenire”, quotidiano della Conferenza episcopale italiana (26 marzo): “Era difficile concentrare in un solo testo di legge una sfilza così ampia di contraddizioni giuridiche e di incongruenze antropologiche come quelle raccolte dalla senatrice del Pd Monica Cirinnà nel disegno di legge che la Commissione Giustizia di Palazzo Madama ha adottato come testo base sulle ‘unioni civili’ “. Ultima dichiarazione, quella di un’eurodeputata pd della cosiddetta ‘ala cattolica’ (vedi voti recenti in favore delle risoluzioni della nota lobby a Strasburgo, a firma Tarabella e Panzieri): “ C’è l’esigenza di rivedere alcune ambiguità e forzature che finiscono col configurare non già delle unioni civili, ma condizioni che richiamano la disciplina matrimoniale”. Domanda facile facile: la dichiarazione del segretario generale della Cei è più vicina alla chiara presa di posizione di “Avvenire” o alla fumosa contorsione dell’ ala cattolica’ del Partito democratico, il cui segretario è anche presidente del Consiglio? Mica si tratterà, parlando terre à terre,soprattutto di non disturbare il manovratore e le associazioni cattoliche che ruotano nella sua galassia, poco inclini ad apprezzare chi testimonia pubblicamente in difesa della centralità della famiglia e contro l’ideologia gender  
Conclusione: in tutta Italia cresce sensibilmente la volontà di semplici cittadini, genitori, docenti, associazioni in maggioranza ma non necessariamente solo cattoliche (non le citiamo, perché correremmo il rischio di dimenticarne immeritatamente qualcuna) che vogliono impegnarsi contro il dilagare dell’imposizione dell’ideologia gender. Spesso gli incontri si fanno in sale parrocchiali, che si riempiono di persone assetate di informazione. Ci è capitato di assistere recentemente a una serata presso la parrocchia romana di sant’Ippolito a piazza Bologna: occupati tutti i 300 posti a sedere, si sono dovute aggiungere decine di sedie in fila contro le pareti della sala cinematografica. Un mese e mezzo fa, sempre nella stessa parrocchia, un’altra serata con quasi trecento persone. Così capita anche in diverse parti d’Italia: è un vero patrimonio di speranza. Però nessuno si faccia troppe illusioni su un sostegno vero -che sarebbe organizzativamente preziosissimo- della Conferenza episcopale italiana in quanto tale (fortunatamente in alcune diocesi ci sono singoli vescovi coraggiosi). Il fatto è che nella Cei, a dispetto della volontà del suo presidente e del Consiglio permanente, qualcun altro – cui è demandato un ruolo organizzativo chiave - ha già alzato, de facto, bandiera bianca.

Reportage sui cristiani in Iran





Cristiani in Iran: c’è sicurezza, ma si vive come in un ghetto (II)
di Bernardo Cervellera
Le sparute comunità armene, caldee e latine hanno libertà, ma all’interno dei confini delle chiese. I musulmani che chiedono il battesimo devono essere mandati via per evitare “un forte contrasto con il governo”. Il modello è quello di una tolleranza fra gruppi contigui, ma senza dialogo fra loro. La nuova cattedrale della Chiesa latina. I timori che le aperture di Rouhani siano solo passeggere.
Teheran (AsiaNews) – Riportiamo di seguito la seconda parte di un reportage sulla vita dei cristiani in Iran. La prima parte è stata pubblicata ieri col titolo “Cristiani in Iran: con Rouhani qualcosa si ...



Cristiani in Iran: con Rouhani qualcosa si muove (I)
di Bernardo Cervellera
Mentre a Losanna i potenti del mondo cercano di trovare un accordo sul nucleare iraniano, la situazione all’interno del Paese sta cambiando. Pur con tutte le limitazioni note alla libertà di coscienza, i circa 350mila cristiani che vivono in Iran godono di una libertà garantita senz’altro maggiore rispetto ad altri Paesi della regione. Anche se non mancano problemi e violenze. Prima parte di un reportage...

L'innocenza scampata al diluvio del peccato

rosary and lights

Il  tweet di Papa Francesco: "La Confessione è il sacramento della tenerezza di Dio, il suo modo di abbracciarci." (31 marzo 2015)

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L'innocenza scampata al diluvio del peccato di Paola Belletti
Solo Dio. Solo Dio basta. Lo so che Sante e Santi di grande calibro lo hanno detto e pagato fino in fondo. Questo che con resistenza a volte rabbiosa io solo intuisco. E respingo.

E lo hanno dimostrato con la loro vita che allunga le dita fino a noi. Infastidendo la nostra assuefazione alla normalità senza l'Eccezionale. Perché per tutti i Santi, pazzi di Dio, solo Lui bastava. E per questo ogni formica raccontava un paragrafo della storia d'amore tra loro e Lui. E loro e Lui e tutti gli altri. I fratelli. I nemici, gli amici.

Ma anche se, anzi, visto che, non arriverò alla santità compiuta e cristallina in questa tappa terrena e avrò tuuuuuuuuutto il tempo di approfondire e sviscerare l'argomento in Purgatorio so, a tratti lo desiderio anche senza paura, che se non rinuncio a tutto per Dio non sarò mai felice.

Che devo disprezzare tutto e amare solo Lui. Essere in qualche modo vergine, cercare una forma di castità di fronte a tutto e tutti e così finalmente, decisamente possedere tutto e tutti. E amare tutti.

Ha fatto bene il Signore a non accontentarmi. Volevo un figlio maschio. Me ne ero già innamorata. Avevo già attivato anche tutto un sistema di gelosia preventiva per eventuali future aspiranti nuore. Tutte le mie armi per mettere in atto un attaccamento viscerale e possessivo stavano affilando le lame per difenderlo, il mio figlio maschio, da quelle ragazze che, vedendolo così figo, avrebbero fatto di tutto per conquistarlo. Nel fiore della giovinezza. Con i muscoli tonici, le spalle larghe. E quella bocca, la si vedeva già in ecografia. Una boccuccia da baci. Solo io posso baciarlo, urlavo già dentro di me.

Ha fatto bene Dio a non accontentarmi. Ad appoggiare sulla mia schiena questo macigno. Ha fatto bene. A ficcarci in una situazione di continua estenuante incertezza. Prima era l'incertezza del dilemma sano/malato. Malato. Poi tra malato ma recuperabile. Non molto recuperabile. Poi tra operabile con grandi possibilità di ripresa e di accettabile normalità. Operato; tutto è andato perfettamente, è andato benissimo l'intervento. Ma non serve quasi a niente. Poi sui possibili progressi o arresti di sviluppo. Ci sono addirittura degli evidenti regressi. Poi sulla necessità di un altro intervento che però riguarda un aspetto piccolo in un quadro così grave. Come dire: “Signora, che cosa spera. Ma sì glielo facciamo, però...” (C'è una sola dottoressa per ora che ha un atteggiamento magnifico. Caldo e dritto. Vicina ma al suo posto. Preparata e positiva. Diretta, senza sconti e alleata dei genitori. Ci sono medici bravissimi, Deo gratias. Che poi anche avere a che fare con certi genitori...perché guardate tutti me?).

Eppure andiamo avanti. Facendo tutto. Conservando la speranza. Lo dico un po' sulla difensiva. Lo dico qua ma vorrei arrivasse dritto dritto in alcune teste. Perché mentre hai l'ardire di vivere in mezzo alla gente, il tuo figlioletto ammalato che ha smentito tutti i “vedrai che si sistema tutto, che andrà tutto a posto. Non farmi preoccupare, brinderemo insieme” stuzzica in modo quasi irrefrenabile in alcuni il desiderio di dirti la cosa risolutiva. Per questo la stessa signora mi ripete da qualche mese che c'è una piscina speciale dove “bla bla e perché non ci vai?”, incurante dell'estenuante slalom tra bronchiti acute e gastroenteriti che colpiscono Ludo in quanto fratello minore.

Quanti, nonostante abbia cercato di spiegare che il fatto di essere realisti non è uguale a non sperare, ci rimproverano questo o quello. Rendersi conto della situazione non significa affatto che abbiamo ceduto a fatale o livida rassegnazione. Non smettiamo di cercare occasioni per trovare nuovi elementi, pensare ad altri approcci. Lo facciamo. Nella riconquistata normalità della vita.

Vorrei tanto che lo capissero tutti quelli che hanno a che fare con me. Aspirazione molto poco realistica, questa. Presuntuosa e infantile. Non è questa la via. Non è questa, davvero.

O l'altra mamma, che ha una bimba con problemi che a me sembrano davvero minimi, mi ricorda che se voglio aiutare davvero il mio devo fare come lei. O la supplente mai vista prima né dopo che mentre chiudo il baule carico di zaini e la macchina di figli affamati nel parcheggio della scuola mi chiese se conosca lo specialista Maestro dei Professoroni.

Ho paura, a volte, delle persone. Perché ho cicatrici che non si vedono. E allora per rispettare e accogliere la signora che in buona fede mi dice per l'ennesima volta che ha un cugino con quella patologia e poi ha preso quella medicina o conosce quel bravo medico e oggi lo sente così magari poi lo chiamo io e ci porto mio figlio, ascolto, annuisco e sorrido; ma le cicatrici così fresche e rosse riprendono subito a stillare sangue.

Così mi ritrovo a guardare in faccia la mia debolezza metastatica, che ha già aggredito tutto il mio spirito e le ossa. A volte questi incontri al limite della semplice cortesia o conversazione tra conoscenti, per il mio interlocutore, si traducono per me in pomeriggi di prostrazione interiore. Non è questa la strada. Non è questa. Mi ripeto che Egli solo basta. Solo Lui. Solo Lui. Solo Lui.

Che so più grande anche dell'altro dilemma:
  1. Chiedi di più, più forte e meglio perché il Signore i miracoli li fa;
  2. Accetta e accogli la Sua volontà perché Lui ha un piano nel quale la malattia di Ludo è un bene, arrenditi.

Sono già dentro di me queste voci, come due solisti che ogni tanto escono dal coro di una tragedia.

Le parole di altri di solito ottimamente intenzionati le risvegliano soltanto. Non ha nessuna colpa, l'altro.

No. Non ci sto. Non è questo il dilemma. Non è così che Dio usa i bambini. Per compensare brutture e orrori e placare gli inviti alla Sua terribile vendetta messi in atto chissà da chi, chissà dove sotto il tetto del cielo. Se è così voglio i nomi. Li voglio colpire con le mie stesse mani. Chi è che sta rimandando la propria conversione o si sta incistando nel peccato così da rendere necessario questo dolore?

E se ci fosse anche il mio nome, nella lista? E' così che fa i Suoi conti il Signore? Sì, in un certo senso. Ma non così. Non nel modo tutto umano, tutto nostro che ragiona a colpi e contraccolpi, che sa così poco ancora dell'amore vero. Che crede giustizia le sue pretese.

Non è così che fa Dio. Se non misteriosamente. Se non dispiacendosene Lui per primo. Se non ricordando a Se stesso che da Cristo in poi anche noi siamo vittime e la terra un altare.

L'innocenza scampata al diluvio del peccato che affiora nei bambini, in quelli che soffrono è preziosa. La contemplo. La adoro. Cerco una traccia divina. Non la vedo ma c'è. La sua pelle profuma; le sue gambette così smagrite mi avevano promesso muscoli forti per reggersi e correre dietro a un pallone o in braccio alla mamma. O per rialzarsi con le ginocchia sbucciate per la prima volta in bici senza rotelle.

C'è un segreto nascosto in questa storia. E a me cosa è chiesto? Per ora di accudirlo, di amarlo, di ridere, sbuffare, stimolarlo come posso e lasciarlo anche da parte perché sono stanca o pretesa da Martina, per esempio. Lei non lo dice ma ha bisogno. Sono la sua mamma.

L'innamoramento c'è ed è quello straziato di un'amante alla quale gettano da cavallo l'amato dopo averlo picchiato e lasciato moribondo. La bellezza c'è tutta. La bocca è da baci. La pelle profumata. L'orizzonte futuro invece è inospitale. Non ci si può andare. Manca l'acqua. Credo l'aria, anche. Si soffoca, nel deserto. Allora torniamo indietro. E ci mettiamo quieti accucciati nel presente. A lasciarci educare all'esclusività. All'amore avido di Dio che ci vuole interi. Non un cuore fatto a fette che ogni tanto Gli buttiamo perché ci fornisca il servizio. Il servizio di avere un senso da trasmettere ai figli, il servizio di avere un sommo bene che come basamento conficcato nel terreno possa reggere tutte le nostre ardite costruzioni. Il servizio di assicurarci la certezza di un dopo perché la fame di “sempre” è umana.

Ti ama davvero Dio e quindi ti spezza. Perché se non ti spezzi non Lo cerchi. Se non ti apri non Lo fai entrare. Se non allarghi il cuore a suon di preghiere e digiuni e gioia e bellezza riconosciuta allora a volte ti fa la grazia di mettertici dentro un divaricatore. Se non ti fa martire devi farti monaco.

Forse la risposta provvisoria sarà anche in un dolore che si fa più quieto. Sarà il comporsi in una lotta che urge ma ogni santo giorno e allora deve farsi quotidiana, normale.